E&M
2003/5
Indice
La tribuna dei lettori
Focus intervista
La responsabilità sociale delle imprese. Intervista a Roberto Maroni, Ministro del Welfare
Area Strategia
Le tecnologie di rete nei distretti industriali: un potenziale da sfruttare
Il futuro dei distretti tra scelte d’impresa e azioni di metamanagement
Imprese distrettuali e strategie di crescita: verso un maggiore controllo delle attività
Area Pubblica Amministrazione
Federalismo, controllo e governance
Le riforme di accounting nel settore pubblico: “a call for further qualitative research!”
Sistemi informativi e principi contabili per gli enti locali: linee evolutive e criticità
Fuoricampo
Articoli
La distribuzione nel sistema moda italiano: verso nuovi modelli di business
Nuova sfida nel commercio al dettaglio: sono fedeli i consumatori… alle carte fedeltà?
Uguali o diversi? Per un utilizzo consapevole del diversity management
Creazione di valore e valutazione delle performance: l’applicazione dell’EVA™ alle banche
Fotogrammi
Perché bisogna battersi per difendere e ampliare il ruolo dei mercati
Scarica articolo in PDFIn questi lunghi mesi di economia stagnante le imprese avvertono la concorrenza come una pressione insostenibile. È normale che ciò accada: quando l’offerta diventa superiore alla domanda – vuoi perché quest’ultima si è contratta, vuoi perché sono entrati in campo nuovi concorrenti, inclusi quelli provenienti da paesi a più basso prezzo o a più alta qualità – lo spazio vitale si restringe. Succede ciò che si verifica in un territorio quando le risorse non sono sufficienti per tenere in vita la popolazione ivi insediata.
Quando la concorrenza diventa così intensa, anche coloro che normalmente si professano a favore del mercato ripiegano su posizioni molto più incerte: partono chiedendo l’eliminazione di veri (nel qual caso è più che legittimo) o presunti sussidi e barriere protezionistiche dei concorrenti; se ciò non basta, domandano sussidi a proprio favore (che sono una forma di distorsione del mercato); possono andare oltre, invocando l’innalzamento di tariffe nei confronti dei concorrenti esteri (altra misura antimercato); quando stanno veramente male, sono capaci perfino di invocare l’intervento dello stato nel capitale, magari dopo avere tuonato per anni contro lo statalismo. In breve, da ferventi sostenitori del laissez-faire, della liberalizzazione e della privatizzazione, sotto la pressione insostenibile della concorrenza si convertono in ben altra religione, della quale finiscono con il diventare sostenitori accaniti. A dire il vero, questi capovolgimenti di fronte non sono un’esclusiva italiana. Succedono ovunque, anche negli Stati Uniti d’America, che sono la patria per eccellenza dell’economia di mercato, come si è visto di recente con l’istituzione delle tariffe contro l’acciaio importato.
In un passato editoriale avevo segnalato le pulsioni e i comportamenti contrastanti che possono avere gli imprenditori e chi guida le imprese di fronte al mercato: da un lato, vorrebbero mercati fortemente concorrenziali quando devono fare i loro acquisti (di materie prime, di componenti, di macchine) e quando ricercano capitali; dall’altro, vorrebbero godere di posizioni di monopolio nei loro mercati di sbocco. Inoltre avvertono, anche istintivamente e senza avere fatto studi di economia, che il mercato è il meccanismo che legittima e regola, conciliando il fatto privato con l’interesse pubblico, la proprietà privata, l’esercizio d’impresa e lo stesso perseguimento della massimizzazione del profitto: ma sono tentati di sottrarsi alla sua disciplina non appena il mercato di sbocco diventa troppo competitivo, con accordi sui prezzi o sulle quantità prodotte, con acquisizioni per spegnere la concorrenza, con la richiesta di impedire nuovi entranti.
Queste pulsioni contrastanti spiegano il comportamento ambiguo che i “capitalisti” (intesi come i proprietari e conduttori delle imprese private operanti in un’economia di mercato) hanno avuto nel corso del tempo verso le iniziative politiche rivolte a rafforzare il funzionamento dei mercati, come le eliminazioni dei dazi, l’abolizione di vincoli di entrata, oppure l’istituzione di leggi antitrust.
È uscito ora un libro, per il momento in lingua inglese con Crown Business di New York ma in procinto di essere tradotto in italiano, che approfondisce questo tema, contenente nel titolo la tesi che propugna: Saving Capitalism from the Capitalists, di Raghuram G. Rajan e Luigi Zingales: salvare il capitalismo dai capitalisti. È un libro di statura, che combina il meglio delle teorie sulla nuova finanza (alcune delle quali frutto degli stessi autori), una prospettiva storica lunga, un’analisi che attraversa più paesi, con un procedimento per cui la struttura del problema viene analizzata prima da un punto di vista logico, poi surrogata dall’evidenza di una serie di analisi empiriche degli stessi autori e di altri studiosi.
È un libro che va letto perché aiuta a capire la configurazione che assumono i vari sistemi economici e perché l’economia di mercato, a dispetto dei suoi pregi, è uno stato ideale e instabile, materializzatosi in alto grado solo in pochi momenti della storia e solo in alcuni paesi. Benché gli autori siano noti per essere freddi e rigorosi analisti, il libro è quasi un manifesto politico a favore dell’economia di mercato, e dovrebbe essere occasione di riflessione per tutti coloro che intendano essere protagonisti del sistema nel quale vogliono vivere.
Perché l’economia di mercato va difesa
Ho detto che il libro affronta la questione delle pulsioni contrastanti e ambigue nei confronti del mercato di coloro che, nel pensare comune, sono ritenuti i più ferrei sostenitori dell’economia di mercato: i capitalisti. In realtà, il libro va ben oltre. Infatti, spiega perché l’economia di mercato non è un risultato automatico dello sviluppo economico bensì la sua premessa, e che non nasce affatto spontaneamente ma è il risultato di coalizioni di interessi che nella storia possono formarsi ma anche, con altrettanta facilità, dissolversi, specialmente nelle fasi di crisi economica. La conclusione del libro è che l’economia di mercato – intesa come economia nella quale i mercati sono lasciati liberi di espletare le loro funzioni di allocazione delle risorse e del prodotto – è uno stato instabile, soggetto alla dinamica sociale e politica, che tende più spesso a essergli avversa – e gli autori spiegano il perché – piuttosto che favorevole. Da ciò gli autori traggono alcune indicazioni di politica economica di cui si dovrebbero dare carico coloro che ritengono che questa forma di organizzazione dell’attività produttiva sia quella preferibile sia per i suoi effetti economici sia per la mobilità sociale.
Il libro, in realtà, parte da un punto che, secondo gli autori, è solidamente provato: non c’è modello di organizzazione dell’attività economica migliore di quello dell’economia di mercato, posto che si riesca a ottenere e mantenere mercati efficienti e competitivi. Questo modello non solo consente un maggiore benessere collettivo, ma produce anche positivi effetti sociali perché, da un lato, consente a chiunque abbia le capacità – a prescindere dal censo, dallo status di partenza, dalle relazioni – di realizzare i propri progetti e, dall’altro, impedisce a chi abbia raggiunto una posizione di supremazia di poterla usare per estrarre rendite a danno degli altri. Quindi, è il modello di organizzazione che più favorisce la mobilità sociale, eliminando la possibilità di rendite di posizione, favorendo l’innovazione, alimentando le energie nuove.
Questo punto di partenza potrebbe sembrare un assunto: quasi una base ideologica, tenendo anche conto che gli autori fanno ricerca e insegnano nel tempio del liberismo (l’Università di Chicago). Ma sono ricercatori rigorosi, e non ideologi, e quindi corredano questa loro posizione di partenza con l’evidenza di una lunga serie di studi che testimoniano e provano i positivi effetti economici e sociali di un’organizzazione economica basata sui mercati. Potrebbero, in questa fase storica, chiudere la partita con i modelli a gestione centralizzata, semplicemente portando l’evidenza del fallimento generalizzato di questi ultimi. Ma preferiscono l’evidenza di ricerche rigorose, multiple e specifiche. Proprio per questa posizione, che scaturisce non da una base ideologica ma dall’interpretazione delle evidenze fattuali, è difficile classificare la loro posizione di destra o di sinistra. Anche per quanto riguarda gli anelli successivi del ragionamento vale la stessa considerazione: sulle posizioni di questi autori si potrebbe fondare l’azione politica di una sinistra moderna, che attribuisce grande peso alla parità delle opportunità e alla mobilità sociale, così come quella di una destra progressista capace di tenere a bada gli istinti conservatori e protezionistici di certe componenti tradizionali della destra.
Perché l’economia di mercato va difesa dai “capitalisti”
Per tornare all’impianto logico di Rajan-Zingales, dopo avere dimostrato i benefici generali che un’autentica economia di mercato apporta alla società nel suo complesso, gli autori si domandano perché pochi paesi, e per periodi limitati, abbiano lasciano operare i mercati liberamente all’interno e verso l’esterno, nei settori dei beni come in quelli dei servizi e, soprattutto, nel campo della finanza.
Si interrogano sul perché, nel corso della storia, siano prevalsi i periodi di chiusura agli scambi internazionali, sul perché lo stato di concorrenza perfetta dei mercati sia stato così spesso soppiantato con mille espedienti e con impedimenti all’entrata di nuovi operatori, sul perché le azioni antitrust siano state assenti (come è successo per molto tempo in molti paesi) oppure blande e inefficaci. In breve, si sono posti il quesito centrale del loro lavoro: perché questa forma di organizzazione delle attività economiche – pur essendo superiore nella produzione di benessere collettivo e di mobilità sociale – è riuscita a imporsi solo in pochi paesi, e anche in quelli per periodi limitati?
La loro risposta è la seguente: l’economia di mercato, anche se superiore sul piano dei risultati, poggia strutturalmente su basi politiche fragili perché, per la sua stessa natura, è una minaccia continua per gli incumbents, cioè proprio per coloro che dominano la scena del momento e hanno il potere, incluso quello di influenzare la legislazione. È una minaccia perché li costringe al confronto continuo con la concorrenza e li espone al rischio di essere sopravanzati da nuovi entranti. Inoltre, la presenza di un mercato vibrante, poiché causa il soccombere delle imprese pigre, inefficienti, che non innovano, attiva molti altri avversari contingenti, che sono quelli colpiti dai fallimenti e dalle chiusure: in primo luogo i lavoratori e i loro rappresentanti sindacali, ma anche i rappresentanti politici delle comunità locali colpite dalle chiusure. Costoro, che in altre condizioni rappresentano interessi divergenti o comunque diversi, nella circostanza si trovano alleati naturali con gli incumbents, dando luogo a blocchi politicamente potenti capaci di indirizzare la politica contro il mercato. L’esempio concreto e attuale – nel cuore dei sistemi di mercato – è quello già citato dei produttori d’acciaio USA, sulle istanze protezionistiche dei quali si sono mobilitati, per premere sul governo e sul legislatore, 50 000 lavoratori in una marcia su Washington.
È questa strutturale fragilità politica del sistema di mercato che preoccupa gli autori in un momento in cui non sembrerebbero esservi alternative al modello capitalistico. Essi temono che gli effetti altrimenti normali del funzionamento del mercato (chiusure delle imprese meno efficienti), amplificati in questa fase storica per le scelte pro mercato compiute negli anni passati (con l’abbattimento dei dazi e delle barriere fra paesi, con la liberalizzazione di molti settori prima in regime di monopolio, con le privatizzazioni), ulteriormente potenziati dalla congiuntura mondiale negativa che forma ampie sacche di sovracapacità produttiva, possano innescare correnti ideologiche, movimenti sociali e forze politiche in grado di invertire il corso della storia che sembrava ormai pendere irreversibilmente a favore del mercato.
Il comportamento di rapina di certi esponenti del capitalismo (come le sottrazioni di risorse a beneficio dei vertici nei casi di Enron e di altri simili, ma anche i compensi esagerati, non giustificati dai risultati, di certi amministratori delegati in grandi imprese senza azionisti di riferimento), le distorsioni nel funzionamento del mercato che si sono palesate durante il boom borsistico, i comportamenti truffaldini di alcuni operatori che invece avrebbero dovuto fungere da presidio al corretto funzionamento di mercato, sono ulteriori elementi che si aggiungono al quadro e danno forza a coloro che predicano contro il mercato, e sono già molti: i no-global, i fautori del protezionismo che si annidano a destra e a sinistra, i sostenitori della presenza pubblica nell’economia, anch’essi presenti in tutti gli schieramenti politici, i movimenti localistici sui quali sono sorti partiti radicati, anche se delimitati geograficamente, gli incumbents, fra i quali anche i monopoli pubblici o ex pubblici recalcitranti a farsi sottoporre alla disciplina della concorrenza.
Il titolo del libro – provocatorio, ma non tanto – nasce da questo quadro interpretativo: sono gli stessi capitalisti che vivono sull’economia di mercato quelli che possono ucciderla, alleandosi, quando sono perdenti, con coloro che, per colpa della loro inefficienza, sono stati trascinati anch’essi nella crisi. Nel tentativo di spiegare la fragilità politica del mercato, gli autori si imbattono in un problema di natura politica: poiché i perdenti (le imprese che falliscono, i lavoratori che perdono il posto, le comunità che vedono scomparire le loro imprese) sono pur sempre una minoranza rispetto a quelli che cavalcano con risultati positivi la concorrenza, come possono essere così forti da riuscire a imporre le loro posizioni, tenuto conto che il resto – la maggioranza – trae beneficio dalla presenza di mercati competitivi?
La spiegazione si dipana su due diversi piani storici: prima dell’avvento della democrazia e dopo. Prima, la spiegazione sta proprio nella sostanza stessa delle forme di governo assolutiste: chi ha il potere assoluto non ha alcun rispetto per i diritti di proprietà (esclusi i propri) e non ha vantaggi dall’esistenza di mercati competitivi. Il potere assoluto, sorretto dall’uso della forza militare, consente arbitri sulle proprietà altrui; consente di istituire monopoli a proprio beneficio; regola l’esercizio dell’attività economica a proprio piacimento e lascia quel tanto di libertà, nello svolgimento di attività produttiva e commerciale, che collima con il proprio personale interesse, frenandola, impedendola, o sequestrandola quando diventa una minaccia alla sua posizione di potere. Per questo motivo gli autori considerano il passaggio alla democrazia e il riconoscimento giuridico e sostanziale dei diritti di proprietà la precondizione per lo sviluppo di un’economica di mercato.
Ma questa è solo una precondizione: anche in una democrazia questo tipo di organizzazione dell’attività economica è a rischio per le ragioni sopra dette. Il fatto che la maggioranza ne tragga vantaggio non è una ragione sufficiente affinché si mobiliti per proteggerla, per due ragioni: 1. perché i lavoratori perdenti nel gioco competitivo, anche se sono pochi rispetto a quelli che ne traggono vantaggio, sono concentrati, ben coalizzati e organizzati nella difesa dell’interesse comune, determinati nel difenderlo; 2. perché, prima di loro sono impegnati in quest’opera gli imprenditori incumbents colpiti dalla concorrenza, cioè gli imprenditori storici, quelli ben insediati nei centri di potere, in grado di influenzare i processi decisionali pubblici. Questa alleanza insolita di una minoranza organizzata – a dispetto delle regole della democrazia che vorrebbe le scelte effettuate dalla maggioranza – finisce spesso con il catturare l’agenda politica e l’appoggio dei rappresentanti nel parlamento e nel governo fino ad avere il sopravvento, perché la maggioranza, inconsapevole dei vantaggi che trae dall’esistenza di mercati competitivi, dispersa nelle proprie occupazioni, senza incentivi sostanziali a organizzarsi (perché i vantaggi ci sono, ma sono di dimensione limitata per ciascun soggetto), non si oppone agli interventi intrapresi per imbrigliare o sopprimere le forze del mercato.
In conclusione, anche nelle democrazie, per le peculiarità del loro funzionamento, dove una minoranza organizzata riesce a prevalere su una maggioranza inconsapevole dei propri interessi e incapace di organizzarsi, l’economia di mercato è a rischio. Va detto, per completare il quadro, che gli autori mostrano, anche attraverso l’analisi storica, come l’atteggiamento delle autorità pubbliche sia anch’esso tendenzialmente contro il mercato, perché sprona verso efficienza e disciplina non solo i comportamenti delle imprese, ma anche quello dei governi e del legislatore, come risulta con chiarezza con riguardo alla finanza pubblica quando si creano mercati finanziari aperti ai flussi internazionali e competitivi.
Perché si inverta la spirale che negli ultimi vent’anni ha portato il mercato a conquistare più spazio, e in più paesi, basta una crisi più profonda e più duratura di quelle semplicemente congiunturali, o l’atto unilaterale di qualche paese importante che distorca gli scambi internazionali, o il ripetersi di comportamenti truffaldini che minano la fiducia delle controparti. Per questo motivo chi ritiene che la presenza di mercati efficienti e competitivi sia un bene dal punto di vista economico, ma anche sociale e politico, non può dormire sonni tranquilli.
Gli autori, in questa analisi strutturata, pur ragionando sull’opportunità che tutta l’attività economica sia soggetta al regime di mercato, puntano l’attenzione soprattutto sul ruolo dei mercati finanziari, che considerano un a priori per il funzionamento dell’intero sistema. Su questo fronte riversano il meglio del loro sapere. Ci sono pagine illuminanti sui benefici che scaturiscono, per un paese, dal punto di vista sociale prima ancora che economico, dall’esistenza di più canali di intermediazione, di più mercati finanziari, di più istituzioni, ognuna con la propria specializzazione, di più strumenti finanziari. Il valore dell’esistenza di una siffatta infrastruttura non risalta agli occhi della maggioranza dei cittadini se non quando qualcuno di loro vuole intraprendere qualche progetto imprenditoriale avendo le idee, la tecnologia, le competenze, senza però avere i mezzi. Dalla lettura di quelle pagine che, pur senza avere scopi descrittivi, lasciano intravedere il quid in più di cui gode la realtà americana rispetto alla nostra, si possono comprendere i rilievi che i nostri imprenditori muovono al nostro sistema finanziario, nel quale domina l’intermediazione bancaria (ben venga), ma sono assenti o fragili i mercati per convogliare direttamente i risparmi verso le imprese: l’assenza di un mercato della carta commerciale, la recente e fragile presenza di un mercato dei corporate bonds, la appena nata (e difficoltosa) operatività delle cartolarizzazioni dei crediti.
Il fatto che si possano raccogliere capitali sulla base di progetti, di competenze, di controllo di tecnologie, anche senza garanzie patrimoniali, senza dovere contare su relazioni, senza l’appoggio di padrini potenti, semplicemente passando attraverso il vaglio rigoroso di analisti severi, distingue quel sistema rispetto al nostro, non a caso definito relationship capitalism, ovvero capitalismo basato sulle relazioni. Chiunque rifletta sulle vicende del nostro paese – sul modo nel quale in passato affluivano i capitali alle imprese tramite un sistema bancario fortemente politicizzato, alle mani non tanto occulte che li hanno indirizzati, soprattutto verso coloro che avevano il potere, anche quando non avevano le idee imprenditoriali giuste e la capacità gestionale, alla difficoltà, invece, di trovarli per chi era un outsider del sistema – può convenire sul fatto che un simile modello di capitalismo è meno efficiente sul piano economico e meno equo sul piano sociale.
Anche un grande libro ha zone d’ombra
Per tutti i pregi indicati, il libro dovrebbe essere sul tavolo di tutti quelli che hanno o vogliono avere una posizione sul tipo di sistema nel quale vivere: gli studiosi, gli imprenditori, i manager, gli amministratori pubblici e i politici, ma anche chi non ha responsabilità gestionali.
Va rilevato che vi sono alcune zone d’ombra di cui occorre tenere conto e un importante problema metodologico.
La prima zona d’ombra riguarda le asimmetrie che caratterizzano le aperture dei mercati internazionali fra i paesi più potenti e quelli più deboli. Sarà anche vero che, pur in presenza di queste, i paesi meno forti, e in particolare quelli in via di sviluppo, traggono maggior vantaggio dall’esistenza di mercati aperti piuttosto che il contrario, ma il mero fatto che i paesi più forti, quando fa loro comodo, chiudano le barriere in certi settori o per certi periodi di tempo, contravvenendo allo spirito del libero scambio, crea iniquità, risentimento e forti resistenze rispetto alle politiche di mercato aperto. Gli autori intravedono questo problema, tanto da portarne un esempio concreto a carico degli Stati Uniti, quello del già citato provvedimento delle tariffe sull’acciaio. Ma non trovano spazio nel loro libro per indagare a fondo su questa realtà, che è più diffusa di quanto non si voglia fare credere. Sono nel ricordo di tutti gli accordi imposti dagli americani a diversi paesi di voluntary restraint program – cioè accordi in base ai quali i paesi che diventavano troppo competitivi verso gli Stati Uniti dovevano autolimitarsi nelle esportazioni verso di essi per non vedere loro imposte tariffe o altro impedimento. La stessa dizione dei programmi, “voluntary”, è segnaletica della manipolazione del rapporto. Problemi analoghi vi sono a carico dell’Unione Europea.
È proprio di questi mesi la nascita di un movimento (il Cairns Group) di diciassette paesi, di cui quattordici in via di sviluppo, a favore della liberalizzazione degli scambi, ma di una liberalizzazione vera, che non escluda certi settori per il comodo dei paesi più sviluppati. Nel caso specifico, questi paesi invocano l’eliminazione dei sussidi all’agricoltura che distorce a loro danno i commerci internazionali, facendo leva sulle negoziazioni relative al Doha Round per fare avanzare le loro posizioni.
La differenza di potere fra i diversi paesi si riflette troppo spesso su forme di liberalizzazione asimmetriche. Queste, assieme agli altri fatti già esaminati, sono fonte non solo di contenzioso, ma anche di supporto ai movimenti antimercato.
Pur essendo vero che in linea teorica il libero mercato vince in termini di benessere collettivo, sono le forme concrete e specifiche nelle quali si manifesta, che non sono mai di piena e perfetta concorrenza, quelle che determinano i risultati collettivi. Nello schema logico di Rajan-Zingales, i paesi più forti, pur dichiarandosi i paladini dell’economia di mercato, sono troppo spesso portati a comportarsi come le imprese incumbents quando sono in procinto di soccombere alla concorrenza: rovesciano il tavolo di gioco, cambiando le regole. Se si vuole promuovere l’economia di mercato per davvero, occorre trovare rimedi a questi comportamenti.
La seconda zona d’ombra – che in realtà è un’omissione – è relativa al problema dei monopoli di proprietà pubblica. Per molti paesi europei e per quelli in via di sviluppo questa è un’area nella quale si annidano rendite rilevanti e forti blocchi di resistenza all’innovazione. In questo caso, l’intreccio fra proprietà pubblica, monopolio ex lege, prezzi amministrati, copertura delle perdite a piè di lista, bacini rilevanti di voti e, infine, esistenza di oggettivi elementi di monopolio “naturale” – come nel caso delle linee ferroviarie, tranviarie, elettriche, di trasporto del gas o dell’acqua – rendono l’introduzione della concorrenza un’opera rivoluzionaria. La commistione di interessi costituiti è talmente forte e concentrata da consentire una permanenza di rendite per anni senza che si possa intravedere da dove cominciare a riavvolgere il bandolo della matassa.
Il non avere considerato questo aspetto fa sì che le proposte che gli autori avanzano per rassodare e difendere l’economia di mercato manchino di un tassello importante.
Come sopra accennato, nel libro c’è un sostanziale e rilevante problema metodologico. In realtà, forse, più che nel libro vi è nella materia stessa. Gli autori hanno sviluppato uno schema interpretativo che procede in questi termini: 1. mercati efficienti sono preziosi per il benessere economico e sociale; 2. i mercati, però, non sorgono dal nulla, spontaneamente; 3. per funzionare bene hanno bisogno di un insieme di condizioni favorevoli (tutela della proprietà, trasparenza, istituti di sorveglianza, autorità antitrust ecc.) la cui costruzione dipende dalla volontà politica; 4. il potere, strutturalmente, ama la discrezionalità e non il condizionamento; 5. l’esistenza di mercati efficienti, poiché limita e disciplina anche il potere politico, e non solo quello economico, non è promossa in condizioni normali da chi detiene il potere (si vedano i monarchi assoluti o i dittatori); 6. anche quando i mercati si sviluppano per la congiunzione favorevole di varie circostanze, per l’avvento di un potere condizionato (monarchie costituzionali o democrazie), hanno comunque come avversari naturali contingenti coloro che soccombono alla concorrenza promossa dai mercati; 7. quelli che perdono sono un’alleanza ibrida di incumbents potenti, di gruppi organizzati di lavoratori e di rappresentanti delle comunità locali colpite che, pur essendo minoranza, per le peculiarità della democrazia catturano l’agenda politica e finiscono con il prevalere sulla maggioranza.
Avendo costruito questo impianto logico – che è del tutto verosimile – si configura un problema senza soluzioni, per la circolarità dei rapporti di causa-effetto: la nota fattispecie del gatto che si mangia la coda. Non voglio affatto dire che questo sia un difetto del libro: più probabilmente è la cruda interpretazione di un problema oggettivamente complesso. Ma è certo che, così strutturato, sembra di difficile soluzione.
Le proposte per difendere l’economia di mercato
Infatti, quelle che gli autori avanzano sono proposte di politica economica e fiscale: ovvero proposte che necessitano, per essere realizzate, della volontà politica; quella volontà politica si vede in qualsiasi contesto, anche in democrazia, tendenzialmente più incline a imbrigliare i mercati piuttosto che a promuoverne l’efficienza.
Le proposte sono le seguenti: 1. ridurre gli incentivi e la possibilità, per gli incumbents, di opporsi ai mercati con due azioni politiche: a. impedire l’eccessiva concentrazione di potere; b. fare in modo che chi controlla le risorse economiche sia capace di usarle efficientemente; 2. avere forti politiche antitrust; 3. sostituire (almeno in peso relativo) l’imposta sui redditi delle persone giuridiche con quella patrimoniale (per realizzare la condizione di cui al precedente punto 1b); 4. migliorare i sistemi di governance; 5. istituire un’imposta ereditaria quando viene trasferito il controllo dell’azienda (sempre per realizzare la condizione sub 1b); 6. costruire una rete di sicurezza per le persone (non per le imprese) che nel gioco della concorrenza soccombono, in modo da evitare che facciano alleanza (spesso vincente) con gli incumbents contro il mercato.
Non c’è spazio in questa sede per entrare nel dettaglio di questi provvedimenti consigliati e per valutarne il merito. Essi sono in linea con l’impianto interpretativo proposto. Esigono però, per essere realizzati, di una precisa e forte volontà politica. Quella volontà che gli autori ritengono non sia congenitamente a favore del mercato. A chi è rivolto allora il messaggio?
Mi sembra che sia rivolto a noi tutti. Se crediamo che queste posizioni siano fondate e che la riattivazione di un processo di sviluppo poggi sull’esistenza di mercati vibranti, è nell’interesse della maggioranza dei cittadini – oggi ignara e troppo silenziosa – promuovere un movimento in questa direzione, tanto per cominciare sul piano culturale. A meno di sperare che vi siano sfidanti con progetti dotati di più potenziale di sviluppo che vogliano rovesciare con movimenti rivoluzionari gli incumbents, come è già successo nella storia. Ma si sa che cambiamenti siffatti accadono di rado, e per di più sono intrinsecamente destinati a ritornare al punto di partenza dal momento che i nuovi entranti si trasformano essi stessi in incumbents.