E&M

2003/1

Claudio Dematté

La concorrenza montante dei paesi a basso costo

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Da anni si afferma che molte nostre imprese i cui prodotti sono ad alto contenuto di manodopera sono esposte al rischio della concorrenza proveniente dai paesi a basso costo del lavoro. Taluni avevano perfino asserito che avremmo visto migrare verso i paesi in via di sviluppo interi settori. Questo esito estremo finora non si è verificato, anche se la Romania e altri paesi dell’Est europeo assomigliano sempre più ad avamposti italiani. Ma se le previsioni più pessimistiche non si sono avverate è però vero che lo slittamento di una parte delle nostre produzioni tradizionali (abbigliamento, accessori, arredamento, oreficeria, montature per occhiali) verso i paesi a più basso costo del lavoro si è verificato ed è in corso. Lo testimoniano i tassi di crescita delle importazioni, che sono più elevati di quelli delle esportazioni. Lo prova l’esperienza di molte imprese che si sono trovate, sul mercato interno e su quello internazionale, di fronte a concorrenti nuovi capaci di offrire prodotti simili a prezzi sensibilmente più bassi. Lo dimostra la pressione sui margini che fa penare le imprese dei settori in questione.

L’abbandono delle produzioni meno pregiate, meno differenziate e differenziabili, di quelle che più hanno i connotati delle commodities ad alta intensità di lavoro è dunque in corso, sia pure in forma meno traumatica di quanto temuto, ed è un fenomeno che le nostre imprese hanno anche imparato a gestire in un modo o nell’altro, compensandolo anche con altri sviluppi.

Ci sono però sintomi che negli ultimi tempi il processo di erosione dei segmenti bassi del mercato stia subendo una forte accelerazione. In più, ci sono segnali che questo fenomeno si stia allargando anche a settori prima immuni da simili pressioni. Se non bastasse, ci sono anche indicazioni che l’apparizione di nuovi concorrenti provenienti da questi paesi a basso costo è sempre più spesso repentina, senza segni premonitori. In breve, sembra che il fenomeno di migrazione di certe produzioni sia destinato ad assumere una diversa e più elevata velocità, una maggiore ampiezza settoriale e un’intensità superiore.

Se così fosse, i processi di aggiustamento che le imprese avevano imparato a gestire potrebbero non bastare più. Si pongono due ordini di problemi: uno strettamente aziendale che riguarda il modo nel quale le aziende possono fronteggiare la nuova realtà; l’altro, macroeconomico e sociale, che riguarda non tanto l’equilibrio della bilancia commerciale in senso tradizionale – che in ambito euro muta i propri connotati – ma certamente i problemi economici, occupazionali e sociali delle collettività che vengono colpite dalla contrazione o dalla sparizione delle loro produzioni tipiche.

L’accelerazione nei processi di rilocalizzazione internazionale

È nella storia, oltre che nella teoria economica, che i paesi, a mano a mano che si sviluppano, abbandonino le produzioni più semplici e quelle a più alto contenuto di manodopera a favore dei paesi emergenti che hanno costi del lavoro inferiori e forza lavoro meno preparata. L’Italia ne ha beneficiato nel dopoguerra, quando i paesi del Nord Europa più sviluppati hanno visto lievitare i loro salari e molte produzioni ad alta intensità di lavoro sono diventate appannaggio delle imprese localizzate nel nostro paese. Al progredire dello sviluppo salgono i salari, ma aumenta anche il know-how, le competenze e la dotazione di capitale. Di conseguenza, non è più possibile rimanere competitivi in certe produzioni eseguibili da manodopera meno qualificata, meno costosa e con attrezzature elementari. Gradualmente si perde questo tipo di produzioni a favore di paesi meno sviluppati, ma in compenso, grazie alle maggiori competenze e dotazioni tecnologiche e di capitale, si riesce ad accrescere la presenza nelle produzioni di altri tipi di beni, più “sofisticati”, più differenziati.

A stabilire l’intensità e la velocità di questo processo di rilocalizzazione delle produzioni fra i diversi paesi sono diversi fattori:

1. l’andamento dei costi del lavoro comparati;

2. l’evoluzione relativa della produttività;

3. le variazioni che intervengono nelle barriere al movimento dei beni e servizi e dei capitali fra paesi.

Quello che sta accadendo su questi tre fronti alimenta l’ipotesi, esposta poco sopra, che si stia verificando una netta accelerazione nella divisione internazionale del lavoro.

Per quanto riguarda il costo del lavoro, è certamente vero che anche nei paesi in via di sviluppo esso tende a lievitare in ragione dei progressi che quei paesi – o almeno alcuni di essi – stanno realizzando sul piano economico. Ma il pool di risorse disoccupate o sottoccupate nel terzo mondo – alimentato anche dagli alti tassi di natalità – rimane immenso. Per la legge della domanda e dell’offerta, in questi paesi la lievitazione del costo del lavoro è inferiore a quella che interessa i paesi che hanno già raggiunto il benessere. Il divario fra il nostro costo del lavoro e quello dei paesi che possono candidarsi per le produzioni più semplici è destinato ad aumentare, anziché diminuire, con conseguente maggiore pressione alla delocalizzazione produttiva.

Le differenze del costo del lavoro, tuttavia, da sole non spiegano le migrazioni delle produzioni. Occorre esaminare anche la produttività relativa, perché i costi dei prodotti sono l’effetto combinato di questi due fattori. Anche su questo fronte ci sono segni evidenti che la dinamica della produttività nei settori in questione gioca a favore dei paesi emergenti, o almeno di alcuni di essi. Ciò per vari motivi. Anzitutto perché, partendo da una base di know-how elementare, hanno ampi spazi di apprendimento, mentre i produttori dei paesi occidentali si trovano di fronte a tecnologie e processi produttivi maturi da cui non è possibile spremere ulteriori significativi miglioramenti. In secondo luogo perché i produttori dei paesi emergenti sono oggetto di intensa promozione da parte dei produttori di macchinari degli stessi paesi occidentali. Tali macchinari incorporano molti degli elementi che determinano la maggiore produttività dei paesi più sviluppati. In terzo luogo, le stesse imprese dei paesi occidentali più rapide nel rispondere alle spinte migratorie delle produzioni favoriscono il trasferimento di know-how e di modelli organizzativi nei paesi emergenti nel momento in cui decentrano colà le loro produzioni, alimentando un processo di crescita dell’intero contesto produttivo locale. Si aggiunga infine l’opera di trasferimento di know-how che viene effettuato dalle società di consulenza e dai grandi buyer statunitensi che da tempo si riforniscono su quei mercati, nel momento in cui non solo danno le specifiche di prodotto, ma effettuano un controllo sui processi produttivi e un rigoroso controllo di qualità.

Proprio per l’effetto combinato di queste forze – molte delle quali trasferiscono in quei paesi il know-how maturato nei paesi occidentali – la crescita della produttività nei paesi emergenti procede più rapidamente di quanto non accada da noi e amplifica col passare del tempo il divario dei costi al di là di quanto indotto dalle differenze nel costo del lavoro.

Nel caso della Cina sembra che questa spinta all’incremento della produttività sia ulteriormente rafforzata dal fatto che si predispongono impianti non solo dotati di macchinari e tecnologie, ma anche di dimensioni considerevoli, dando luogo a maggiori economie di scala e a curve di esperienza più accelerate.

Andamento comparato del costo del lavoro e dinamica della produttività sembrano andare in una direzione precisa: nelle produzioni ad alta intensità di manodopera il divario fra i costi ottenibili da produzioni localizzate nei paesi occidentali e quelli che si possono conseguire nei paesi emergenti tende ad ampliarsi. Se questo è vero, si erode la competitività dei paesi occidentali e aumenta quella dei paesi nuovi.

Il quadro si completa prendendo in considerazione il terzo elemento, quello delle barriere al movimento dei beni/servizi. Se queste fossero alte e impenetrabili, anche un forte divario di costi non avrebbe alcun effetto nella localizzazione della produzione, che si realizzerebbe all’interno dei mercati nei quali i beni sono consumati. Ma se il movimento dei beni è agevolato da riduzione o eliminazione delle barriere doganali ed è facilitato da sistemi di comunicazione e di trasporto sempre più efficienti e meno costosi, allora la differenza di costo agisce come una potente calamita nell’attrarre le produzioni in quei paesi che risultano più competitivi. Tutti sanno che da anni la WTO (World Trade Organization) è all’opera proprio per creare un contesto di libera circolazione dei beni. Anche se recentemente si intravedono alcune difficoltà e alcuni rallentamenti, se non arretramenti, non c’è ombra di dubbio che nell’insieme le barriere stiano diminuendo. L’adesione recente della Cina ne è la conferma.

Aumento del divario nel costo del lavoro, riduzione del gap di produttività, abbassamento delle barriere al movimento delle merci si sommano e si cumulano nel favorire un’accelerazione e anche un ampliamento dei settori colpiti da processi di rilocalizzazione produttiva.

Esempi concreti supportano questa prospettiva. Nel settore dell’abbigliamento la pressione di prezzo sui segmenti bassi è diventata insostenibile; nella produzione di montature per occhiali, nel giro di tre anni sono apparsi sui mercati internazionali produttori cinesi con prodotto di qualità discreta a costi inferiori del 30-40%; nella produzione di divani sta accadendo la stessa cosa, con divari di prezzo dell’ordine del 25-30%; perfino nella produzione di succo di mele la concorrenza cinese è apparsa improvvisamente tre anni fa con differenze di costo nello stesso ordine di grandezza.

Come si affronta la sfida della concorrenza dei paesi a basso costo?

Come ho detto, la perdita di certe produzioni a favore dei paesi emergenti è una componente fisiologica del processo di sviluppo di un paese. Se avviene con gradualità e senza strappi sollecita aggiustamenti, chiusure, riconversioni, nuovi sviluppi, ma non causa problemi gravi. Se il processo di rilocalizzazione supera certe soglie di velocità e di intensità, la situazione cambia aspetto: la perdita di produzioni non viene compensata dalla conquista di altre, con conseguente disoccupazione, impoverimento generale o di singole collettività, tensioni sociali. La velocità e l’intensità del processo sono gli elementi che segnano il discrimine fra una transizione nell’insieme positiva, sia per il paese che cede produzioni sia per quello che le riceve, e una situazione che può degenerare.

Per la singola impresa del paese evoluto il fenomeno della migrazione costituisce sempre un problema. Esso prende la forma di una forte concorrenza su una parte o sull’intera attività, con i rischi che ne conseguono. Il fatto che qualche altra impresa possa trarre beneficio da questa riallocazione internazionale, come di solito accade, non la riguarda.

La singola impresa non può quindi accettare passivamente questo processo, pena la sua estinzione. Se essa opera in settori ad alta intensità di lavoro non può fare a meno di mettere in conto la possibilità che possano emergere, anche in modo inatteso, concorrenti provenienti da paesi a basso costo della manodopera. Anzi, deve collocare questa evenienza fra gli avvenimenti ad alta probabilità e prepararsi ad affrontarla. Ma come?

Lo può fare attraverso sei tipi di intervento:

1. monitoraggio attento e tempestivo dell’approssimarsi del confronto con i concorrenti dei paesi a basso costo;

2. predisposizione di strategie di difesa della produzione domestica;

3. programmazione del ritiro completo dall’attività sotto attacco;

4. preservazione dell’attività con chiusura degli stabilimenti locali e dislocazione della produzione nei paesi a basso costo;

5. riposizionamento dell’attività nell’ambito dello stesso settore, ma su tipologie di prodotti differenziati sottratte alla guerra di prezzo;

6. abbandono dell’attività in questione e diversificazione radicale.

Il monitoraggio tempestivo

Un’impresa che sia impegnata in produzioni ad alto contenuto di manodopera, specialmente se a bassa qualificazione, deve sapere che è soggetta a quel fenomeno di migrazione delle produzioni che accompagna quasi inesorabilmente i processi di sviluppo di un paese. Pertanto, deve mettere in conto che prima o poi possa subire l’attacco di concorrenti provenienti da paesi a basso costo del lavoro.

Benché questa evenienza rientri nello stato normale delle cose, molte imprese si rifiutano di considerarla. Finché non vi si imbattono la reputano una possibilità remota. Negli ultimi anni, di fronte ad attività che presentavano requisiti di scarsa differenziabilità e di alto contenuto di lavoro, mi sono trovato più volte a chiedere a chi le guidava se non vi fosse il pericolo di una concorrenza proveniente dai paesi emergenti. In molti – troppi – casi mi sono sentito rispondere che non c’era alcun pericolo, quando invece i nuovi concorrenti stavano facendosi le ossa sui loro mercati, talvolta come terzisti di imprese produttive o distributive americane o giapponesi alla ricerca di produttori a basso costo.

Per non essere colti impreparati è necessario superare questa miopia. Per farlo occorre agire su più fronti. Anzitutto occorre avere bene in mente il corso naturale delle cose che, se non trova qualcosa che lo contrasta, porta inesorabilmente alla migrazione delle produzioni in questione dai paesi più sviluppati a quelli meno sviluppati. È solo questione di tempi o di eccezioni. Con questo tipo di atteggiamento mentale, le probabilità di non essere colti di sorpresa aumentano.

In secondo luogo, è utile tenere sotto controllo l’andamento del divario dei costi del lavoro e della produttività. Fino a una certa soglia esso non innesca alcuna reazione, non si mette in moto alcun processo di rilocalizzazione, compensato com’è dai costi di trasporto, dall’allungamento dei cicli produttivi dovuti alla distanza, da altri svantaggi derivanti dalla produzione lontana dal mercato di sbocco. Ma quando il divario di costo comincia a diventare consistente, la molla della delocalizzazione si innesta, non necessariamente per iniziativa di imprese dei paesi emergenti: può essere un grossista locale, può essere qualcuno dei concorrenti domestici, può essere una multinazionale che già si avvale di queste fonti di approvvigionamento a basso costo per servire altri mercati. Tenere sotto controllo il divario di costo e i comportamenti di questi attori è quindi fondamentale per non farsi cogliere di sorpresa.

Torna utile, infine, il monitoraggio diretto dei potenziali concorrenti, che si può effettuare nelle occasioni più disparate, dalle fiere alle riviste di settore, dalle informazioni degli agenti all’analisi dei clienti perduti. Occorre, a questo riguardo, il massimo di umiltà: non sottovalutare i concorrenti perché la loro qualità sembra al momento molto distante da quella necessaria per averli come avversari diretti. Vale anche a questo proposito quanto detto circa la produttività: i loro tempi di miglioramento sono più rapidi di quelli necessari per aggiungere qualità a una qualità già elevata.

Se si dà per scontato che prima o poi possa scattare il passaggio di certe produzioni ai paesi meno sviluppati, si è nelle migliori condizioni per cogliere in tempo l’arrivo di questo momento.

La predisposizione di strategie di difesa della produzione domestica

Così com’è prudente assumere la posizione sopra indicata al fine di cogliere per tempo l’emergere del problema, è però doveroso non dare per inevitabile l’abbandono delle produzioni domestiche. Anche rimanendo nella stessa tipologia di prodotti a bassa differenziazione o a bassa differenziabilità e ad alta intensità di manodopera, la partita della concorrenza di prezzo non si gioca solo sul costo del lavoro.

Ciò è dovuto al fatto che la qualificazione di attività ad alta intensità di manodopera si riferisce al processo produttivo in atto in quel momento. Vi possono essere o, meglio, si possono talvolta progettare cambiamenti profondi, nelle concezioni di prodotto e nelle tecnologie attraverso le quali si perviene al prodotto finito, che modificano sostanzialmente il contenuto di lavoro. La riprogettazione dei prodotti per ridurre le componenti e le fasi di lavorazione manuale; la costruzione di attrezzature che consentono di automatizzare processi prima manuali; la riorganizzazione del lavoro per aumentarne la produttività; l’esternalizzazione di certe fasi sono tutti possibili interventi il cui effetto cumulato può trasformare una produzione ad alto contenuto di manodopera in una in cui il fabbisogno di questo fattore è ridotto sostanzialmente. Interventi di questo genere sottraggono l’attività alla concorrenza dei paesi emergenti, trasformandone la natura.

Non arrendersi quando si profila la concorrenza dei paesi a più basso costo del lavoro è un imperativo. Quanto più si è consapevoli dell’arrivo di questa concorrenza, tanto più intenso deve essere lo sforzo per trovare interventi in grado di contrastare lo svantaggio competitivo derivante dal divario di costo del lavoro. Imprese come Luxottica, De Rigo, Safilo hanno fronteggiato la concorrenza crescente dei produttori cinesi anche grazie a un continuo sforzo di trasformazione di lavorazioni manuali in attività automatizzabili.

Programmazione del ritiro completo dell’attività sotto attacco

A dispetto di tutti gli sforzi per trasformare un’attività ad alto contenuto di manodopera in una fortemente automatizzata, che non viene penalizzata più di tanto dal maggior costo del lavoro, può accadere – e accade fin troppo spesso – che questo processo non sia possibile o non lo sia in misura sufficiente per recuperare una competitività di costo. In questo caso è bene che l’impresa prenda atto il più presto possibile che si trova di fronte a una perdita di competitività irreversibile. Quanto prima lo fa tanto più presto può decidere sul da farsi.

Le alternative che ha di fronte sono diverse. Dipende dal dispiegamento della propria attività (se concentrata solo sul segmento sotto attacco o distribuita su altri segmenti), dal patrimonio di competenze accumulate (se spendibili solo su quella attività o utilizzabili per altre), dalla vis imprenditoriale (se al suo esaurimento oppure in pieno vigore), dalla forza finanziaria dell’impresa. In funzione del suo posizionamento in merito a queste variabili, può accadere che l’impresa sia concentrata solo sull’attività oggetto di attacco da concorrenti, che le competenze di cui dispone siano spendibili solo in questo campo, che l’imprenditore abbia esaurito la sua energia imprenditoriale e che le risorse finanziarie siano scarse o, pur essendo abbondanti, non si vogliano mettere in gioco per altre iniziative. In questo caso, l’impresa si trova di fronte alla necessità di programmare – augurabilmente per tempo – il ritiro completo dall’attività in questione, con il danno minore.

L’imprenditore che prima degli altri intuisce questo stato di cose, meglio degli altri è in grado di uscirne. Può perfino riuscire a farlo vendendo l’impresa a qualcuno che ancora non ha compreso la dinamica che porterà a perdere progressivamente competitività, equilibrio economico e sostenibilità finanziaria.

Nell’ipotesi peggiore, l’imprenditore avveduto che abbia colto il senso degli eventi prima degli altri può programmare un’ordinata liquidazione dell’impresa con la possibilità di preservare una parte del patrimonio, prima che la concorrenza lo distrugga attraverso una sequenza di perdite.

Continuazione dell’attività con delocalizzazione produttiva

Di solito un’impresa non presenta quei requisiti così restrittivi che la obbligano ad arrendersi su tutto il fronte all’apparire di concorrenti destinati a prendere il sopravvento per il possesso di un vantaggio competitivo imbattibile (il basso costo del lavoro). Se non è un semplice terzista, anche se fosse concentrata esclusivamente sull’attività sotto attacco, essa avrà una rete di distribuzione, un parco clienti, alcuni elementi di avviamento che conservano il loro valore anche in assenza di una produzione in loco.

In tal caso il problema che si pone è riuscire a vendere o a chiudere la struttura produttiva con il minor danno possibile e, al contempo, preservare le altre competenze e gli altri valori. Un modo per farlo consiste nel dislocare la produzione in quei paesi che godono di quel vantaggio di costo, continuando l’attività di presidio dei mercati fin lì conquistati. Questa operazione può prendere due diverse vie: una consiste nell’abbandono totale del controllo sull’attività produttiva per concentrare l’attenzione su quella commerciale; l’altra prevede la continuazione della produzione, ma in un paese emergente, sotto il proprio controllo totale o parziale.

Ognuna di queste opzioni ha i suoi vantaggi e svantaggi, e ognuna richiede risorse e competenze diverse.

La chiusura delle basi produttive domestiche, sia che si traduca in un’uscita definitiva dalla produzione sia che evolva in una produzione altrove, è un fatto rilevante e spesso traumatico. È praticabile con minori conflitti e minori costi quanto più viene decisa in tempo, prima che altre chiusure di altre imprese colpite dallo stesso fenomeno creino un contesto ad alta tensione sociale. Se assunta con molta tempestività può persino essere possibile cedere lo stabilimento a qualcuno (un terzista o un concorrente) che non ha ancora percepito l’arrivo di una concorrenza non contrastabile.

Riposizionamento dell’attività fuori dalla concorrenza di prezzo

L’impresa che preveda in largo anticipo l’entrata di concorrenti a basso costo grazie alla loro localizzazione in aree con vantaggi comparati strutturali può impostare una strategia che le consenta di preservare fatturato e impianti produttivi, pur perdendo l’attività soggetta alla concorrenza suddetta, attraverso un’operazione di riposizionamento, con la differenziazione del prodotto, oppure l’arricchimento dell’offerta con servizi pre- e post-vendita che devono essere prodotti in loco, con politiche di marca e di fidelizzazione, con l’accesso a segmenti di clientela meno sensibili al prezzo e più attenti alla qualità e ad altre valenze dell’offerta che i produttori dei paesi emergenti non possono offrire con altrettanta efficacia (timing moda, per esempio).

Operazioni di questo genere comportano cambiamenti profondi, perché occorre modificare diversi elementi della formula imprenditoriale e acquisire nuove aree di competenza. Di solito le strategie di riposizionamento prevedono un abbandono dei segmenti bassi del mercato (o, in alternativa, il loro mantenimento con prodotti realizzati altrove) per accedere a segmenti di qualità/prezzo superiori. Questo comporta la creazione di un nuovo brand, di un diverso modello di comunicazione, di una nuova offerta e, spesso, di un sistema di distribuzione molto più selettivo. L’uscita dal mercato soggetto alla guerra di prezzo comporta l’entrata in un’area dove la competizione è giocata su variabili di differenziazione molto più soft, molto più difficili da maneggiare. L’esperienza mostra che l’operazione di riposizionamento verso l’alto è molto più ardua di quella che muove in direzione opposta.

Il passaggio su segmenti di qualità/prezzo superiori ha come conseguenza una restrizione delle quantità, ma anche dei valori: per rimediare a questa contrazione diventa necessità, se si vuole evitare comunque una sovracapacità produttiva, l’espansione su altri mercati geografici. Ritirata dai segmenti più bassi e spostamento su quelli più alti per non avere effetti negativi comporta un processo di internazionalizzazione più spinto. E questo aggiunge complicazione a una situazione già difficile. Affinché la ritirata dai segmenti sotto attacco non si traduca in un eccesso di capacità produttiva occorre in ogni caso che vi sia la possibilità di fare un upgrading della qualità dei prodotti: fatto, questo, tutt’altro che automatico. Proprio perché si tratta di un processo difficile, che richiede una trasformazione e un arricchimento delle competenze, il tempo disponibile per la transizione è un fattore chiave. Per aumentare le probabilità di successo occorre muoversi con largo anticipo, non quando i nuovi concorrenti sul segmento basso hanno già cominciato a mordere. Si torna così al punto di partenza: fondamentale è non lasciarsi sorprendere, ma anticipare gli avvenimenti.

Abbandono dell’attività e diversificazione radicale

L’ultima e più difficile strada è quella che si prospetta quando tutte le altre sono chiuse: quando non è possibile resistere nel segmento sotto attacco; quando anche una delocalizzazione produttiva non offre garanzie di resistenza, perché questa operazione non risulta gestibile per la dimensione, la struttura e la debolezza finanziaria dell’impresa; quando il riposizionamento verso l’alto si prospetta arduo per la presenza di concorrenti già affermati e forti. Quando queste vie sono precluse si può prendere in considerazione la scelta più difficile, quella di abbandonare la vecchia attività per intraprenderne una nuova.

In questo caso, a maggior ragione occorre una grande preveggenza, poiché se la ritirata dal segmento sotto attacco avviene tardivamente ben poche risorse e poche competenze si salvano, e non è nemmeno detto che siano utilizzabili per la nuova avventura.

Da quanto detto dovrebbe essere chiaro che molte imprese – tutte quelle che lavorano in settori a forte incidenza di manodopera – dovrebbero mantenere attivo e attento il radar sulla dinamica della competitività internazionale poiché, in assenza di interventi, finiranno prima o poi sotto la pressione di concorrenti che provengono da paesi a basso costo del lavoro. Solo una gestione che abbia chiara visione di questa spada di Damocle può apprestare in tempo sia le difese della produzione domestica, quand’è possibile, sia una delocalizzazione pilotata proprio per mantenere i mercati conquistati, sia una ritirata senza perdite dal campo, accompagnata da un riposizionamento verso altri segmenti o perfino verso altre attività. Chi non coglie in tempo il problema ne viene travolto. Si trova costretto a chiudere impianti nel bel mezzo di una crisi generalizzata. Si può trovare con le risorse finanziarie drenate da una guerra di prezzi combattuta invano. Oppure si trova a doversi riposizionare in tempi talmente stretti da rendere impossibile un’operazione che già di suo è quanto mai complessa.