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2003/1
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I poveri martiri
Scarica articolo in PDFNon si limitarono a far piangere tutto il Brasile. Quei due uruguayani, Schiaffino e Ghiggia, hanno sulla coscienza il suicidio di tredici tifosi delusi alla morte. Con le loro reti sbancarono il Maracanà, andando a vincere il campionato mondiale di calcio del 1950 proprio nel nuovissimo stadio di Rio de Janeiro, costruito per immortalare la prima apoteosi carioca della storia. Schiaffino guidò la sua nazionale e il Milan verso traguardi storici. Ricoverato in un ospizio per disabili, è morto l’anno scorso, solo e senza un soldo. Anche i leader tramontano.
Qualcuno, poverino, non riesce neppure a nascere. Fanno tenerezza quei personaggi stretti a sandwich tra un padre ottantenne che non demorde e un figlio rampante, laureando in economia. “Papà, quando diventerò leader in questa impresa?” E lui, sconsolato: “È la domanda che da trent’anni mi sto ponendo anch’io”. Per ingannare l’attesa, ha frequentato persino un corso sulla leadership. Chissà se un docente saggio gli ha svelato il fascino di saper obbedire a un grande capo. Auguro a tutti la fortuna di incontrarne almeno uno, nella propria vita.
Il leader è qualcuno che ti fa soffrire, ma lavorando con lui impari molto. Sotto le sue mani un problema complesso si scioglie in una serie di problemi semplici, permettendo a tutti di offrire il proprio contributo. Non ha bisogno di motivare perché lascia liberi gli spazi entro i quali riesci a motivarti da solo. Soprattutto, assorbe incertezza. Ti trasmette sicurezza e i tormenti li tiene tutti per sé. Ma è sicuro che il futuro sarà proprio quello che lui desidera. “Se vuoi costruire una nave – scriveva Saint-Exupéry – non cominciare a tagliare gli alberi, a piallare il legno, a inchiodare le assi: ma fa in modo che la tua gente sia innamorata del mare aperto.” Questo è il leader, merce rarissima, da non confondere con i dinosauri e i burocrati. Questi, le navi le affondano.
Qualche presuntuoso sostiene che, con i fuoriclasse che Sacchi si ritrovava al Milan, chiunque sarebbe stato capace di vincere altrettanto. Come se fosse facile gestire un campione senza esserlo mai stato. È arte raffinata far convivere le grandi stelle con persone meno dotate, disegnare per ognuno uno specifico ruolo, mantenere la giusta dose di tensione in un gruppo disomogeneo per lingua e per stipendi, sollecitare gesti straordinari da tutti senza chiedere a nessuno l’impossibile, difendere anche i meno bravi dagli attacchi spietati dei media, evidenziare tutti gli errori quando si vince e dissimularli quando si perde, assumersi sempre la completa responsabilità delle scelte, anche se condizionate da errori altrui. Ma se un allenatore sportivo è un genio di questo spessore, perché allora ogni tanto lo cambiano?
Perché anche i leader tramontano. I cicli di vita si concludono, le mode passano, un nuovo leader cancella il suo predecessore, il gioco impietoso dell’età non risparmia nessuno, le passioni si spengono. A questo punto i destini sono due. Pochissimi escono alla grande, di colpo. I veri martiri appartengono a questa categoria. Si trasformano in un simbolo che illumina le generazioni che verranno. Altri invece non si rassegnano a mollare la presa e si illudono di essere come la fenice, l’uccello che si racconta sia capace di rinascere dalle sue ceneri. Ma la mitologia, che non è falsa ma è soltanto impietosa, ammonisce che questa trasformazione avviene ogni cinquecento anni. In attesa di una improbabile risurrezione si avviano verso l’oblio, ingrossando la lunga fila dei poveri martiri.