E&M
2009/4
Indice
Editoriale
Doing business in China
Il nuovo contratto di lavoro in Cina: quali prospettive nel contesto attuale?
Il mercato delle regole
Europa e Stati Uniti: sulla vigilanza la crisi non ha insegnato nulla?
Temi di Management
Il futuro dell’ipercompetizione. Intervista con Richard D’Aveni
Avanti adagio o indietro tutta? Il bilancio della banca e le scelte degli amministratori
Lezioni dalla crisi: la nuova normativa in tema di prodotti assicurativi index linked
Articoli
CSR Reporting in Italia: dalla rendicontazione alla creazione di valore
La misurazione della performance nei dipartimenti universitari
Fuoricampo
Storie di straordinaria imprenditorialità
Lenze per pesci e gabbie per topi: storie di imprese tra focalizzazione e diversificazione
Fotogrammi
L’occhio del talent scout
Ambientato nei giorni in cui esplode in Italia lo scandalo di Calciopoli, Piede di Dio di Luigi Sardiello mette in scena nel mondo del calcio pre-professionistico una suggestiva parabola sul talento, sulla crescita e sul rapporto fra tecnica, passione e professionalità.
Piede di Dio
Regia: Luigi Sardiello
Interpreti: Emilio Solfrizzi, Rosaria Russo
Italia, 2009
Fra cinema e calcio non è quasi mai corso buon sangue. Neppure in un paese in cui il calcio è lo sport nazionale (e, forse, anche qualcosa di più…) come l’Italia. Vuoi perché lo schema ripetitivo e seriale delle partite mal si concilia con la necessaria prototipicità del prodotto film, vuoi perché è difficile tradurre in una narrazione differita quell’epos del pallone che la tv racconta in diretta ormai quasi quotidianamente, ma i pochi cineasti italiani che hanno provato a mettere in scena il calcio (Pupi Avati con Ultimo minuto, Ricky Tognazzi con Ultrà) si sono trovati a rappresentare più ciò che accade al di fuori del campo che ciò che si verifica direttamente sul terreno di gioco.
Piede di Dio, opera prima del regista Luigi Sardiello, non fa eccezione: ambientato nelle settimane più acute dello scandalo di Calciopoli, proprio mentre l’Italia si appresta a vincere uno dei campionati del mondo più paradossali di tutta la storia della manifestazione, racconta la passione per il calcio senza mai mostrare una sola partita, eccezion fatta per quelle trasmesse in tv e per quella finale giocata su una spiaggia del Salento dal protagonista con un gruppo di ragazzini.
Eppure, la vicenda del talent scout che batte sistematicamente la provincia italiana, e in particolare il profondo Sud, per scovare giovani talenti da proporre per un provino alle squadre professionistiche di seria A, così come il singolare rapporto che si viene a delineare fra lo stesso talent scout e il ragazzino che non ha mai sbagliato un rigore ma che ha un cervello lievemente minorato, pongono tutta una serie di questioni che vanno al di là del mondo del calcio e che coinvolgono più in generale il rapporto fra il talento “naturale” e le organizzazioni che di quel talento vorrebbero o potrebbero avvalersi. Il calcio si offre, insomma, come una straordinaria metafora per capire e analizzare più in profondità il funzionamento complessivo di un sistema, di una cultura e di un paese. Ne discutono, come di consueto, Severino Salvemini e Gianni Canova.
S.S. Una prima considerazione quasi d’obbligo riguarda la lucidità con cui il film mette in scena il processo di individuazione del talento. L’osservatore professionista, interpretato da Emilio Solfrizzi, sa intuire le potenzialità embrionali riscontrabili nei ragazzi che vede giocare. Vede come sono e subito intuisce cosa potrebbero diventare. È portatore di uno sguardo prospettico capace di effettuare velocemente confronti e paragoni, ma anche di disegnare scenari futuri a partire dalla situazione presente. Processi analoghi si verificano spesso anche nelle organizzazioni aziendali: raramente il talento si manifesta in modo esplicito ed evidente, e il bravo manager è colui che sa coglierlo anche quando si esplica in un contesto umile, semplice, apparentemente burocratico. È, insomma, colui che vede la possibile traslazione dallo stato attuale a un possibile stato futuro…
G.C. Non solo: stando almeno al protagonista del film, la sua dote principale consiste nel saper guardare sempre altrove, nel non limitarsi a “osservare” i luoghi canonici in cui il talento viene educato, stimolato e sollecitato, Il giovane Elia, non a caso, lo scova su una spiaggia, cioè in un luogo ben diverso da dove era legittimo aspettarsi di trovarlo. Ed è proprio questa “eterogenesi del talento” a suscitare le proteste dei genitori degli altri ragazzi, che hanno frequentato corsi e lezioni, sono lì a esibire la loro tecnica, ma non vengono neppure presi in considerazione. C’è un’analogia molto forte con Bellissima di Luchino Visconti, anche se in quel caso si trattava non di talento sportivo, bensì del presunto talento di una bambina in vista di un possibile ingresso nella società dello spettacolo…
S.S. Michele, il talent scout, è comunque molto bravo nel cercare di costruire nel ragazzo la voglia di riscatto e di carriera, nello spronarlo, nel costruire le sue motivazioni alla crescita, umana e sportiva. Ed è interessante che per fare questo attinga continuamente a un repertorio di storie e di miti che è costituito per lo più dalle leggende della storia del calcio, o dalla memoria in bianco e nero di campioni del passato. Quasi a dire che un bravo formatore deve disporre, appunto, di tante storie e di tante figure modellizzanti. In questa chiave, è esemplare il continuo richiamo di Michele alla figura di Garrincha, il campione portoghese claudicante, arrivato ai vertici del virtuosismo calcistico mondiale nonostante la sua grave menomazione penalizzante. Quando Michele scopre che Elia soffre per l’assenza del padre, cerca di riempire questo vuoto con altre figure sostitutive. E gli effetti di questo lavoro motivazionale su Elia sono indubbiamente positivi.
G.C. Eppure, nel momento decisivo, quando dovrebbe mostrare al mondo il suo talento, Elia – il “diciottenne con la testa da dodicenne”, il puer divinus che irrompe con la sua purezza d’animo nel cinico mondo del calcio professionistico – sbaglia volutamente il rigore decisivo. Forse perché aveva paura di diventare effettivamente un calciatore…
S.S. Certo. E a modo suo lo confessa anche a Michele. Aveva paura di entrare davvero nel ruolo. Paura della sua inadeguatezza, della sua possibile incompetenza.
Da qui la decisione di sbagliare per tornare alla condizione precedente. È un meccanismo abbastanza frequente anche in ambito aziendale, noto come la “legge di Peter”: nel momento in cui scatti di ruolo, passi dal massimo di competenza in cui ti trovavi prima a uno stadio di incompetenza che può anche provocare disorientamento o disagio. Non ti senti pronto per il nuovo ruolo, temi di non essere all’altezza, rimpiangi le vecchie abitudini, a volte desideri addirittura restare com’eri prima, in una condizione che eri certo di governare senza difficoltà. È la classica paura del cambiamento, e dei rischi che questo comporta.
G.C. E tuttavia Michele, dopo la delusione iniziale, accetta la scelta di Elia. Forse la condivide. E si ritrova con lui a giocare a calcio sulla spiaggia. Forse, il finale del film suona come esortazione, un po’ a tutti noi, a ritrovare il gusto della passione e del gioco.