E&M

2009/4

Andrea Sironi

Quali regole e quale banca dopo la crisi?

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In un precedente editoriale (e&m, n. 5, 2008) mi ero soffermato sulle cause, macroeconomiche e tecnico-finanziarie, alla base della crisi finanziaria recente, e sulle lezioni che dall’esame di queste ultime si potevano trarre per gli organi di Vigilanza e per il management delle banche. Nelle note che seguono mi soffermerò invece dapprima sul tema delle regole, cercando di evidenziare, pur in presenza di un quadro ancora incompleto nel quale proposte diverse di organi europei e internazionali si sovrappongono, le principali modifiche al contesto regolamentare che caratterizza il settore bancario. Benché, infatti, la crisi finanziaria non abbia ancora esaurito i propri effetti, la discussione in merito alle soluzioni normative da assumere a livello europeo e internazionale è ormai a uno stadio avanzato e può dunque essere utile soffermarsi ad analizzare le principali modifiche e innovazioni che si prospettano all’orizzonte.

L’identificazione del nuovo quadro regolamentare dovrebbe anche consentire di evidenziare alcuni tratti distintivi del modello di banca che verosimilmente emergerà da questa crisi, anche come conseguenza delle riforme di cui sopra. Nella seconda parte di queste note mi concentrerò dunque sul management delle banche, cercando di evidenziare le aree di maggiore attenzione per il futuro.

Quali regole?

Il dibattito relativo alla riforma delle regole che governano l’industria bancaria internazionale è stato e ancora è particolarmente intenso. Le proposte presentate nell’ultimo anno da organismi di vigilanza nazionali e sovranazionali sono numerose e ancora in maggioranza non tradotte in azioni di policy concrete. È tuttavia possibile identificare alcune aree chiave rispetto alle quali si sono già manifestati, o si manifesteranno, importanti cambiamenti.

Il sistema di adeguatezza patrimoniale

La prima area sulla quale si sono concentrate le critiche degli osservatori e attorno alla quale si affollano le proposte di riforma è quella legata al sistema dei requisiti minimi di patrimonializzazione, rappresentati oggi dal Nuovo Accordo sul Capitale proposto dal Comitato di Basilea nel giugno del 2004 (Basilea 2), da molti considerato uno dei principali responsabili della crisi. Come ho già avuto modo di osservare nel precedente editoriale, vi sono diversi motivi che mi spingono a non condividere tali critiche, primo fra tutti la semplice osservazione che il sistema di Basilea 2 è entrato in vigore nel 2008, a crisi già avviata. Penso invece che se il Nuovo Accordo sul Capitale, caratterizzato da una maggiore sensibilità al rischio, fosse entrato in vigore prima del 2008, si sarebbero probabilmente evitati i numerosi arbitraggi regolamentari realizzati mediante operazioni di securitization, le quali hanno di fatto rappresentato una delle scintille iniziali della crisi.

Non vi è dubbio, tuttavia, che il sistema di adeguatezza patrimoniale cui sono soggette le banche di tutto il mondo sarà oggetto di riforma. Da quanto è possibile intravedere oggi, i cambiamenti riguarderanno i seguenti principali aspetti.

· Target capital ratio. Delle numerose caratteristiche di Basilea 1, una non è stata in alcun modo rivista da Basilea 2: il rapporto minimo dell’8%. La soglia concordata ancora nel 1988 è infatti rimasta tale anche in seguito alla riforma complessiva dell’accordo introdotta quindici anni dopo. La crisi recente ha chiaramente evidenziato come questa soglia non sia stata in grado di evitare l’insolvenza di numerose banche che sembravano rispettare il requisito minimo. Nonostante ciò, è verosimile che anche per il futuro la soglia dell’8% – composta da un requisito minimo del 4% di patrimonio di base (tier 1) e di un ulteriore 4% di patrimonio supplementare (tier 2) – non venga modificata. È invece verosimile che, seguendo l’esempio di alcuni organi di vigilanza nazionali, anche altri introducano vincoli più stringenti sotto forma di target capital ratio imposti alle banche mediante forme di moral suasion o come parte del secondo pilastro di Basilea 2. Questo innalzamento non farebbe altro che recepire l’orientamento del mercato, il quale chiede oggi alle banche livelli di patrimonio nettamente superiori a quelli minimi previsti dalla normativa.

· Aumento dei requisiti patrimoniali connessi all’attività di negoziazione. Si tratta di una modifica importante e giustificata. Negli anni pre-crisi numerose banche internazionali attive nei mercati dei capitali con complessi portafogli di negoziazione avevano realizzato “arbitraggi” dei requisiti patrimoniali spostando parte delle proprie posizioni dal banking book al trading book, consapevoli del fatto che quest’ultimo era soggetto a requisiti meno stringenti, specie per quelle banche – tipicamente le maggiori – che avevano un modello interno validato dall’organo di vigilanza. Questo aumento è già stato proposto dal Comitato di Basilea, di concerto con lo Iosco (International Organization of Securities Commissions), il quale si è preoccupato di inserire un requisito patrimoniale addizionale (incremental risk charge), volto a colmare alcuni limiti del precedente requisito relativo ai rischi di mercato. In particolare, la mancata considerazione del rischio connesso a prodotti di credito – quali, per esempio, i credit default swap – inseriti nel trading book e, forse ancora più importante, l’ipotesi irrealistica, alla base della maggioranza dei modelli VaR, di perfetta liquidità dei mercati. Entrambe queste carenze si sono rivelate importanti nel corso della crisi recente.

· Accantonamento anticiclico. Come evidenziato da più parti, uno dei problemi principali dell’attuale sistema di adeguatezza patrimoniale riguarda il fatto che i requisiti di Basilea 2, come peraltro quelli connessi a qualunque sistema di adeguatezza patrimoniale, tendono a essere prociclici: aumentano nelle fasi di crisi economica, quando anche il rischio dei portafogli creditizi e le perdite su crediti crescono, e spingono così le banche a contrarre il credito accentuando ulteriormente la crisi. Una possibile soluzione a questo problema è quella del dynamic provisioning introdotta dalla banca centrale spagnola ancora nel 2000. Si tratta di un semplice meccanismo che spinge le banche ad aumentare gli accantonamenti a riserva nelle fasi di crescita economica, quando anche gli impieghi crescono in misura significativa, in modo da poter successivamente utilizzare tali riserve nelle fasi recessive. Tecnicamente, un simile meccanismo apparentemente semplice può in realtà risultare complesso per via delle implicazioni di natura contabile e fiscale connesse all’introduzione di una simile pratica, e vi sono diverse modalità con le quali realizzarlo. Non è ancora chiaro quale sarà la natura tecnica di questo “ammortizzatore” anticiclico. Vi è tuttavia un consenso generalizzato circa l’opportunità di una sua introduzione a livello internazionale.

· Leverage ratio. Nel corso della recente crisi finanziaria, da più parti è stato evidenziato come le principali banche internazionali si siano spinte verso livelli di leva finanziaria – misurata come semplice rapporto fra totale dell’attivo e totale del patrimonio – particolarmente accentuati. Ne è seguita l’inevitabile pressione verso l’introduzione di un vincolo di leva finanziaria massima da concordarsi a livello internazionale che affianchi o sostituisca il sistema dei requisiti patrimoniali minimi ponderati per il rischio. Personalmente trovo che un simile provvedimento – fondato sulla convinzione che il totale dell’attivo di una banca rappresenti una buona proxy della dimensione e dei rischi assunti da quest’ultima – nasca da una scarsa comprensione della natura delle attività e dei rischi di una banca. È infatti piuttosto evidente che lo stesso livello di leva finanziaria ottenuto con impieghi molto rischiosi non sia in alcun modo confrontabile con quello connesso a impieghi a basso rischio. Analogamente, numerose attività rischiose condotte dalle banche non compaiono o compaiono solo marginalmente nell’attivo di bilancio. Credo, tuttavia, che l’introduzione di un vincolo di leva finanziaria massima che affianchi l’attuale sistema di adeguatezza patrimoniale rappresenti un prezzo che l’industria bancaria è chiamata a pagare a una classe politica giustamente infastidita dagli eccessi degli anni passati.

· Qualità del capitale. Fra i numerosi problemi evidenziati dalla crisi recente vi è anche quello relativo alla qualità del capitale delle banche. Come noto, la gamma di strumenti ammessi nel computo del patrimonio di vigilanza è piuttosto ampia. Essa include strumenti innovativi e strumenti ibridi che condividono caratteristiche proprie del debito e del capitale di rischio. Tali strumenti sono peraltro soggetti a requisiti minimi e regole di ammissibilità differenti nei diversi paesi. L’evidenza empirica recente ha mostrato come molti di questi strumenti non siano in realtà stati in grado di “assorbire” le perdite registrate dalle banche e di proteggere dunque queste ultime dalle situazioni di crisi. La Commissione Europea si è già occupata di questo problema con la direttiva dell’ottobre 2008 la quale, fra le altre cose, ha fissato criteri uniformi per la definizione del capitale ibrido. Per il futuro, è verosimile attendersi un’enfasi sempre maggiore, degli organi di vigilanza e del mercato, nei confronti della qualità del capitale delle banche e dunque, come conseguenza, un’attenzione crescente del management bancario a rafforzare la propria dotazione di patrimonio di base, nella forma del “core tier 1”, il quale esclude appunto strumenti ibridi e innovativi.

· Stress test. Negli ultimi mesi sono venute assumendo una rilevanza crescente, nell’ambito del processo di valutazione dell’adeguatezza patrimoniale delle banche, le prove di stress. Questa metodologia, originariamente introdotta nel mondo dei rischi di mercato connessi ai portafogli di trading e già esplicitamente prevista nel secondo pilastro del Nuovo Accordo sul Capitale, è stata estesa, dietro la spinta dell’esercizio di simulazione condotto dalle autorità statunitensi sulle principali banche del paese, anche al mondo del rischio di credito mediante modelli volti a “stressare” le condizioni macroeconomiche.[1]

È verosimile ipotizzare che, anche alla luce di quanto accaduto nella crisi recente, la rilevanza attribuita dagli organi di vigilanza e dal mercato agli stress test andrà crescendo nel tempo. Le banche saranno dunque esse stesse chiamate ad affinare i propri modelli di stress testing e a valutare con attenzione i risultati di questi test nell’ambito delle proprie decisioni di patrimonializzazione.

In conclusione, il sistema di Basilea 2 sarà certamente oggetto di un processo di riforma. I frequenti richiami a un abbandono del sistema o a una temporanea sospensione (moratoria) dello stesso appaiono tuttavia a chi scrive poco sensati. Essi dimenticano, infatti, che nell’attuale fase congiunturale i vincoli di capitale minimo alle banche non sono imposti dagli organi di vigilanza tramite le regole di Basilea 2, ma piuttosto dal mercato dei capitali. Gli investitori, scottati dalle perdite subite dal settore bancario nel corso della crisi, associano la condizione di salute e solidità di una banca a livelli di patrimonializzazione ben superiori a quelli minimi previsti dal Nuovo Accordo sul Capitale. Una conferma indiretta di questa situazione viene peraltro dai dati relativi ai ratios patrimoniali delle principali banche italiane e internazionali, i quali risultano largamente superiori, specie per ciò che concerne il tier 1, al minimo richiesto da Basilea 2.

La vigilanza macroprudenziale

La crisi recente ha evidenziato come un sistema efficace di requisiti di capitale minimi che limiti il rischio di insolvenza della singola banca non risulti in alcun modo efficace rispetto all’obiettivo di garantire la stabilità del sistema finanziario. Al contrario, potrebbe anche accadere che il sistema di adeguatezza patrimoniale spinga le singole banche a adottare comportamenti che risultano dannosi dal punto di vista del rischio sistemico. Il problema della prociclicità dei requisiti patrimoniali menzionato sopra rappresenta un esempio evidente di tale problema: una banca che nel corso di una fase recessiva vede deteriorarsi la qualità del proprio portafoglio prestiti è costretta ad aumentare il proprio patrimonio e deve dunque contrarre il credito, di fatto accentuando la crisi economica. Analogamente, i requisiti patrimoniali ponderati per il rischio possono spingere le banche a cedere sul mercato parte dei propri attivi liquidi nel corso di fasi di caduta dei prezzi nei mercati dei capitali, generando fenomeni di deleveraging generalizzati che accentuano ulteriormente la caduta dei prezzi.

È dunque opinione diffusa che il sistema di vigilanza “microprudenziale”, centrato sul sistema dei requisiti patrimoniali minimi ponderati per il rischio, debba essere affiancato da un adeguato sistema di vigilanza “macroprudenziale”, che consenta a organi opportunamente costituiti, di utilizzare strumenti che perseguano la stabilità non delle singole istituzioni ma del sistema nel suo complesso.[2]

È in questa direzione che muove la recente costituzione dello European Systemic Risk Council, un organismo presieduto dal presidente della Banca Centrale Europea e volto a favorire la collaborazione fra organi di vigilanza nazionali in tema di rischio sistemico. L’opposizione britannica ha purtroppo impedito che tale organismo fosse dotato di un vero potere sovranazionale e della possibilità di implementare direttamente, tramite una propria strumentazione indipendente, politiche volte a tutelare la stabilità finanziaria. Esso avrà dunque un ruolo prevalente di analisi delle informazioni rilevanti e si limiterà a formulare raccomandazioni agli organi competenti. È tuttavia verosimile immaginare che, dietro la spinta di un simile organismo, la stabilità finanziaria divenga uno degli obiettivi cardine dell’azione della BCE a fianco della stabilità dei prezzi.

Gli strumenti derivati e il rischio sistemico: verso una clearing house multilaterale?

A fianco di Basilea 2, sul banco degli imputati accusati di essere responsabili della crisi finanziaria globale sono finiti gli strumenti finanziari derivati. Inevitabile, dunque, che anche per questi ultimi siano state formulate numerose proposte di regolamentazione più o meno accentuate. Una emerge, a mio personale avviso, come importante ed efficace, e riguarda l’introduzione, per i derivati negoziati in mercati Over the Counter (OTC) – e dunque caratterizzati dal rischio di controparte – di forme di compensazione multilaterale simili a quelle proprie degli strumenti derivati negoziati in mercati regolamentati.

Il problema è relativamente semplice: alcune banche internazionali di grandi dimensioni negoziano importi particolarmente rilevanti di derivati OTC con altre banche. La situazione che si crea è dunque quella di un intreccio complesso che fa sì che alcune istituzioni finanziarie risultino non più e non tanto semplicemente “too big to fail”, quanto piuttosto “too entangled to fail”. Esse sono infatti talmente interconnesse con le altre banche che una loro eventuale insolvenza, anche prescindendo dall’esistenza o meno di depositanti, sarebbe molto rischiosa per la stabilità del sistema finanziario. Esempi eclatanti di questa elevata “interconnessione” sono stati, nel corso della crisi recente, quelli della banca d’affari Bear Stearns e della compagnia assicurativa AIG. Queste istituzioni si caratterizzavano per volumi elevati di posizioni in derivati, molte delle quali presentavano un valore di mercato negativo, e dunque positivo per le controparti. Queste ultime, di fronte all’insolvenza delle prime, si sarebbero dunque trovate a subire perdite elevate per effetto delle posizioni creditorie nei confronti di istituzioni insolventi. Si crea, in questo modo, un rischio di contagio, ossia una forma di rischio sistemico.

L’introduzione di una clearing house multilaterale, consentendo di compensare le posizioni creditorie con quelle debitorie, ridurrebbe in misura significativa il rischio sistemico associato a questi strumenti. Il problema riguarda in modo particolare gli strumenti derivati di credito, i quali hanno conosciuto una crescita più pronunciata negli anni recenti. Una prima forma embrionale di un simile sistema è rappresentata, negli Stati Uniti, dalla Depositary Trust and Clearing Corporation, un ente al quale tutte le transazioni in credit default swap vengono periodicamente riportate. È certamente auspicabile, e forse anche prevedibile, che nel prossimo futuro le numerose proposte relative a un meccanismo di clearing multilaterale dei derivati OTC, e dei CDS in particolare, trovino concreta attuazione, riducendo così il grado di rischio sistemico associato alle banche maggiormente coinvolte in questi mercati.

Trasparenza

Una criticità importante evidenziata dalla crisi finanziaria riguarda il grado di trasparenza dei bilanci bancari, e in particolare la relativa capacità di rappresentare correttamente e in modo esaustivo la situazione economico-finanziaria dell’impresa e il complesso dei rischi assunti. Si tratta di un aspetto che aveva ricevuto particolare attenzione dallo stesso Comitato di Basilea nell’ambito del terzo pilastro del Nuovo Accordo sul Capitale, il quale aveva introdotto obblighi onerosi relativi alla quantità e qualità di informazioni che le banche avrebbero dovuto fornire al mercato. La sostanza e il principio sottostanti a questi obblighi sono stati di fatto traditi dai numerosi casi di gruppi bancari statunitensi i quali hanno mancato di includere nel proprio perimetro di consolidamento veicoli finanziari all’interno dei quali sono stati trasferiti attivi rischiosi che di fatto rappresentavano perdite potenziali a carico delle stesse banche che li avevano originati.

Anche su questo fronte è verosimile attendersi un rafforzamento della vigilanza prudenziale e un inasprimento degli obblighi informativi a carico delle banche. In questa direzione si sono infatti già espressi diversi organi nazionali e sovranazionali, così come il Financial Stability Board presieduto da Mario Draghi.

L’intervento statale e la disciplina di mercato

L’intervento dello Stato, più o meno diretto, nel settore bancario ha indubbiamente rappresentato il principale strumento, assieme a politiche monetarie fortemente espansive, utilizzato dai paesi economicamente sviluppati per uscire dalla situazione di crisi. Si può argomentare che oggi i principali governi dei paesi economicamente sviluppati sono fortemente legati all’industria bancaria. Essi garantiscono una parte molto più rilevante dei depositi di quanto non fosse vero prima della crisi, possiedono quote di capitale – tramite azioni ordinarie, privilegiate o altre forme tecniche – in numerose banche, e sono percepiti dal mercato come pronti a intervenire in caso di necessità. In generale, la presenza dei governi nell’industria bancaria di numerosi paesi è considerata un fattore essenziale per la stabilità del sistema.

La principale vittima di questo interventismo statale è rappresentata dalla disciplina di mercato, tanto enfatizzata dagli organi di vigilanza e dallo stesso Comitato di Basilea prima della crisi, e inevitabilmente sacrificata sull’altare della stabilità durante la crisi. Valutare l’opportunità degli interventi dei governi è certamente poco utile, anche perché credo che essi fossero effettivamente inevitabili per superare la crisi sistemica che ha investito i principali sistemi bancari. Altrettanto indubbi sono tuttavia i danni che il perdurare dell’intervento statale avrà sull’efficienza del sistema finanziario e, più in generale, sull’efficacia del processo di allocazione del credito al sistema economico. L’evidenza empirica ha mostrato chiaramente come le banche pubbliche – ossia quelle nel cui capitale è riscontrabile la presenza di un ente governativo nazionale o locale – tendano a essere meno efficienti, meno redditizie e a caratterizzarsi per attivi più rischiosi.

L’uscita dei governi dal settore è tuttavia legata all’evoluzione del ciclo economico. Superata la fase di emergenza della seconda metà del 2008, numerose banche affrontano oggi il problema del deterioramento della qualità dei propri attivi, a sua volta determinato da una crescita delle sofferenze, in una situazione di relativa debolezza patrimoniale. Il mercato continua implicitamente a contare sulla possibilità di un intervento pubblico nel caso di episodi di crisi di solvibilità di singole istituzioni finanziarie. In questo senso, immaginare – come hanno fatto di recente alcune banche d’investimento statunitensi – che il semplice rimborso del capitale ricevuto nei mesi passati equivalga a privarsi dell’aiuto statale e consenta dunque di tornare a politiche di remunerazione del personale particolarmente generose, è poco corretto. Anche in assenza di forme di aiuto patrimoniale o finanziario esplicito, l’intero settore bancario internazionale, e in particolare quello statunitense dove la crisi è originata, beneficia ancora oggi di forme di garanzia pubblica implicita il cui onere potenziale ricade inevitabilmente sulle spalle dei contribuenti.

Quale banca?

Quali conseguenze comportano le modifiche nel sistema delle regole finora delineate e, più in generale, i problemi emersi con la crisi recente, per il management delle banche? È verosimile attendersi l’emergere di un diverso modo di fare banca? Più che un cambiamento radicale, è verosimile immaginare, anche su questo fronte così come su quello delle regole, una serie di cambiamenti importanti. Di seguito cercherò di evidenziare, senza alcuna pretesa di essere esaustivo, quelli che a mio avviso assumono maggiore rilevanza per il management delle banche.

La gestione del passivo

Negli anni precedenti la crisi, la convinzione diffusa che il mercato interbancario, e il mercato monetario in genere, fossero caratterizzati da liquidità potenzialmente infinita e continua aveva fatto sì che l’attenzione del management delle banche fosse prioritariamente concentrata sul lato dell’attivo. Si dava infatti per scontato che eventuali rischi di tasso o di liquidità derivanti da squilibri nella struttura per scadenze di attivo e passivo fossero agevolmente gestibili mediante ricorso a questi mercati o mediante utilizzo di strumenti derivati. Analogamente, l’immagine di solidità di cui l’industria bancaria godeva nei mercati dei capitali aveva posto in secondo piano la gestione del patrimonio, la quale era considerata, in molti gruppi bancari, alla stregua della semplice verifica del rispetto di un vincolo normativo.

La crisi finanziaria recente ha posto nuovamente al centro dell’attenzione da un lato il rischio liquidità, dall’altro la gestione del capitale, nelle sue diverse componenti. Tornano dunque a dominare l’attenzione del management bancario aspetti quali la duration del passivo e, più in generale, la struttura per scadenze di attivo e passivo, le fonti finanziarie e il funding risk, la qualità del capitale e i diversi strumenti che compongono il patrimonio di vigilanza, l’adeguatezza del capitale rispetto ai rischi assunti.

L’attività di intermediazione tradizionale e l’equilibrio raccolta-impieghi

Quanto evidenziato al punto precedente si collega anche al tema dell’equilibrio fra depositi e prestiti. Su questo fronte, il problema non è tanto legato all’equilibrio fra le scadenze dell’attivo e del passivo, quanto piuttosto sull’importanza del rapporto prestiti-depositi come determinante della redditività di lungo periodo di una banca. Come evidenziato di recente anche dall’Economist,[3] una struttura equilibrata di raccolta e impieghi, così come riflesso nel semplice rapporto loans to deposits, è divenuta elemento premiante per il giudizio dei mercati. La logica sottostante questo fenomeno è relativamente semplice. Una banca può essere vista come un portafoglio di due attività: 1. un’attività di intermediazione tradizionale, rappresentata appunto da depositi e prestiti, la quale genera margine di interesse; 2. un’attività di investment banking, di negoziazione nei mercati dei capitali e, in generale, di offerta di servizi, la quale genera margini commissionali (fee income) e capital gains. L’evidenza empirica mostra che la prima attività si caratterizza per un minore grado di volatilità dei relativi risultati reddituali, e dunque per un minor grado di rischio. In questo senso, nelle fasi di crisi come quella attuale, l’attività di tipo fee income tende a perdere di rilevanza. Cresce dunque il peso dell’attività meno rischiosa, la quale consente di ridurre il rischio complessivo della banca. L’attività di intermediazione tradizionale funge quindi in qualche modo da shock absorber e consente a una banca di meglio fronteggiare situazioni di crisi congiunturali. Il mercato riconosce questo aspetto e attribuisce un valore più elevato, a parità di altre condizioni, a quelle istituzioni che presentano un peso consistente dell’attività di intermediazione tradizionale e, in questo ambito, un rapporto equilibrato fra depositi e prestiti. In questo senso, è verosimile ipotizzare che anche in futuro, così come accaduto nei mesi passati per il mercato azionario, risultino invece penalizzate quelle banche che presentano rapporti più elevati fra prestiti e depositi, ossia che finanziano una parte cospicua del proprio portafoglio impieghi mediante ricorso a forme di finanziamento ormai considerate più aleatorie e rischiose quali l’interbancario o il mercato dei capitali.

Risk management

A fianco di Basilea 2 e degli strumenti derivati, sul banco degli imputati accusati di aver contribuito alla crisi finanziaria siedono a buon diritto anche i modelli di misurazione dei rischi sviluppati dall’industria bancaria a partire dagli anni ottanta. L’accusa è fin troppo semplice: fondati sull’ipotesi irrealistica del ripetersi della storia passata – quest’ultima rappresentata, negli anni appena precedenti la crisi, da rendimenti positivi elevati, limitata volatilità, bassi tassi di insolvenza, elevati tassi di recupero, spread creditizi contenuti ecc. – essi hanno largamente sottovalutato la reale dimensione dei rischi assunti dalle banche. Non è mia intenzione entrare nel dibattito connesso a questa critica, la quale richiederebbe di addentrarsi in aspetti di natura tecnica. Desidero invece semplicemente osservare che, se questa critica è fondata, ne deriva anche che i modelli di risk management diverranno in futuro non solo più importanti – perché una corretta misurazione e gestione dei rischi sono inevitabilmente divenute più importanti sia per gli organi di vigilanza sia per il management delle banche alla luce di quanto accaduto – ma anche più credibili. Essi potranno, infatti, fondarsi sull’evidenza empirica di un periodo caratterizzato da rendimenti negativi di assoluto rilievo, elevata volatilità, forte crescita dei tassi di insolvenza, ridotti tassi di recupero ecc. I modelli utilizzati nella gestione quotidiana dei rischi saranno peraltro, come già evidenziato sopra, integrati in misura sempre maggiore e robusta da approfonditi esercizi di stress testing volti a identificare le principali aree di vulnerabilità della singola banca.

La gestione efficiente del capitale su base risk-adjusted

Come conseguenza dei due punti precedenti – la maggiore attenzione attribuita a una risorsa scarsa, il patrimonio, e la maggiore rilevanza e credibilità dei modelli di risk management – è anche verosimile attendersi che il management delle banche presti in futuro maggiore attenzione a un utilizzo efficiente del capitale, introducendo adeguate politiche di allocazione di quest’ultimo a quelle unità o divisioni che mostrano di essere in grado di generare una superiore redditività corretta per il rischio sostenibile nel tempo.

Le politiche remunerative

Come evidenziato dal Financial Stability Forum,[4] le politiche di remunerazione del personale adottate da alcune grandi istituzioni finanziarie hanno rappresentato uno dei fattori che ha contribuito a generare la crisi finanziaria. In particolare, sotto accusa sono finiti i bonus generosi legati a risultati di breve periodo, corrisposti senza un’adeguata valutazione dei rischi di lungo termine associati a questi risultati. Questi meccanismi premianti hanno infatti, rappresentato dei potenti incentivi all’assunzione eccessiva di rischi e hanno privato le banche delle risorse finanziarie necessarie a sopportare le perdite emerse in seguito alla materializzazione dei rischi assunti. Una survey recente dell’International Institute of Finance[5] ha evidenziato come ancora oggi solo una minoranza delle principali banche utilizzi misure di redditività corretta per il rischio per calcolare il pool di fondi destinato alle remunerazioni variabili. Su questo fronte, è verosimile che negli anni a venire si rafforzino le misure volte a rendere i sistemi di remunerazione variabile maggiormente legati, da un lato, ai rischi assunti dalle singole unità/risorse della banca, dall’altro ai risultati di medio-lungo periodo. I meccanismi utilizzabili e già utilizzati a questo scopo sono diversi: l’utilizzo di risultati reddituali rapportati a misure sintetiche del rischio assunto, il trattenimento di parte della remunerazione variabile e la relativa successiva riduzione se il risultato conseguito non viene conservato nel tempo, la liquidazione della remunerazione variabile solo in corrispondenza della chiusura dell’orizzonte temporale connesso all’operazione che ha prodotto il risultato economico, l’introduzione di curve di remunerazione variabile caratterizzate da una forma a S, la quale vede ridursi significativamente l’incremento della remunerazione variabile al superamento di determinate soglie di risultato, in modo da limitare l’incentivo a forme di eccessiva assunzione di rischio, e ancora l’affiancamento alle misure di risultato economico, le quali si limitano a registrare l’utile conseguito dalla banca, di misure di soddisfazione della clientela, le quali rappresentano una migliore proxy della sostenibilità dei risultati economici nel medio-lungo periodo.

Conclusioni

L’obiettivo di queste pagine non era giudicare la riforma dell’architettura delle regole che governano l’industria bancaria internazionale scaturita dalla crisi finanziaria, se non altro perché questa riforma non è ancora stata completata e non è dunque nota nei suoi contorni complessivi. L’obiettivo era piuttosto delineare il quadro che sembra prospettarsi all’orizzonte alla luce delle numerose proposte formulate dagli organi competenti soprattutto nel corso dell’ultimo anno e valutarne le implicazioni gestionali per il management delle banche. Quanto sinteticamente delineato finora lascia tuttavia trasparire un insieme di modifiche importanti ma relativamente marginali rispetto alla gravità di quanto accaduto. La crisi finanziaria recente ha mostrato chiaramente come il sistema di vigilanza bancaria centrato sulle singole autorità nazionali risulti fortemente deficitario in presenza di istituzioni che operano a livello globale in più settori di attività. Analogamente, la convinzione che la rete di protezione garantita dalla presenza pubblica fosse confinata alle sole banche che offrono depositi alla clientela e svolgono una funzione monetaria è anch’essa crollata con il salvataggio forzato e i numerosi provvedimenti di sostegno delle banche d’investimento realizzati con i fondi dei contribuenti. In questo senso, le proposte ambiziose di costituzione di un’autorità di vigilanza europea che si occupasse dei grandi gruppi finanziari la cui operatività supera largamente i confini nazionali oltre che le risorse e le competenze proprie dei singoli organi nazionali, sono cadute sotto la gelosa tutela della propria quota di mercato perseguita da questi ultimi. Si sono invece rafforzati, seguendo le proposte del rapporto de Larosière,[6] i meccanismi di coordinamento e di scambio di informazioni fra organi di vigilanza nazionali. In questa direzione va anche la recente trasformazione del Financial Stability Forum in un organo permanente che agevoli questa forma di cooperazione, denominato Financial Stability Board. Ciò premesso, i cambiamenti nel sistema delle regole che governano l’attività delle banche sinteticamente descritti in queste pagine restano rilevanti e sono, nell’opinione di chi scrive, largamente condivisibili. Essi risultano peraltro ricchi di conseguenze importanti per chi assume, all’interno delle banche, responsabilità di gestione. In questo senso, come ho cercato di evidenziare in queste pagine, il management delle banche dovrà in futuro dedicare attenzioni e risorse maggiori di quanto effettuato in passato al rischio di liquidità e, più in generale, al funding risk, all’equilibrio fra impieghi e raccolta e a una corretta misurazione dei rischi assunti. Quest’ultima risulterà peraltro una variabile cruciale nella determinazione dell’adeguatezza patrimoniale – indipendentemente dai vincoli esogeni rappresentati dai requisiti minimi imposti dalla vigilanza – nell’allocazione efficiente del capitale e nella determinazione della componente variabile delle remunerazioni.

1

Una interessante e completa raccolta dei principali modelli e tecniche di stress testing utilizzate dall’industria bancaria e dai regulator è stata di recente curata da Mario Quagliariello della Banca d’Italia (Mario Quagliariello, a cura di, Stress Testing the Banking System: Methodologies and Applications, Cambridge University Press, 2009).

2

Un’efficace analisi di questi problemi, corredata da interessanti proposte di policy, è contenuta nel rapporto del Gruppo di Ginevra: Brunnermeier M., Crockett A., Goodhart C., Persaud A.D., Shin H., The Fundamental Principles of Financial Regulation, International Center for Monetary and Banking Studies, 2009.

3

The Economist, “Rebuilding the Banks”, May 16, 2009.

4

Financial Stability Forum, “FSF Principles for Sound Compensation Practices”, April 2009.

5

Institute of International Finance, “Compensation in Financial Services: Industry Progress and the Agenda for Change”, March 2009.

6

Jacques de Larosière, “The High Level Group on Financial Supervision in the EU”, February 2009.