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2008/5
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Premiato con la Palma d’Oro al Festival di Cannes, Entre les murs di Laurent Cantet si interroga su cosa significhi “fare scuola” nel mondo contemporaneo ed elabora alcune idee sui temi della formazione, della motivazione e dell’organizzazione che anche il mondo delle imprese dovrebbe tenere in debita considerazione.
La classe. Entre les murs
Regia: Laurent Cantet
Interpreti: François Bégaudeau e attori non professionisti, ognuno nella parte di se stesso
Francia, 2008
Venticinque ragazzini quattordicenni, allievi di una scuola superiore del 20° arrondissement parigino, chiusi in una classe con il loro professore di francese. Due ore serratissime di dialoghi, conversazioni, dibattiti. Senza mai uscire dalla scuola, ma facendo entrare il nostro mondo e il nostro tempo, con tutte le loro brucianti contraddizioni, tra le mura dell’istituto. Gli alunni sono un’espressione emblematica della realtà multietnica del mondo contemporaneo: algerini, tunisini, cinesi, sudamericani, africani, turchi, portoghesi, qualche raro francese. L’insegnante – autore di un bestseller molto amato in Francia, coautore del film oltre che interprete di se stesso sullo schermo – cerca di insegnare loro la lingua francese e, insieme ad essa, anche le regole basilari della democrazia e della convivenza civile. Ma come si fa a insegnare a un gruppo di adolescenti demotivati, annoiati, poco integrati? Che modello organizzativo adottare, che strategia formativa seguire? Entre les murs di Laurent Cantet (autore di film sempre molto attenti alle trasformazioni in atto nel mondo del lavoro, da Risorse umane a A tempo pieno), meritatamente premiato con la Palma d’Oro all’ultimo Festival del cinema di Cannes, si interroga senza pregiudizi ideologici su cosa significhi fare scuola oggi. Così facendo, offre anche più di uno spunto di riflessione su una questione centrale nella vita di tutte le organizzazioni contemporanee quale quella della formazione. Ne discutono, come di consueto, Severino Salvemini e Gianni Canova.
S.S. La prima cosa che mi ha positivamente colpito nel film è che Cantet mette in scena una situazione, come dire, “normale”. Mostra la fisiologia del processo formativo, non le sue eventuali patologie. Non è una classe particolarmente “difficile”, quella con cui ha a che fare il professor François. Non ci sono casi eclatanti di violenza, di insubordinazione, di rifiuto. Eppure c’è un disagio sottile che circola, appunto, “fra le mura”, e che riguarda non solo i giovani (insofferenti, insolenti, demotivati), ma anche gli insegnanti (frustrati, stanchi, rassegnati) e l’istituzione scolastica nel suo complesso.
G.C. Sono d’accordo. Ma proprio in ciò sta il valore di un film come Entre les murs. Non racconta casi di bullismo, non intona canti funebri sulla decadenza della scuola, non mette in scena situazioni “estreme”. La stessa composizione multietnica della classe è ormai un dato di fatto sociologico in tutte le grandi metropoli europee. Ma è proprio questa sua rappresentatività emblematica a farne un documento importante nel dibattito e nella riflessione sui percorsi e sui processi formativi nella società contemporanea.
S.S. Da questo punto di vista, il modello formativo adottato dal professore protagonista è molto interessante. François Bégaudeau non dà ordini, discute tutto. È paritetico nel rapporto con gli allievi. Ma è anche convinto e consapevole che fra lui è la classe c’è un’asimmetria di conoscenza. Tanto che quando i ragazzi più ribelli lo contestano, lui reagisce spiegando che è lì perché deve insegnare qualcosa a loro. Il suo metodo è un mix molto interessante fra rifiuto del vecchio modello gerarchico e ricerca faticosa di una nuova autorevolezza fondata sulla convinzione che l’educazione è soprattutto una via per accedere alla conoscenza del mondo e di se stessi.
G.C. Io trovo molto stimolante anche il fatto che il protagonista sia un insegnante di francese. Entre les murs è un film sulle parole. Sul loro senso. Sul modo in cui si incatenano le une alle altre. Su come riescono a far sentire le persone più vicine o più lontane. Sul significato che riescono o non riescono a esprimere. Come si fa a insegnare l’uso del congiuntivo imperfetto a ragazzini che lo rifiutano, perché in strada non si parla così, perché i loro genitori non lo usano, e perché ritengono quel modo di esprimersi “medievale” o “da omosessuale”…? Come si fa a far leggere Il diario di Anna Frank a adolescenti che rifiutano i libri e non hanno alcun interesse per il passato? L’insegnante spiega, giustifica, ribatte. Sta nella mischia e non molla mai, neanche un attimo: la parola è la sua arma. È il suo mezzo e, insieme, il suo fine…
S.S. Non solo: il fatto che il protagonista sia un insegnante di francese suggerisce anche che il suo metodo non prevede l’omologazione degli alunni ma, casomai, la difficile e graduale costruzione – anche a partire dalla lingua – di una comune identità condivisa. Per aggirare le obiezioni e i rifiuti dei ragazzi non c’è altra via che quella di provare a farli sentire tutti un po’ più francesi. La demotivazione si supera, nel film come in tante aziende contemporanee, sviluppando l’integrazione e l’adesione a un modello di identità condiviso. Magari, anche quello che comunemente definiamo l’orgoglio di appartenenza.
G.C. Mi ha molto colpito la sequenza in cui Bégaudeau scrive alla lavagna una frase qualunque e sceglie come soggetto un nome proprio occidentale (Bill): subito una ragazzina africana lo contesta e gli chiede perché non ha scelto come nome esempio Rachid, o Mohamed. Anche in questo caso l’insegnante si giustifica, spiega, motiva, discute. E gli alunni replicano e ribattono, ognuno con le inflessioni fonetiche tipiche della propria terra di origine. È bello sentire questo linguaggio neobabelico, in cui l’insegnante è il solo a conservare l’eleganza e la purezza del francese che era di Balzac o di Flaubert…
S.S. Sì, ma senza mai far pesare questa sua “superiore” competenza linguistica. Vedendo il film, mi tornava in mente quanto scrive Baricco nel suo libro I barbari: spesso l’educazione è basata su modelli aristocratici. Ma quando hai a che fare con i “barbari”, per capirli e per dialogare con loro, hai bisogno di adottare paradigmi conoscitivi diversi. Il protagonista di Entre les murs lo fa: e in questo senso diventa un modello, con tutte le sue debolezze e i suoi limiti, per ogni percorso formativo che voglia fare i conti con la complessità del contemporaneo.
G.C. Io credo che il film risulti così convincente e così “vero” anche per il metodo rigoroso adottato da Cantet: gli studenti sono stati scelti fra gli allievi di un liceo parigino; ognuno interpreta se stesso e conserva anche nella “finzione” il nome che porta nella vita (con l’eccezione di Soulyemane, il ragazzino ribelle che alla fine viene espulso, e che in realtà si chiama Franck Keita). Lo stesso vale per gli insegnanti (a cominciare dal protagonista). E poi: niente musica extradiegetica, solo rumori d’ambiente. Nessun racconto, nessun intreccio. Solo scene di vita quotidiana in presa diretta dall’aula scolastica. Non c’è un punto di vista prestabilito, che razionalizzi il vissuto e ne dia una lettura ideologica o pedagogica o sociologica. Cantet lascia fluire e scorrere la vita. Non drammatizza e non minimizza. Sta nella mischia e non molla la presa.
S.S. Anche a me ha molto colpito questo approccio, come dire, invisibile, non invasivo. Tutto il film si svolge dentro la scuola. In classe o in sala professori, dove gli insegnanti si confrontano a partire dalla condivisione del medesimo progetto formativo. Il mondo esterno sembra restare fuori dal film. Eppure il film parla proprio di questo mondo. Con il suo “metodo”, Cantet ci aiuta a vedere non solo i muri visibili che perimetrano l’aula, ma anche i muri mentali che separano gli adolescenti dagli adulti, e che ostacolano la costruzione di processi fondamentali della nostra modernità come la democrazia, la convivenza, l’identità.