E&M

2008/5

Andrea Sironi

La crisi finanziaria internazionale un anno dopo: quali lezioni per le banche e le autorità di vigilanza?

È trascorso poco più di un anno da quando, nell’estate del 2007, nei mercati finanziari internazionali è esplosa la crisi del credito originata dai mutui subprime statunitensi. Gli effetti della crisi sono ancora lontani dall’essersi esauriti e le ripercussioni sull’economia reale si manifestano ogni mese con maggiore severità. Le previsioni per il futuro sono assai variabili: si va da chi ritiene che gli effetti negativi sull’economia reale si esauriranno nel 2009 a chi invece giudica questa crisi come la peggiore dopo la grande depressione degli anni trenta del secolo scorso e ritiene che il peggio debba ancora manifestarsi. Più facile della previsione è l’esercizio di analisi retrospettiva della crisi, delle sue cause e delle lezioni che da essa si possono trarre, da un lato, per il management delle istituzioni finanziarie, quelle maggiormente coinvolte nella crisi, dall’altro per gli organi di vigilanza, ai quali è demandata la tutela della stabilità finanziaria.

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Genesi di una crisi inattesa

Per comprendere appieno le cause che stanno alla base della crisi del credito occorre anzitutto esaminare le condizioni che caratterizzavano il contesto macroeconomico, non solo americano ma anche europeo, del periodo immediatamente precedente la stessa:

· tassi di interesse estremamente ridotti, favoriti da politiche monetarie espansive e da basse aspettative di inflazione;

· una crescita economica relativamente sostenuta, favorita in modo particolare dallo sviluppo delle economie asiatiche, Cina e India;

· tassi di insolvenza – sia nel mercato obbligazionario internazionale sia in quello dei prestiti bancari – ai minimi storici e in ribasso;

· spread creditizi – ossia differenziali fra i tassi di interesse richiesti dagli investitori alle imprese e agli individui che si indebitano rispetto ai tassi di interesse privi di rischio – anch’essi a livelli molto ridotti, nettamente inferiori ai valori medi storici.

Le condizioni di cui sopra erano fra loro collegate. Tassi di interesse ridotti favorivano gli investimenti e la crescita economica, che a sua volta aiutava le imprese a crescere e rendeva meno probabili le situazioni di difficoltà che conducono all’insolvenza. Un basso tasso di default riduceva a sua volta il premio al rischio richiesto dagli investitori – banche, fondi, assicurazioni – e consentiva così a imprese e individui di finanziarsi a tassi più contenuti.

Leva finanziaria, rischio di credito e liquidità

Le condizioni appena descritte hanno determinato un contesto particolarmente favorevole, che a sua volta ha favorito lo sviluppo di un elevato grado di liquidità nei mercati finanziari internazionali. L’offerta di fondi da parte delle diverse categorie di investitori (banche e altri investitori istituzionali) eccedeva infatti la domanda, generando una situazione ben rappresentata dal detto inglese “too much money chasing too few investments”.

In una situazione del genere non stupisce che in alcuni mercati, in particolare in quello statunitense, l’eccesso di liquidità abbia condotto a un incremento significativo della leva finanziaria. In altri termini, di fronte alla facilità di ottenere finanziamenti a un costo relativamente contenuto, le imprese hanno accresciuto in misura rilevante il proprio grado di indebitamento, gli individui hanno incrementato investimenti immobiliari e consumi mediante il ricorso all’indebitamento bancario, i fondi di private equity hanno concluso operazioni di acquisizione caratterizzate da un elevato rapporto fra capitale di debito e capitale di rischio, così come peraltro i fondi hedge operavano con elevata leva finanziaria, privi di alcuna regolamentazione, rendendo possibile il finanziamento di operazioni straordinarie. È questo il primo dei quattro elementi di fragilità che, come vedremo fra poco, hanno favorito l’emergere della crisi.

La seconda criticità trova la propria origine nelle politiche seguite da numerose banche internazionali. In un contesto di elevata liquidità e margini reddituali contenuti connessi ai bassi spread creditizi, esse hanno perseguito i propri obiettivi di redditività sfruttando al massimo la propria dotazione patrimoniale. Sarebbe tuttavia improprio parlare di un semplice incremento della leva finanziaria: come noto, infatti, le banche sono soggette a un vincolo esogeno – rappresentato dai requisiti minimi di patrimonializzazione proposti dal Comitato di Basilea – che ne limita la capacità di aumentare la leva. Non potendo accrescere gli attivi a rischio, l’espansione dell’offerta di credito è stata realizzata cedendo attivi preesistenti – mediante operazioni di securitization, di loan sales o di cessione del rischio di credito mediante credit derivatives – e liberando in questo modo parte del capitale impegnato. In sé e per sé, questo processo di trasformazione di attivi illiquidi – tipicamente prestiti bancari – in attività liquide, sotto forma di titoli negoziabili (asset backed securities o ABS) o più semplicemente di prestiti scambiati in un mercato secondario, può essere considerato virtuoso e capace di condurre a una migliore allocazione dei rischi nell’ambito del sistema finanziario. Gli attivi generati dalle banche sotto forma di prestiti vengono infatti destinati ai portafogli di altri investitori, quali fondi pensione e compagnie assicurative. Allo stesso modo, esso conduce potenzialmente a una migliore diversificazione dei portafogli prestiti delle banche, consentendo alle banche minori che operano in settori e aree geografiche concentrati di accedere a esposizioni creditizie di settori e regioni differenti.

Il problema si presenta tuttavia – e qui sta la seconda criticità – nel momento in cui per le banche la cessione dei prestiti originati diviene la prassi e la quota di crediti ceduti raggiunge e supera l’80-90% dei prestiti originati. In una situazione di questa natura emerge, infatti, un problema di incentivi che in termini tecnici può essere denominato di moral hazard. La banca che origina il credito dovrebbe valutare con attenzione il merito di credito e dunque la qualità del debitore. Essa tuttavia perde l’incentivo a effettuare tale valutazione in quanto consapevole del fatto che il rischio connesso all’attivo generato non resterà sul proprio bilancio ma verrà sopportato da un altro soggetto. In altri termini, il problema che si viene a determinare riguarda la ripartizione di responsabilità e oneri: mentre la responsabilità di svolgere l’analisi del rischio di credito compete ancora alle banche che originano i crediti, le conseguenze negative delle eventuali insolvenze dei debitori ricadono su coloro che hanno acquisito gli attivi ceduti dalle banche.

Tecnicamente, il processo è più complicato di quanto sinteticamente descritto finora e vede le banche partecipare nel mercato non solo sul fronte della cessione dei crediti, ma anche come investitori in prodotti strutturati quali i CDOs (collateralized debt obligations), anch’essi titoli risultanti da operazioni di securitization. I prestiti ceduti dalle banche vengono utilizzati come attività sottostanti poste a garanzia di emissioni di titoli i quali divengono essi stessi oggetto di investimento di altre istituzioni finanziarie. Anche in questo caso, si potrebbe argomentare a favore della natura virtuosa di un simile processo, il quale consente di rendere liquide e facilmente negoziabili attività che in precedenza non lo sono. Esso, tuttavia, si qualifica come tale fino al momento in cui la liquidità è davvero tale e non viene data per scontata da coloro che partecipano al mercato.

Veniamo così alla terza criticità, che ha favorito la crisi esplosa nell’estate del 2007, e in particolare le gravi perdite sostenute da numerose banche. Essa riguarda la valutazione del rischio connesso ai titoli strutturati risultanti da processi di titolarizzazione. Anche in questo caso il problema riguarda la ripartizione di responsabilità e oneri. Le attività liquide risultanti dai processi di securitization sono infatti generalmente inserite nei bilanci delle banche nel portafoglio di negoziazione o trading book. In questo senso, esse si differenziano dagli attivi, tipicamente i prestiti bancari, inseriti nel banking book. Gli strumenti inseriti nel trading book sono generalmente oggetto, da parte sia del risk management delle banche sia degli organi di vigilanza, di un’analisi dei rischi di mercato, ossia del rischio di oscillazioni di breve periodo del relativo prezzo. Minore attenzione è invece prestata al rischio di credito. Il rischio principale che può determinare una variazione del prezzo dei titoli strutturati quali ABS, CDO e simili è tuttavia proprio il rischio di credito, ossia il rischio di un deterioramento del merito di credito dei soggetti debitori dei prestiti che garantiscono la qualità dei titoli stessi. Con riferimento a questa tipologia di rischio, numerosi investitori hanno fatto pieno affidamento sulle agenzie di rating internazionali, venendo meno a una delle funzioni classiche di un intermediario finanziario: la valutazione rigorosa del merito di credito dei soggetti affidati. È importante ricordare che questi titoli erano in realtà caratterizzati da spread nettamente superiori a quelli di una semplice obbligazione corporate di pari rating, il che avrebbe dovuto quantomeno sollevare qualche dubbio circa il relativo merito di credito.

Un ultimo elemento di fragilità riguarda la natura dei processi di securitization, i quali si sono a loro volta caratterizzati per un elevato grado di leva finanziaria, nel senso che le medesime attività sottostanti (prestiti, mutui ecc.) sono state oggetto di più operazioni di titolarizzazione. Ciò è stato possibile grazie al meccanismo delle operazioni sintetiche realizzate mediante credit default swap, come per esempio nel caso dei CDO sintetici. A titolo puramente esemplificativo, ciò significa che a fronte dell’eventuale insolvenza di un debitore il cui mutuo è stato oggetto di numerose operazioni di securitization sintetica, vi sarà un numero elevato di titoli, e dunque di investitori, che subiranno delle perdite.

Le condizioni macroeconomiche favorevoli descritte sopra – crescita economica sostenuta, bassi tassi di interesse e di insolvenza, ridotti spread creditizi – hanno dunque favorito l’emergere di quattro importanti elementi di fragilità: 1. un elevato livello di leva finanziaria di imprese e individui; 2. un’inadeguata valutazione da parte delle banche del rischio di credito connesso a prestiti bancari che sarebbero successivamente stati oggetto di cessione nel mercato; 3. una scarsa attenzione da parte delle istituzioni finanziarie al rischio di credito connesso ai titoli risultanti dai processi di titolarizzazione; 4. un elevato grado di leva dei processi di titolarizzazione.

La crisi dei mutui subprime

Sono questi gli elementi sui quali si è innestato, già a partire dall’inizio della seconda metà del primo decennio del nuovo secolo, un cambiamento del contesto macroeconomico, che ha visto, da un lato, un aumento dei prezzi delle materie prime, il quale ha a sua volta favorito una ripresa delle pressioni inflazionistiche, e, dall’altro, una flessione dei prezzi degli immobili. La scintilla che ha dato origine all’esplosione della crisi si è quindi manifestata dapprima nel mercato dei mutui immobiliari. Nel contesto descritto di caduta dei prezzi degli immobili e di rialzo dei tassi di interesse, numerosi debitori si sono trovati in una situazione c.d. di “negative equity”, ossia con un valore dell’immobile di proprietà inferiore al valore del proprio debito, e in presenza di rate del mutuo da pagare in crescita a causa del rialzo dei tassi. In una simile situazione l’insolvenza, ossia il mancato pagamento delle rate del mutuo, diviene una strategia economicamente conveniente. Sono così emersi, a fianco delle insolvenze guidate dall’effettiva incapacità di far fronte agli adempimenti contrattuali, i cosiddetti “strategic defaults”, ossia le insolvenze guidate dalla convenienza economica. La crescente aspettativa diffusasi nel mercato circa l’incapacità dei mutuatari di adempiere alle proprie obbligazioni contrattuali ha generato una crisi di liquidità nel mercato dei mortgage backed securities (MBS), facendo di fatto scomparire i potenziali acquirenti.

La diffusione della crisi al sistema bancario si è inoltre amplificata a causa del terzo fattore di criticità descritto sopra, ossia la scarsa attenzione nei confronti del rischio di credito connesso ai titoli strutturati risultanti dalle operazioni di securitization. Numerosi titoli di questa natura, la cui qualità dipende in modo cruciale dalla capacità dei soggetti ai quali sono stati concessi originariamente i mutui di continuare a pagare le rate degli stessi, hanno visto crollare la propria liquidità e dunque le proprie quotazioni di mercato. È interessante osservare come il crollo dei prezzi non abbia riguardato unicamente i titoli di peggiore qualità, ossia quelli qualificati come speculative grade dalle agenzie di rating internazionali, tipicamente associati alle tranche junior, subordinate ed equity delle operazioni di titolarizzazione, ma anche e soprattutto i titoli di maggiore qualità, quelli ai quali le agenzie di rating avevano attribuito un rating massimo – AAA (Standard & Poors e Fitch) o Aaa (Moodys) – associati alle tranche senior e supersenior. Si tratta, in questo caso, di titoli i cui cash flow sono protetti dai titoli delle tranche sottostanti, i quali assorbono le perdite associate alle prime insolvenze. In generale, è difficile immaginare che i tassi di insolvenza, perfino nel mercato americano dei subprime, giungeranno a livelli tali da determinare perdite anche per i titoli di maggiori qualità. Questi ultimi cominciano infatti a subire perdite unicamente quando viene completamente eroso il valore delle tranche junior. Il crollo dei relativi prezzi è dunque principalmente il risultato di una crisi di liquidità – oltre che del rischio di un downgrading – la quale ha di fatto eliminato il lato della domanda del mercato dei titoli strutturati legati alle operazioni di securitization. In pratica, di fronte all’incremento dei tassi di insolvenza relativi ai prestiti sottostanti alle operazioni di titolarizzazione, gli investitori hanno abbandonato il mercato, privandolo della liquidità alla quale tutti erano da anni abituati. In assenza di acquirenti, i prezzi sono inevitabilmente crollati.

Sono dunque risultate fortemente colpite le banche che avevano nei propri portafogli quote elevate di mutui real estate, quali la britannica Northern Rock, la quale finanziava il proprio portafoglio di mutui con continui rollover di esposizioni a breve termine, o, alternativamente, quelle che avevano investito in titoli strutturati frutto delle operazioni di titolarizzazione, quali la statunitense Bear Stearns o la svizzera UBS.

La reazione degli organi di vigilanza

La crisi inattesa innescata dai mutui subprime ha visto una reazione altrettanto inattesa da parte degli organi di vigilanza statunitensi e britannici. La Federal Reserve, d’accordo con la Federal Deposit Insurance Corporation, e la Bank of England, d’accordo con la Financial Services Authority, hanno offerto ampie linee di liquidità alle istituzioni finanziarie che ne avevano bisogno. Esse sono inoltre direttamente intervenute nel salvataggio delle istituzioni incapaci di far fronte ai propri obblighi contrattuali, e dunque tecnicamente insolventi. La reazione può considerarsi inattesa per il semplice motivo che essa contraddice, almeno formalmente, il principio di “no bail out” che negli Stati Uniti era stato sancito ancora dal Federal Deposit Insurance Corporation Improvement Act (FDICIA) del 1991, secondo il quale le autorità di vigilanza non sarebbero mai più intervenute in operazioni di salvataggio di istituzioni finanziarie private al di là della semplice tutela dei creditori assicurati, ossia dei depositanti protetti dalla FDIC. La sorpresa deriva peraltro anche dal fatto che la Federal Reserve ha garantito liquidità non solo alle banche commerciali, sottoposte al proprio diretto controllo, ma anche alle grandi banche di investimento quali Merril Lynch e Lehman Brothers. L’intervento a favore delle istituzioni in crisi, analogo per logica a quello più recente rivolto alle due grandi istituzioni statunitensi attive nel mercato dei mutui immobiliari – Fannie Mae e Freddie Mac – si giustifica in modo particolare alla luce del forte rischio di contagio, ossia di diffusione degli episodi di crisi, che i casi menzionati presentavano.

Questi interventi possono essere giudicati positivamente se si considera che la stabilità finanziaria è stata finora garantita. Essi presentano tuttavia costi elevati, non solo diretti, legati agli oneri sostenuti dalle autorità, ma anche indiretti, legati agli effetti che presentano per la credibilità di politiche volte a promuovere la disciplina di mercato tanto enfatizzata anche dal Comitato di Basilea nel terzo pilastro del Nuovo Accordo sul Capitale (Basilea 2). Di fronte alla complessità che caratterizza i grandi gruppi finanziari internazionali, sovente attivi in diverse aree di affari (asset management, investment banking, commercial banking ecc.) e caratterizzati da portafogli dei quali è difficile valutare l’effettivo profilo di rischio, negli ultimi anni sono stati infatti avviati numerosi provvedimenti volti a far sì che a sanzionare istituzioni che assumono rischi eccessivi non siano solo le autorità, mediante requisiti patrimoniali più stringenti, ma anche il mercato dei capitali, attraverso premi per il rischio più elevati. Se, tuttavia, nel mercato dovesse diffondersi la convinzione che i creditori non assicurati (e addirittura gli azionisti, come si potrebbe desumere dal caso di Bear Stearns, Fannie Mae e Freddie Mac) di istituzioni finanziarie in crisi vedranno salvaguardati i propri crediti dall’intervento di organi di vigilanza interessati a tutelare la stabilità finanziaria, è piuttosto evidente che ogni sforzo volto a promuovere la disciplina di mercato risulterà vano.

Quali lezioni per il management delle banche e per gli organi di vigilanza?

In conclusione, quali sono le principali lezioni che la crisi offre per il management delle istituzioni finanziarie e per chi è chiamato a vigilare sulla stabilità del sistema finanziario nel suo complesso? Il primo aspetto importante evidenziato dalla crisi si riferisce al ruolo e alla rilevanza che la funzione di risk management assume in un contesto economico-finanziario favorevole. In pratica, in condizioni di mercato favorevole, quali erano quelle immediatamente precedenti l’esplosione della crisi nell’estate del 2007, chi origina operazioni e genera redditività tende ad assumere, all’interno di una banca, un ruolo e un peso nettamente superiori a quello di coloro che sono chiamati a identificare, misurare e limitare i rischi. In parte, questo fenomeno di “asimmetria di peso” si giustifica anche alla luce del diverso profilo di payoff che caratterizza le due funzioni. Chi si occupa di generare business ha infatti profitti potenzialmente molto elevati e perdite limitate. Il peggio che può capitargli è di non riuscire a chiudere un’operazione, rinunciando così al relativo bonus. Un risk manager ha invece un profilo opposto: profitti limitati e perdite potenzialmente illimitate: se non si incontrano situazioni di crisi o di difficoltà, nessuno si preoccupa di evidenziarne e remunerarne in modo particolare i meriti. Se invece emergono situazioni di crisi, la responsabilità tende a essere addossata proprio a chi doveva occuparsi di evitarla. È piuttosto evidente che una simile asimmetria si traduce anche in una diversa forza contrattuale delle due posizioni. Sarebbe invece opportuno che i sistemi incentivanti degli uni e degli altri riflettessero in modo adeguato le situazioni di potenziale crisi, per esempio non riconoscendo immediatamente – al momento dell’origination delle operazioni – i bonus a chi le ha generate dal punto di vista commerciale, ma solo dopo un periodo che consenta di far emergere eventuali potenziali situazioni di criticità, ed eventualmente riconoscendo parte di tale bonus anche alla funzione di risk management al momento della chiusura completa delle operazioni e dell’effettivo conseguimento degli utili ad esse associati.

Una seconda importante lezione che assume rilevanza sia per il management delle banche sia per gli organi di vigilanza riguarda il tema del rischio di liquidità. Nel corso degli ultimi venti anni l’attenzione di banche e organi di vigilanza, la cui visione coordinata si è riflessa nei lavori del Comitato di Basilea, si è focalizzata sul tema dell’adeguatezza patrimoniale rispetto all’entità dei rischi assunti. Più in particolare, in questa logica coerente che vede nel patrimonio di un’istituzione finanziaria il presidio principe di fronte ai diversi rischi assunti, l’attenzione si è concentrata sui rischi che possono generare perdite inattese: rischio di credito, rischi di mercato, rischio operativo. Minore attenzione è stata invece dedicata al rischio di liquidità. In realtà ciò rifletteva la convinzione che, in presenza di un mercato interbancario internazionale integrato e liquido, un intermediario finanziario ben patrimonializzato non avrebbe mai problemi di liquidità, nel senso che, in caso di difficoltà, avrebbe sempre facile accesso al credito a breve da parte di altre banche.

Questo ragionamento, apparentemente logico, si focalizza tuttavia sul rischio di liquidità che a una banca deriva dallo squilibrio delle scadenze dell’attivo e del passivo, il c.d. funding risk. Esso trascura invece la possibilità che le attività stesse nelle quali sono investiti i capitali di un intermediario finanziario subiscano una diminuzione di prezzo conseguente alla carenza di liquidità del relativo mercato – il c.d. market liquidity risk – e generino così perdite che compromettono la patrimonializzazione della banca. In questo senso, una crisi di liquidità che colpisce i mercati degli attivi delle banche fa venire meno la robustezza patrimoniale che assicura a una banca la copertura dal funding risk per il semplice fatto che le altre istituzioni finanziarie, di fronte a una situazione patrimoniale compromessa o quantomeno incerta, non sono più disponibili a concedere linee di fido. La recente crisi del credito ha dunque mostrato l’assoluta rilevanza del rischio di liquidità e l’opportunità di includere anche questa categoria di rischio nell’ambito dei rischi che assorbono capitale.

Una terza importante lezione riguarda il problema, già evidenziato sopra, relativo alla ripartizione di responsabilità e oneri connessi alla valutazione dei rischi. Qui gli aspetti importanti sono due. Il primo, più rilevante a livello di singola banca, si riferisce alle politiche di investimento in titoli strutturati derivanti da operazioni di titolarizzazione: il fatto che attività creditizie illiquide vengano trasformate in titoli negoziabili caratterizzati da un mercato secondario apparentemente liquido non deve far dimenticare, quali che siano le regole contabili cui vengono assoggettati questi attivi, che il rischio principale ad essi sottostante è il rischio di credito. Un’istituzione finanziaria che assume posizioni rilevanti in tali strumenti non può dunque esimersi da un’approfondita valutazione del merito di credito dei debitori o portafogli che sottostanno a questi titoli. Il secondo aspetto, più rilevante a livello di sistema e dunque di organi di vigilanza, riguarda il generale processo di cessione dei crediti originati dalle banche. Si tratta, come già evidenziato sopra, di un processo sano e virtuoso, il quale rende possibile una migliore allocazione dei rischi all’interno del sistema economico e una migliore diversificazione dei portafogli delle istituzioni bancarie. È verosimile immaginare che tale processo, una volta superata la crisi attuale, riprenda con vigore. Esso tuttavia non deve far dimenticare che i soggetti che da sempre dispongono, all’interno di un sistema economico, delle competenze chiave per valutare e misurare il rischio di credito sono le banche – le quali peraltro conservano le relazioni di clientela con i soggetti finanziari – e non i fondi hedge, i fondi pensione o le compagnie assicurative. Il processo non dovrebbe dunque assumere connotati tali per cui le banche finiscono per svolgere esclusivamente un ruolo di origination, senza conservare nemmeno in minima parte il rischio di credito dei prestiti generati nel proprio bilancio. In una situazione simile, viene infatti a mancare l’incentivo per una banca a svolgere un rigoroso processo di analisi del rischio di credito e si possono generare conseguenze negative per lo stesso processo di allocazione del credito all’economia.

Un ulteriore aspetto evidenziato dalla crisi finanziaria recente che assume particolare rilevanza per la stabilità del sistema e dunque per gli organi di vigilanza riguarda il rischio di concentrazione. Come noto, il nuovo Accordo sul Capitale disegnato dal Comitato di Basilea (Basilea 2) ha volutamente trascurato questa componente di rischio, attribuendo il medesimo requisito patrimoniale a una data esposizione creditizia indipendentemente dal grado di concentrazione che caratterizza il portafoglio della banca che lo ha originato. La crisi recente ha chiaramente evidenziato, specie con riferimento al rischio di controparte legato agli strumenti derivati negoziati in mercati Over the Counter (OTC), come il rischio di concentrazione assuma in realtà una particolare rilevanza nelle istituzioni finanziarie. Il principale motivo per cui istituzioni quali Bear Stearns e Northern Rock non potevano essere lasciate fallire riguarda l’elevata concentrazione delle esposizioni nei confronti di un numero limitato di altre istituzioni finanziarie attive nello stesso mercato. In pratica, dal “too big to fail” si è passati al “too entangled to fail”. Si tratta di un problema particolarmente rilevante che assume chiaramente connotati sovranazionali e che è attualmente oggetto di attenzione dei regulator dei principali paesi sviluppati. Occorre tuttavia che a soluzioni tecniche, quali quelle che vedono lo sviluppo di sistemi di compensazione multilaterale volti a ridurre il rischio di controparte nel mercato dei derivati OTC, si affianchino provvedimenti che attribuiscano un maggiore vincolo di patrimonializzazione a quelle istituzioni finanziarie che presentano portafogli di esposizioni creditizie fortemente concentrati nei confronti di poche controparti.

Infine, la crisi recente ha posto in evidenza anche un problema relativamente trascurato dalle banche e dagli organi di vigilanza: il rischio reputazionale. Mi riferisco al fatto che, accanto alle obbligazioni contrattuali, esistono obblighi reputazionali che le banche non possono eludere pena il restare senza finanziatori. Il riferimento è alle cosiddette “linee di liquidità” fornite “volontariamente” ai veicoli a cui le banche avevano ceduto crediti, o al capitale ibrido, computabile a fini di requisiti patrimoniali e apparentemente utilizzabile per coprire perdite senza bisogno che la banca venga messa in liquidazione. In realtà, l’evidenza ha mostrato come, di fronte alle numerose situazioni di crisi di grandi gruppi finanziari internazionali nessuno di questi abbia effettivamente utilizzato in questo modo il capitale ibrido, il quale è stato trattato come un qualunque tipo di debito subordinato, forse per non irritare quegli investitori ai quali era stato promesso, seppure non in forma scritta, che quello strumento computabile come capitale per le autorità di vigilanza sarebbe in realtà stato trattato come debito.