E&M

2008/5

Voglio essere nominato vicecapitano. La richiesta di Cassano a Cesare Prandelli, allenatore della Roma, è categorica. A che cosa serve, visto che abbiamo Totti come capitano? Fare il capitano quando lui non c’è. Totti abbozza e la nomina è accordata. Dopo le prime giornate di ritiro arriva ferragosto. Prandelli annuncia: domani mattina, l’ultimo allenamento prima della pausa estiva lo svolgiamo alle nove invece che alle undici. Cassano non ci sta. Sino alle nove e mezzo io dormo. Cesare gli parla a tu per tu. Se spostiamo l’allenamento alle nove, primo facciamo meno fatica e, secondo, chi deve partire ha due ore in più di vacanza. Passo due ore in più con mia moglie. Il giorno dopo Cassano era sul campo alle otto e trenta. Non esistono giocatori difficili, ma allenatori modesti.

Cesare non ritornerà. Butta a mare un contratto triennale faraonico con una grande squadra perché la moglie Manu, alle prese con un tumore, si era aggravata. Tutti si sorpresero di un gesto così naturale, a riprova di una normalità sconosciuta al grande calcio. Nessuno aveva capito che la sua donna, per lui, era il senso della vita dal giorno in cui la vide per la prima volta. Cesare aveva diciotto anni, Manuela quindici. Lui entrò in un bar per prendere una cioccolata, dopo una partita, e i loro occhi si incrociarono per la prima volta. Il giorno dopo andava a prenderla a scuola. Manu, l’unica donna della sua vita, mai tradita, gli ha dato due figli. Se ne è andata l’anno scorso a quarantacinque anni. L’ha amata senza riserve, senza paure. È convinto che una persona davvero amata continui a vivere dentro di noi fino a quando moriremo a nostra volta. Cesare, ci deve essere un bar anche in paradiso, dove rivivere la magia della prima volta.

Suo padre è morto quando Cesare aveva sedici anni. Da lui ha imparato il rispetto per chi lavora. È un modo sicuro per aprire porte inattese anche dal punto di vista professionale. Il rispetto degli altri insegna ad accettare anche le sconfitte. Ma legittima qualsiasi speranza. Esiste sempre una possibilità per rifarsi.

Dopo qualche scudetto alla Juve e una Coppa Campioni, Cesare allena la Fiorentina, ma si è fatto le ossa al Parma. All’epoca aveva come centravanti Adriano, oggi croce e delizia dell’Inter. Il ragazzo era a volte tentato di trascorrere il giorno di riposo settimanale in una città toscana, dove lo aspettava un gruppo di giovani della sua terra. Rientrava a Parma il martedì, distrutto. Prandelli lo prendeva da parte e gli diceva: oggi tu non ti alleni. Dormi per ventiquattro ore. Ti aspetto, rifatto, mercoledì, all’allenamento. Nessun giornale cavalcò la notizia. Il grande allenatore non è quello che vince. È quello che, nella discrezione, riesce a tirar fuori il meglio dai giocatori più difficili da gestire.

Un giorno ero a pranzo con Lorenzo Minotti, un grande giocatore di calcio e direttore sportivo del Parma ai tempi di Prandelli. Prendiamo una pizza ma per lui, stranamente, niente vino, niente dolci, niente sigaretta. È quaresima, mi spiega. Me lo ha insegnato Prandelli. Tutti i suoi giocatori sono invitati a compiere, se lo vogliono, per quaranta giorni di fila, un piccolo sacrificio quotidiano. Serve a ogni persona per scoprire le proprie energie sconosciute. Ci deve essere un motivo perché tutti lo apprezzano. La gente si accorge subito che non è come gli altri. La sua anima è trasparente. Chiesero a Totti chi era stato l’allenatore che lo aveva marcato di più. Rispose: Cesare Prandelli. Lo aveva avuto solo per un mese.