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Paolo Grassi: un manager culturale ante litteram
Nel 2020, il manager culturale è un mestiere che va di moda; del resto, l’attività culturale in genere è apprezzata per il suo aspetto modaiolo più che per il suo aspetto diffusivo. Paolo Grassi è stato un manager culturale ante litteram. Iniziò la sua attività intorno alla metà del Novecento, in un periodo in cui il binomio cultura-economia ancora non esisteva. Ha scardinato le strutture dell’organizzazione teatrale del suo tempo, figlie anche della chiusura legata al fascismo, e ne ha costituite delle nuove, volte alla crescita non solo artistica ma anche economica. L’idea che si fa forte durante la sua direzione è quella di un’arte intersecata alla società, per la quale sente un grande senso di responsabilità. Il suo modo di essere manager culturale insegna la necessità di condurre il teatro come se fosse una azienda: è imprescindibile che la macchina sia funzionante e sostenibile. Al tempo stesso, perché un teatro sia un’azienda efficace ed efficiente, chi la gestisce dovrebbe, prima del lavoro inteso in senso stretto, conoscere il mondo del teatro, con tutte le sue problematiche, le sue dinamiche umane, le sue fatiche.
Nel campo teatrale, il manager ha un compito molto più ampio, che non riguarda solo possedere le competenze tecniche e applicarle per la gestione aziendale, ma che necessita di un coinvolgimento personale, frutto dell’inserimento graduale fra le tavole del palcoscenico. Senza questa spinta etica e questa conoscenza profonda del lavoro culturale, il lavoro del manager è pura amministrazione, che rischia di essere dannosa e sterile. Senza una profonda cura alla continuità aziendale, la spinta etica e culturale non riesce a produrre i suoi risultati. Dunque, un manager culturale deve essere un grande conoscitore dell’intero meccanismo dell’azienda teatro che conserva la passione per quest’ultimo, vera essenza del motore che lo spinge.
In un’ottica di contestualizzazione contemporanea, è facile definire Paolo Grassi come un «aziendalista». La sua azione è tutta proiettata a garantire continuità all’attività artistica, a tutelare il lavoro culturale, ma al tempo stesso a costruire il decoro e l’immagine del teatro presso il pubblico: la puntualità, la pulizia, l’attenzione maniacale ai processi. Intuisce l’importanza dell’unitarietà dell’azienda. Grazie a lui, lo spazio di via Rovello diviene il Piccolo Teatro, un marchio destinato a durare ben oltre la vita delle persone che lo hanno fatto nascere.
La volontà di far crescere un pubblico di estrazione democratica e popolare ha mosso ogni sua scelta: per la prima volta il teatro cerca i suoi stakeholder, non si accontenta di chi ne varca la soglia, ma va a individuare le sue nuove risorse, sia in termini umani sia economici. Questo sembra evidente, oggi, in un’epoca in cui si parla in modo ossessivo di audience development e di audience engagement. Lui lo fa per tutta la sua vita professionale.
Questo modo di intendere il teatro e questo comportamento proattivo non erano propri della cultura istituzionalizzata del tempo, meno che mai del teatro, che era lo specchio della società. Erano invece oggetto di riflessione a livello internazionale. Paolo Grassi non faceva parte delle correnti europee, ma decise di inserirsi in un circuito internazionale: il teatro non è solo via Rovello, ma tutti i luoghi del mondo che lui voleva raggiungere. Anche questa idea oggi appare scontata, sia nella sua dimensione di raggio geografico d’azione, sia di importanza della comunicazione. Appare oggi evidente che la comunicazione sia parte integrante di qualsiasi progetto aziendale, e forse fa sorridere come – per attirare persone in teatro – Paolo Grassi organizzasse di fatto dei flash mob fra i capannelli di persone davanti alle vetrine dei negozi. Rispetto al suo tempo, si trattava di innovazioni radicali. Il personale, artistico e no, oggi viaggia e si confronta con altre realtà e culture quasi quotidianamente, grazie ai mezzi di comunicazione; settantadue anni fa Paolo Grassi organizzava le prime tournée in Europa del teatro italiano.
Ricordiamo Paolo Grassi come un innovatore innamorato del teatro, che ha saputo unire gli aspetti istituzionali e artistici con la società, mantenendo nelle diverse aziende dello spettacolo in cui ha lavorato (il Piccolo Teatro, la Scala, la Rai) una costante attenzione al lavoro gestionale, masticandolo e rigenerandolo in una nuova forma di cultura democratica, istituzionale, inclusiva, economicamente sostenibile.
«Attraverso il teatro io penso tutto il resto», amava dire. Questo non indica solo lo spazio fisico, che pure lui identificava in via Rovello, ma anche il filtro che si può usare per leggere il mondo civile, sociale e politico: il teatro è il fil rouge che attraversa tutta la realtà e che, se seguito, ci svela la sua più profonda essenza.
Oggi esistono molte istituzioni che si prefiggono l’obiettivo di formare giovani manager culturali; la prima è la Civica Scuola di Teatro Paolo Grassi, nata nel 1951, proprio per volontà di Paolo Grassi, che comprendeva bene la necessità della formazione e l’importanza di circondarsi di persone competenti a cui lasciare la sua eredità. Anche la Fondazione Paolo Grassi lavora in questa direzione: la voce della cultura è consegnare ai giovani il teatro e gli strumenti per poterlo vivere, leggere e comprendere nella sua forma più ludica; affinché possano identificare il fil rouge della loro vita e poterlo perseguire.
Francesca Grassi ha promosso e partecipato, in qualità di membro fondatore, alla costituzione della Fondazione Paolo Grassi – La Voce della Cultura. I qualità di Presidente del comitato esecutivo si è occupata di tutti i più importanti progetti realizzati dalla Fondazione.