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29/04/2020 Zenia Simonella

Per favore, non chiamiamolo «smart working»

In queste settimane stiamo sperimentando uno smart working «estremo»: siamo isolati, perennemente connessi e costretti a una modalità di lavoro stressante. Questa situazione ha fatto emergere, amplificandoli, i possibili rischi sottesi all’adozione di questa pratica; e ci ha fatto comprendere l’importanza di recuperare i nostri spazi di libertà, prima di tutto come individui.

Lo abbiamo già capito. Quello che stiamo sperimentando non è lavoro agile (o smart working), così com’era stato promosso dai suoi sostenitori e poi disegnato dal legislatore nella legge del 2017[1]. Stiamo adottando una modalità di lavoro «estrema» (cioè non volontaria, da casa, senza alcuna flessibilità spazio-temporale) che ha fatto emergere, amplificandoli, i possibili rischi sottesi alla sua adozione.

Primo: l’isolamento che – è bene ricordarlo – non è vissuto da tutti allo stesso modo, poiché ci sono categorie che soffrono più di altre («L’isolamento [è] una dimensione che impatta molto diversamente sulle persone: penso a miei colleghi con disabilità che in questo momento soffrono in modo particolare la situazione di clausura forzata»[2]).

Secondo: il cosiddetto work-holism, ossia il lavoro che fagocita in maniera totalizzante la vita privata («Vita e lavoro sono in conflitto? La vita deve sempre fare un passo indietro? Lo smart working da coronavirus ci sta mettendo alla prova») che rischia di comprimere gli spazi di libertà dell’individuo («Le persone lavorano molto di più; pochissimo tempo perso, le pause pranzo sono molto brevi e spesso purtroppo si mangia al PC, non si perde tempo negli spostamenti»).

Terzo: l’uso della tecnologia («Questo modo di operare obbliga a rimanere continuativamente davanti a uno schermo e con delle cuffie nelle orecchie») che costringe a essere ininterrottamente connessi («A proposito di diritti, mi pare che il vero rischio del lavoro agile sia – paradossalmente – quello di non staccare mai»).

L’isolamento che stiamo vivendo ci ricorda il nostro essere sociali, la necessità di aggregarci agli altri: peraltro, l’interazione in spazi comuni favorisce la generazione di processi di creatività individuale e d’innovazione sociale. Non si tratta solo di lavorare in gruppo beneficiando della presenza di ognuno; ma anche di scambiare idee in maniera casuale e spontanea nei corridoi o alla macchinetta del caffè. La de-materializzazione del luogo di lavoro, che il lavoro agile comporta, può abbassare quella percezione di sicurezza psicologica che favorisce l’espressione del sé. In questo periodo di confinamento forzato l’istituzionalizzazione di alcuni riti quotidiani, come il buongiorno tra colleghi via messaggio e i virtual coffee break, sono stati utili e rassicuranti, ma solo blandi surrogati degli incontri di persona.

L’esperienza di work-holism ci ricorda della necessità di recuperare i nostri spazi di libertà prima di tutto come individui: se, con l’uso del lavoro agile, si registra un risparmio sia per l’azienda sia per l’ambiente grazie al mancato spostamento delle persone (il tragitto casa-lavoro e ritorno), e questo è certamente positivo, quel tempo risparmiato, però, è un tempo che va recuperato prima di tutto per sé.

Infine, il lavoro continuo attraverso l’uso delle tecnologie ha aumentato la fatica psicofisica (che si è aggiunta all’ansia legata alla situazione che stiamo vivendo). Uno studio di Eurofound e dell’Organizzazione mondiale del lavoro[3] aveva già messo in guardia dalle conseguenze a livello di salute mentale per gli high mobile worker and home-based teleworker: maggiori livelli di stress, burn-out, problemi di sonno, alta percezione di impatti negativi del lavoro sulla propria salute sono quelle più gravi. Gli autori dello studio avevano suggerito infatti di trovare sempre un’integrazione equilibrata tra la modalità di lavoro tradizionale in ufficio e il lavoro agile. 

 



[1] Legge 81/2017. È possibile consultare il testo integrale al sito https://www.normattiva.it/uri-res/N2Ls?urn:nir:stato:legge:2017-05-22;81!vig=.

[2] Tutte le dichiarazioni tra virgolette riportate nell’articolo sono alcuni dei commenti rilasciati dalle persone che hanno partecipato all’evento MINE di SDA Bocconi School of Management dello scorso 1° aprile dedicato al lavoro agile. È possibile rivedere l’evento collegandosi al seguente link: https://padlet-uploads.storage.googleapis.com/486341210/4593e9bea736cb9cf66855145c1626bf/interviste_smart_working.mp4.

[3] Working anytime, anywhere: The effects on the world of work, Eurofound e ILO, 2017.

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