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2001/1
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Un Robinson globalizzato e postindustriale
Scarica articolo in PDFCast Away
Regia: Robert Zemeckis
Interpreti: Tom Hanks, Helen Hunt
USA, 2001
Chuck Noland è un ingegnere della FederaI Express, la multinazionale che spedisce e consegna – a tempi da record – pacchi, plichi e buste in ogni angolo del mondo. Un giorno, mentre sta volando sull’oceano per raggiungere una sede periferica dell’azienda, il suo aereo precipita in mare. Chuck sopravvive fortunosamente e si ritrova naufrago su un piccolo atollo disabitato, lontano dalle rotte di navigazione che solcano il Pacifico. Solo e privo di qualunque oggetto che lo aiuti nelle necessità quotidiane, Chuck deve risolvere prima il problema del cibo, dell’acqua e del fuoco, poi deve far fronte alla solitudine e alla disperazione che lo assalgono. Resiste per ben quattro anni, aiutandosi con un pallone da volley trasformato in “amico immaginario” con cui dialogare. E quando riesce a fuggire dall’isola e a tornare nel mondo civile, scopre che il reinserimento è molto più arduo e difficoltoso di quanto non sia stata la sopravvivenza sull’isola deserta.
Interpretato da uno straordinario Tom Hanks, Cast Away di Robert Zemeckis è stato letto dalla maggior parte della critica come una riproposizione contemporanea del mito di Robinson Crusoe. In realtà, rispetto all’eroe inventato nel 1719 dallo scrittore inglese Daniel Defoe, il protagonista del film presenta non poche varianti che riguardano – non a caso – proprio il suo rapporto con il tempo, con gli oggetti e con le cose. Se Robinson era il prototipo del capitalista, Chuck Noland è invece un’altra cosa. E ci dice forse alcune cose su ciò che il capitalismo sta diventando. Come risulta da questo dialogo fra Gianni Canova, docente di Storia del cinema all’Università IULM di Milano, e Ezio Alberione, critico e saggista.
G.C. Ciò che mi ha sempre colpito nel mito di Robinson è la sua capacità di sintetizzare alcuni caratteri di fondo del capitalismo nella sua fase aurorale. Il naufrago di Defoe era uno che teneva perfino i libri contabili degli oggetti salvati al naufragio, e che si dava da fare per costruire attrezzi che gli consentissero di riorganizzare il suo mondo “selvaggio” secondo i principi dell’etica borghese: l’intraprendenza , l’efficienza, la funzionalità, la coerenza tra i mezzi e i fini, l’ottimizzazione delle risorse disponibili. Il protagonista di Cast Away, invece, non fa nulla di tutto ciò. Non costruisce nulla e non riorganizza niente, si limita a usare in modo rifunzionalizzato i pochi oggetti salvati al naufragio: così, per esempio, la lama di un paio di pattini da ghiaccio diventa di volta in volta coltello, specchio o leva cavadenti, mentre la veletta di un abito da sera per signora si rivela un’ottima rete per la pesca. Non solo: un pallone da volley diventa nelle sue mani un feticcio-pupazzo (quasi un “amico immaginario”) che gli consente di esorcizzare il senso lancinante di solitudine e di convogliare in una direzione precisa le proprie pulsioni affettive.
E.A. Eppure anche lui all’inizio del film prima del naufragio, è un manager efficientissimo. uno spedizioniere impeccabile, Per usare una formula di Umberto Galimberti, potremmo dire che è un “funzionario della tecnica”: uno che crede nella possibilità di piegare il mondo e il tempo agli obiettivi e agli impegni produttivi prefissati. Ciononostante, già nel suo nome è iscritto un destino diverso: Noland, ovvero No/land. Chuck non ha terra, non ha luogo, è quasi un predestinato all’esilio…
G.C. Forse, in questo suo essere “no land” c’è anche un indizio o una traccia del fatto che egli è un manager del mondo globalizzato. Uno che si batte da vincente contro i confini spazio-temporali del business, ma che poi si ritrova a non poter uscire dai confini angusti di una piccola isola sperduta nel Pacifico. Come metafora del rapporto globale/locale non è niente male ...
E.A. Non solo. All’inizio Chuck ha con le cose un rapporto strumentale. Vive in funzione delle cose. E le cose, gli oggetti, lo interessano solo nella misura in cui assolvono una funzione. Il suo esilio sull’isola lo induce a ribaltare questo rapporto. Non le usa più, le cose. Piuttosto le rianima. Ritrova il loro valore affettivo ...
G.C. Questo mi sembra il punto chiave, anche da un punto di vista metaforico. Mi sembra cioè che il film di Zemeckis ci dica con molta chiarezza che non è di “cose” inerti che abbiamo bisogno oggi, ma di simulacri intrisi di valenze affettive. Cioè di artefatti che conservino l’impronta di chi li ha creati e che aiutino chi li usa a illudersi, in ogni istante, di sapere chi è. Detto in altri termini: un tempo – diciamo, più o meno, nella fase industriale del capitalismo gli oggetti avevano soprattutto un valore strumentale. Erano utensili o arnesi. Servivano immediatamente a qualcosa: a facilitare un gesto, a compiere un lavoro, a garantire un comfort. Oggi invece, sempre più spesso, gli oggetti valgono non per quel lo che consentono di fare, ma per l’identità che promettono di poter acquisire a chi li usa, o per l’affettività che sono ili grado di convogliare su di sé. Più che attrezzi “operativi”, sono dispensatori di senso e distributori di emozioni.
E.A. Non sono del tutto d’accordo. È vero che Chuck Noland riscopre il valore affettivo delle cose, ma è una riscoperta che vale solo per lui, non per gli altri personaggi del film, i quali continuano a vivere e a lavorare come se non fosse successo nulla. Non solo: anche gli oggetti che entrano nel racconto con una funzione “affettiva” e non strumentale (penso all’ anello donato alla fidanzata, o all’orologio che lui riceve da lei) fanno, per così dire, naufragio: l’anello non gli garantisce la fedeltà della sua donna, l’orologio non gli consente di rendere più tollerabile il tempo vuoto trascorso sull’isola. In realtà, lui stesso diventa un’isola. Con un facile gioco di parole potremmo dire che da manager FedEx diventa semplicemente un “ex”. Uno che, consegnato l’ultimo pacco, non ha più niente da fare...
G.C. Non è male questo gioco sui nomi. E non è solo la vecchia storia del nomen omen, del nome che annuncia e prefigura un destino. Qui mi sembra piuttosto che il film di Zemeckis sottolinei con forza come Chuck sia un uomo-marchio: uno che si identifica totalmente prima con l’azienda per cui lavora (e che gli dà tutta l’identità di cui ha bisogno), poi con l’azienda-isola che è diventato per poter sopravvivere. Se vogliamo leggervi un’ulteriore metafora, con ogni evidenza Cast Away ci dice che siamo ormai nell’era in cui ogni uomo è imprenditore di se stesso. Ognuno è ciò che riesce a fare di sé, a partire dalla limitatezza delle risorse individuali disponibili.
E.A. Potremmo dire che se Robinson era un modello del capitalista alle prese con il compito di dare un’organizzazione al mondo. Noland è l’imprenditore postindustriale che deve saper fare di sé un mondo. E deve farlo a partire dalla riattivazione sensoriale della propria Corporeità. Sull’isola Chuck fa soprattutto questo: non costruisce arnesi. ma riscopre e riattiva i propri sensi. Reimpara a vedere, ad ascoltare, a toccare, a gustare. Ricordando a tutti una dimensione della nostra operatività (e del nostro modo di relazionarci con il mondo) che l’economia non può più permettersi di sottovalutare.