E&M

1999/4

Gianni Canova

Il segno e il dosso: come comunicare le cose che non si vedono

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La balia

Regia: Marco Bellocchio

Interpreti: Fabrizio Bentivoglio, Valeria Bruni Tedeschi, Maya Sansa

Italia, 1999

Per capire come stanno cambiando i modi di comunicare conviene osservare, una volta tanto, la segnaletica stradale. Fino a non molto tempo fa, quando un automobilista si trovava a passare alla guida della sua auto nei pressi di una scuola era invitato a rallentare dalla presenza di un cartello triangolare bordato di rosso che riproduceva l’icona di una scolaretta con la cartella in mano. Oggi sempre più spesso simili cartelli sono sostituiti un po’ ovunque da quei dossi artificiali che in alcune lingue del mondo vengono definiti, con una significativa metafora, poliziotti dormienti. Il messaggio è identico (Rallenta!), ma cambia in profondità il modo in cui il messaggio stesso viene veicolato: il cartello triangolare era un segno che chiedeva all’ automobilista l’adesione a un codice collettivo (etico e civile oltre che stradale), il dosso è un ostacolo che si limita a sollecitare una valutazione di opportunità. Di fronte al cartello si rallentava se e nella misura in cui ci si riconosceva in una comunità preoccupata di tutelare la sicurezza dei propri membri (dei bambini in particolare), di fronte al dosso si rallenta per non mettere a rischio le sospensioni della propria autovettura. Dalla decodifica interpretativa di un messaggio a forte valenza etica espresso con un segnale che si manteneva comunque a una certa distanza dall’automobilista si è passati a un segno molto più ingombrante, che entra in contatto fisico con il destinatario e gli impone di adottare un comportamento basato su un semplice criterio di convenienza.

A prima vista, una simile trasformazione del modo di comunicare potrebbe sembrare in controtendenza rispetto alla fisionomia complessiva di una società e di una cultura che sembrano sempre più proiettate verso l’immateriale. In realtà, proprio la proliferazione dei dossi sulle strade suggerisce il riemergere di dimensioni comunicative che trovano nel coinvolgimento del corpo e nella fisicità esperienziale la loro nuova frontiera. Una conferma, sia pure indiretta e inevitabilmente “segnica”, ci arriva ancora una volta dal cinema. Che ci dice con tutta l’evidenza di cui è capace come comunicare significhi toccarsi, e sapersi mettere fisicamente nei panni e nel corpo di colui a cui ci si vuole indirizzare. Si prenda ad esempio un film come La balia di Marco Bellocchio: tratto dall’omonima novella di Pirandello e ambientato in una Roma dei primi anni del secolo ritratta dal regista con esattezza di toni e ricchezza di sfumature, racconta di una madre borghese, moglie di un medico psichiatra, costretta ad affidare il suo neonato ad una balia.

Un giorno la ragazza, semplice e sensibile ma analfabeta, riceve una lettera dal marito lontano e chiede al professore di leggergliela. Lui lo fa e lei si commuove. Tanto che chiede al medico di insegnarle a leggere e a scrivere per poter rispondere a quella lettera. Il professore accetta: prende penna e calamaio e dà lezioni di scrittura alla giovane. Ma si accorge ben presto che le sue parole non sono sufficienti: così si mette alle spalle della ragazza. le insegna la postura esatta del corpo. qUll1di le afferra la mano e la guida nell’iniziazione alla scrittura. Una mano nell’ altra, come in una danza: una vicinanza fisica, un flusso corporeo. I due corpi si toccano: ed è proprio quel contatto che comunica – molto più di qualsiasi teoria – la tecnica della scrittura. In questo modo la ragazza impara a scrivere: ma si accorge subiti, che non le basta. Sente che non è solo una questione tecnica: la comunicazione dev’essere anche affettiva. “Come si comunicano le cose che non si vedono?”, chiede perplessa al professore. E lui non sa rispondere. Sente che la teoria e la pratica non gli servono più di tanto, ma non sa come aiutarla ad andare in profondità. Cioè a dar voce a quei sentimenti e a quei pensieri che non sono immediatamente palpabili e evidenti. (ci riuscirà solo alla fine, quando ormai la giovane se n’è andata: allora saprà scrivere per lei la lettera al marito lontano mettendosi nei suoi panni, e cercando di sentire come lei sentiva.

La problematica comunicazionale messa in scena da Bellocchio presenta evidenti analogie con specifiche questioni che si presentano spesso nelle strategie e nelle dinamiche della comunicazione aziendale: dove tecnica e mestiere abbondano, ma non sempre bastano – anche qui – ad esprimere le cose che non si vedono. O a dar voce a desideri, sogni e immaginazioni che non sono quasi mai specifiche e peculiari di chi è chiamato tecnicamente a costruire la comunicazione, o a insegnare le modalità del comunicare. L’episodio del film di Bellocchio ci ricorda che saper insegnare e comunicare significa prima di tutto mettersi nella disposizione di imparare da colui (o da coloro) a cui si insegna. Provare a pensare e a sentire come lui (o come loro). Ricercare la contiguità fisica ed esperienziale, ma anche (e soprattutto) l’affinità affettiva e sentimentale. La mano con cui il professor Mori guida la balia nel rito iniziatico dello scrivere è simile al dosso di cui si parlava in precedenza: è qualcosa che fa sentire la sua presenza, e che dà indicazioni non solo semiotiche ma anche fisiche, prossemiche, corporee, spaziali: e lo fa coinvolgendo direttamente l’interesse del destinatario. Che è chiamato in questo modo non ad aderire astrattamente a un codice, ma a farlo proprio perché conviene anche a lui. La comunicazione aziendale ha quasi sempre lavorato in questa direzione, nella consapevolezza della necessità di coinvolgere e sollecitare il proprio target prospettandogli ogni volta un valore aggiunto molto concreto. Meno lucida ed efficace, a volte, si è mostrata invece di fronte alla seconda esigenza prospettata dalla balia di Bellocchio: quella di saper trasmettere anche “le cose che non si vedono”. Per saperlo fare. è necessario non solo uno scatto di fantasia, ma anche l’esercizio dell’immaginazione simulativa: simulare di essere come, far propria una certa tonalità del sentire, sperimentarla su di sé, lasciarla agire e vedere cosa produce. Non dimenticando poi di approntare le necessarie verifiche: nel film di Bellocchio, non a caso, quando il professor Mori riesce finalmente a scrivere la lettera che la balia gli aveva richiesto, la fa leggere a una donna ricoverata nel suo ospedale e studia le sue reazioni. Solo quando si accorge che lei sente anche quel che la lettera non può far vedere, il professore si rende conto di esser riuscito nell’impresa.