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1999/4
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Archivio della rivistaLo sviluppo mancato: un problema del governo o delle imprese?
Scarica articolo in PDFPremessa
È dall’inizio degli anni Novanta che l’Italia non riesce più a tenere il passo degli altri paesi europei quali, a loro volta, se si esclude l’Irlanda, perdono continuamente terreno rispetto agli Stati Uniti d’America. Dal 1992 al 1998 la crescita media annua del nostro prodotto interno lordo è stata dell’1,2%, contro l’1,6% della Germania e l’1,8% della Francia, ma quasi il3% della Gran Bretagna ed oltre il 3% degli Stati Uniti. Peggio di noi ha fatto solo il Giappone fra i grandi paesi industrializzati. Spagna e Portogallo, da molti italiani considerati le cenerentole d’Europa, hanno avuto tassi di crescita quasi doppi rispetto al nostro.
Questo mancato sviluppo, oltre ad essere la causa di una disoccupazione persistente, che in alcune aree del paese ha raggiunto valori allarmanti ed è diventata endemica, indebolisce le imprese e rischia di innescare una spirale di attese al ribasso.
Fino ad un anno fa la maggior parte degli osservatori erano convinti che il basso tasso di sviluppo fosse la inevitabile conseguenza della politica restrittiva dovuta alla necessità di ridurre disavanzo, inflazione e debito pubblico.
Il rallentamento era visto ed interpretato come l’effetto atteso della cura e la normale parte bassa del ciclo economico, destinata a tramutarsi in una fase espansiva non appena la politica monetaria avesse allentato la restrizione, riducendo i tassi ed allargando il credito.
Oggi si deve constatare che, nonostante sia mutato il clima macroeconomico, la ripresa non si vede. Sembra che la collettività e l’economia si siano assuefatte ai bassi tassi di crescita e nonostante vi sia ampia disponibilità di credito a buone condizioni non ripartono né la domanda di consumo né gli investimenti. Le imprese, di fronte ad una domanda interna frenata e ad una competizione estera sempre più aggressiva, per mantenere gli equilibri economici e quelli competitivi, si sentono costrette ad incidere sui costi, comprimendo fra l’altro anche il monte salari, che si traduce in reddito spendibile ancora inferiore per il maggiore carico contributivo e fiscale. Da qualsiasi parte si osservi la ruota dello sviluppo, essa rimane bloccata e ben poco sono riusciti a fare gli sforzi fin qui profusi dai responsabili della politica economica.
La questione ha cominciato a sollevare preoccupazioni e nervosismi. Qualcuno comincia ad interrogarsi se il ritardo nella ripresa sia dovuto ad un allungamento “anomalo” del ciclo economico – esattamente opposto a quello invece positivo sperimentato dagli Stati Uniti; oppure se esso sia il sintomo di un problema più profondo, una specie di malanno oscuro che ha colpito la nostra economia, magari proprio per la sua adesione alla moneta unica e per la sua sempre maggiore esposizione alla concorrenza internazionale.
I rappresentanti dell’imprenditoria avevano chiesto con insistenza la riduzione dei tassi di interesse, ritenendo che il loro elevato valore tosse il freno principale ai consumi ed agli investimenti. Ora si rendono conto che la riduzione dei tassi, anche se ha ridotto gli oneri finanziari nel conto economico delle imprese, per quanto riguarda la domanda interna non solo non ha portato gli stimoli attesi, ma forse l’ha perfino depressa, riducendo gli elevati flussi di reddito da capitale (nominali) ai quali molti risparmiatori si erano abituati. Nel frattempo gli industriali sentono la pressione crescente dei concorrenti esteri e non vedono grandi spazi di espansione sui mercati mondiali, anch’essi piuttosto depressi, se si escludono quelli statunitensi. Dopo avere sconfitto gli alti tassi di interesse, essi sono ora alla ricerca delle altre cause del mancato sviluppo e dei relativi responsabili. Cominciano a dubitare della validità dell’accordo di Natale con il Governo ed i sindacati, si lamentano della scarsa flessibilità del costo del lavoro e dell’elevata imposizione fiscale, ritenendole l’una e l’altra un impedimento alla competitività delle nostre imprese e l’ostacolo primo alla conquista di maggiori quote di mercato a favore della produzione in Italia. Accusano inoltre il Governo di immobilismo negli investimenti pubblici, ritenuti il volano aggiuntivo per rimettere in moto l’economia.
Il Governo risponde rovesciando le critiche ed accusando gli industriali di reagire alle pressioni competitive semplicemente portando all’estero le produzioni, riducendo così il monte salari e anche la domanda in Italia. Li accusa inoltre di non investire, nonostante i favorevoli tassi di interesse, e di avere scarsa propensione imprenditoriale, essendo poco disposti a compiere quelle azioni – ricerca e sviluppo, innovazione dei prodotti ed investimenti tecnologici – che sono necessarie per attivare la domanda, posto che essa non sembra mettersi in moto autonomamente. I sindacati, a loro volta, se la prendono con il Governo e gli imprenditori, accusando l’uno e gli altri di venire meno ai patti, di sottrarsi alle loro responsabilità, di tardare l’unica politica vera per rimettere in moto l’economia: quella degli investimenti. Contestano che il costo del lavoro possa essere la causa per la quale le imprese delocalizzano altrove la produzione e comunque negano che il costo del lavoro possa essere la leva da azionare, al ribasso, sia per trattenere in Italia certe produzioni, sia per conquistare quote maggiori di nostri prodotti sui mercati esteri. Sostengono che la soluzione non passa attraverso un “passo indietro” sul fronte del costo del lavoro, ma piuttosto un “passo avanti” sul fronte della produttività e dell’innovazione, evitando però di misurarsi su cosa comporti anche per i lavoratori questo tipo di politica. A riprova che il mancato sviluppo è un problema di politica economica interna, e non di competitività relativa rispetto ad altri paesi, i sindacati indicano il saldo positivo delle partite correnti, trascurando di rilevare che tale saldo nel giro di un anno si è quasi dimezzato, nonostante la debole domanda interna (dai 61.000 miliardi nel 1997 ai 39.000 nel 1998), segno invece tangibile di un cedimento della competitività.
Che il mancato sviluppo sia diventato il problema centrale è dimostrato, oltre che dall’accendersi delle dispute, dal fatto che il Governatore della Banca d’Italia ha centrato su di esso la sua relazione annuale con toni pacati che però non nascondono affatto le inquietudini: anche perché, pur elencando diverse possibili cause, non sembra egli stesso avere individuato il bandolo della matassa.
Com’è noto, il tema dello sviluppo – come esso si inneschi, o non si inneschi, acceleri, rallenti o si blocchi – è fra i più controversi della teoria economica. Lo sviluppo è come una ruota che per girare ha bisogno di una domanda che tiri e di investimenti che seguono. O di investimenti che si mettono in moto anche se la domanda ancora non c’è, perché chi investe pensa che essa ben presto si materializzerà, ingrossata dei nuovi salari. Talvolta un incremento dei salari accende il motore perché innesca un ciclo di spesa; altre volte lo spegne perché fa saltare gli equilibri economici delle imprese le quali reagiscono bloccando gli investimenti. Per i “keynesiani” il volano da manovrare per accelerare o decelerare lo sviluppo è la spesa pubblica. Per altri gli effetti di queste manovre sono più negativi che positivi, perché creano squilibri nella finanza pubblica, alterano il valore della moneta ed inviano segnali distorcenti a chi deve prendere le decisioni di spesa, di risparmio e di investimento.
Proprio perché la questione è così controversa è difficile trovare una spiegazione convincente e conclusiva al nostro mancato sviluppo, ed è ancora più difficile imputare le responsabilità: di fronte ad un fenomeno come questo, le responsabilità sono inevitabilmente diffuse. Per trovare una risposta efficace occorre riflettere sulla natura sistemica del problema e fare maturare in tutti i soggetti la volontà di adoperarsi, ciascuno nel proprio ruolo, per cambiare i comportamenti o anche solo le aspettative. Ma per ottenere questo stato di diversa e migliore consapevolezza le ragioni del mancato sviluppo vanno analizzate con maggiore attenzione.
La tesi qui sostenuta è che nel nuovo contesto, di forte apertura dei mercati nazionali e di moneta unica europea, lo sviluppo (o il non sviluppo) di un paese dipende molto di più dalla politica dell’offerta che non da quella della domanda. Se questa tesi è fondata, Governo, industriali e sindacati faranno meglio a preoccuparsi molto di più di rinforzare il nostro sistema produttivo, piuttosto che di invocare o di realizzare una stimolazione “artificiale” della domanda interna. In un sistema aperto la domanda di un paese è come la selvaggina: essa è oggetto di caccia per tutti i produttori, senza distinzione fra interni ed esterni, ed è preda di quelli fra di essi che sono meglio strutturati per catturarla.