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2005/2
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Management e santità
Cuore sacro di Ferzan Ozpetek mette in scena la paradossale vicenda di una manager di successo che rinuncia a tutto quello che ha per dedicarsi al volontariato e alla carità. Ma proprio la radicalità della rinuncia mette in rilievo – forse anche a dispetto delle intenzioni del regista – il ruolo e la necessità dell’organizzazione.
Cuore sacro
Regia Ferzan Ozpetek
Interpreti Barbora Bobulova, Lisa Gastoni, Andrea Di Stefano
Italia, 2005
È fredda, cinica, determinata. Compra vecchi palazzi patrizi fatiscenti, li ristruttura e ne fa miniappartamenti che vende a caro prezzo sul mercato immobiliare. Erede di una secolare tradizione di famiglia, Irene Ravelli (Barbora Bobulova) è il prototipo della manager in carriera: a capo di un’azienda ben posizionata sul mercato e circondata da collaboratori fidati, attua operazioni speculative di grande spregiudicatezza e si conquista il titolo di “imprenditrice dell’anno”. Ma sulla sua strada la attende un’inaspettata “conversione”: una ragazzina randagia e ribelle si intrufola nella sua vita e la fa entrare in contatto con il mondo dei barboni e degli emarginati. Irene ne è come folgorata. Molla l’azienda e sceglie di occuparsi con dedizione totale del mondo delle nuove povertà. In questo modo riesce anche, forse, a fare i conti con i nodi irrisolti del proprio passato. Cuore sacro, il nuovo film di Ferzan Ozpetek (Le fate ignoranti, La finestra di fronte) è stato accolto in maniera controversa dalla critica e ha indotto alcuni commentatori a parlare della protagonista come di una “manager santa”. Ma è proprio così? E che rapporti ci sono, oggi, fra management, da un lato, e carità o spiritualità dall’altro? Ne discutono Severino Salvemini e Gianni Canova.
S.S. La mia impressione di fondo è che tanto la vicenda narrata quanto la protagonista – la palazzinara in carriera che si spoglia di ogni orpello terreno – siano poco realistiche e poco credibili. Ancora una volta il cinema italiano mostra di essere a disagio quando si tratta di affrontare certi temi e certe figure professionali.
G.C. Secondo me non è solo questo. È che, questa volta più che altre, viene a galla il senso di colpa profondo che non solo il cinema ma, più in generale, la cultura italiana nutrono nei confronti di nozioni come successo, profitto e impresa. È come se il film di Ozpetek volesse raccontare, purificandolo, il “peccato originale” della protagonista, che conosciamo all’inizio del film proprio mentre sta ricevendo il premio come “imprenditrice dell’anno”.
S.S. Certo. Ma proprio mentre lei viene premiata vediamo anche, in montaggio alternato e parallelo, due coniugi che si gettano assieme dalla terrazza della loro casa romana perché rovinati finanziariamente proprio da una speculazione della manager di successo. È questo che mi suona falso, e molto ideologico: come se dietro il successo si nascondesse comunque una colpa atavica da esorcizzare e da espiare, come se ogni vittoria nascondesse speculazioni che implicano perfino il sacrificio di vite umane…
G.C. In questo, te ne do atto, il film è molto ingenuo e didascalico. Troppo…
S.S. Pensa, per esempio, alla contraddizione evidente nel modo in cui il regista rappresenta la protagonista prima della conversione, quando ancora fa la manager di un’impresa immobiliare e lo fa con grinta e con cinismo. Da un lato, il film ci mostra tutti i più scontati simboli di status (per esempio l’abitazione elegante e raffinata, con tanto di piscina in salotto), dall’altro cade in ingenuità incomprensibili, come quella di mostrarci la palazzinara che gira per Roma con i contratti immobiliari nella borsetta…
G.C. È vero. Non puoi negare, però, che la figura della zia interpretata da Lisa Gastoni, caparbia e determinata nel difendere gli interessi e la tradizione di famiglia, sia molto ben caratterizzata. Così come molto efficace mi pare anche la figura dell’altra zia, quella che vive in un ricovero di lusso e affoga nell’alcol la distanza etica che la separa dalla sua famiglia d’origine.
S.S. Non c’è dubbio. In questo il film coglie realisticamente un aspetto abbastanza tipico del capitalismo italiano a guida familiare. In tutte le grandi famiglie di imprenditori c’è sempre un fratello (o una sorella) con una vocazione più sociale, più solidale, più illuminata. Qualcuno li considera come pecore nere, qualcun altro vede in essi la coscienza critica dell’imprenditoria. Basti pensare a famiglie come i Moratti, i Pirelli, gli Olivetti, da tempo abituate a convivere con figure familiari di questo tipo…
G.C. Bene. Ipotizziamo dunque che il personaggio di Irene sia un po’ la pecora nera della famiglia: per il modo in cui si sottrae alle responsabilità aziendali, per la testardaggine con cui pretende di regalare tutti i suoi averi ai poveri, per il disprezzo con cui considera la zia e il suo attaccamento alla logica aziendale. L’ultima volta che la vediamo intervenire a una convention, Irene fa un discorso fortemente critico nei confronti della globalizzazione, accusandola di generare soprattutto la standardizzazione dei desideri…
S.S. Certo. Si chiede, per esempio, con tono volutamente empatico: “perché dovrei battermi affinché una donna del Kazakistan desideri la stessa borsetta che desidero io?”.
G.C. Questo discorso sul desiderio è molto interessante. A me ricorda, per esempio, un passaggio molto bello di Rocco e i suoi fratelli di Luchino Visconti, quando Rocco – interpretato da Alain Delon – svela a Nadia (Annie Girardot) che la sua difficoltà a integrarsi nella nuova realtà urbana milanese deriva dall’incapacità di desiderare “quel che desiderano tutti”. In quel contesto – l’inizio degli anni sessanta – e detto da quel personaggio – un meridionale immigrato a Milano – il discorso ha un impatto molto forte e coglie alcuni dei nodi irrisolti nel processo di modernizzazione italiana. In Cuore sacro, invece, la denuncia dell’economia globale come livellatrice del desiderio (o come generatrice di desideri superflui) suona come tutta ideologica, soprattutto perché pronunciata da un personaggio che viene da un regime di desiderio talmente pieno e appagato che per preservarsi in quanto tale non può che vagheggiare la rinuncia e la spoliazione. Anche la scelta di fare la pasionaria della carità, insomma, risponde a una logica del desiderio non ancora definitivamente appiattita e omologata.
S.S. Vuoi dire che anche il personaggio di Irene, in fondo, persegue di fatto una logica utilitaristica? Anche dopo la rinuncia?
G.C. In un certo senso sì. Nella logistica dei suoi desideri, la scelta di lasciare l’azienda e di dedicarsi ai poveri è quella che oggettivamente la appaga di più, quella che la rende padrona non solo del suo destino ma anche – per certi versi – del destino degli altri. In questo senso è emblematico il suo rapporto con l’organizzazione: Irene la ripudia, ma poi ne riproduce il modello nella sua attività di volontariato. Dove deve provvedere – se non altro – a distribuire ruoli e incarichi, a organizzare il lavoro di squadra, a motivare i collaboratori.
S.S. In questa chiave ha un ruolo fondamentale la figura del prete, che richiama Irene – appunto – alla necessità dell’organizzazione, offrendo il sussidio di un “management” collaudato e radicato come quello della Chiesa.
G.C. Ma Irene, nel suo delirio di onnipotenza, rifiuta anche questa ipotesi. Preferisce guidare un’organizzazione di cui è ideatrice e ispiratrice, e lo vuol fare in piena autonomia. In questo senso il film di Ozpetek sembra mordersi la coda e tornare al punto di partenza: certi meccanismi non sono più eliminabili; anche nel no-profit o nel volontariato sono necessari principi organizzativi per molti versi analoghi a quelli delle grandi aziende private.
S.S. Stai dicendo, insomma, che Irene riesce a farsi santa, paradossalmente, proprio perché prima era una manager, e perché sa gestire il marketing della carità? Non so se Ozpetek sarebbe d’accordo…
G.C. Credo che non lo sarebbe. Ma poco importa. A volte i film contano non tanto per quello che l’autore vuol dire quanto per quello che dicono di fatto, quale che sia l’opinione dell’autore.