E&M

2013/2

Gianmario Verona

L’innovazione di mercato quale leva per la crescita

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Stimolare la crescita in questi anni di crisi non è compito semplice, come oramai da qualche anno ben stanno comprendendo i politici e soprattutto tra di essi i policy maker. farlo poi nel cosmo microeconomico aziendale e settoriale lo è ancora di meno. quando il contesto che circonda l’azienda cambia repentinamente, e quando le risorse languono, è difatti ancora più complesso trovare stimoli concreti per incentivare la creatività e trasformarla in prodotti e servizi nuovi per il mercato. non sorprende quindi osservare statistiche che indicano un sostanziale calo strutturale della produttività della creatività e dell’innovazione tecnologica rispetto ai risultati che queste hanno dato nel secolo scorso, in particolare a partire dal secondo dopoguerra.[1]

Eppure, nonostante la crisi, ci sono parecchi casi eccellenti che fanno pensare che abbia ragione chi crede che è proprio in contesti di difficoltà che il capitalismo industriale e l’annesso liberismo sanno tirar fuori il meglio degli animal spirit di keynesiana memoria. Tra i molteplici esempi figurano casi eccellenti quali:

· Twitter, il social network da 140 caratteri che ha fatto intuire come in Rete non si viva di soli Facebook, Linkedin e blog di vario genere;

· Huffington Post, l’aggregatore che sta rivoluzionando il modo in cui si distribuisce l’informazione;

· Khan Academy e Udacity ovvero le nuove iniziative di education che stanno facendo tremare scuole e soprattutto università;

· le stampanti 3D di Stratasys e 3D System e i loro manufatti che in un futuro prossimo venturo potrebbero riportare in Occidente i posti di lavoro perduti a favore dei paesi emergenti, in quanto i prodotti da esse stampati non chiederanno più l’outsourcing delle funzioni Produzione delle aziende occidentali.

Fortunatamente, il discorso non si chiude a livello internazionale, ma include anche esempi nostrani e gettonati sui media quali Eataly lo store multiesperienziale che connette fisicamente consumatori con produttori di qualità del nostro paese in alcuni tra i più prestigiosi angoli del mondo – e Bravosolution azienda salita alla ribalta internazionale per produrre software e raffinati servizi di procurement a partire dall’ancor giovane mercato delle aste online.

L’elemento che spesso viene evidenziato di fronte a questi esempi è che sono il prodotto dell’intuizione di singoli e della relativa imprenditorialità. Nella gran parte delle circostanze le summenzionate innovazioni sono in effetti frutto di una nuova visione imprenditoriale che ha portato a organizzare aziende su misura per sviluppare e commercializzare l’innovazione ideata. Ciò che invece ci sembra meno analizzato, ma tuttavia altrettanto singolare e cruciale dal punto di vista teorico e pratico, è legato alla natura di queste innovazioni: ovvero al fatto che esse rappresentano vere e proprie innovazioni di mercato.

Le innovazioni di mercato

Le innovazioni in questione, difatti, non hanno semplicemente dato vita alla creazione di un nuovo prodotto: il sito con account di Twitter, le ricette artigianali di Eataly, i software proprietari di Bravosolution e le lezioni di Khan Academy. Queste innovazioni hanno saputo plasmare in modo differente il percepito dei bisogni dei clienti, il loro modo di acquistare e hanno portato alla definizione di un vero e proprio nuovo mercato. Pensiamo, giusto per indicare qualche altro esempio meno recente e oramai entrato nella nostra vita quotidiana, a come faremmo a vivere in questi giorni senza uno smartphone in tasca o come potremmo fare a meno di una ricerca con un search engine su un tema che ci interessa.

Questi bisogni, le innovazioni che li hanno soddisfatti e gli annessi mercati in cui vengono transati, fino a qualche anno fa non esistevano ed è per questo motivo che il valore dei prodotti che tali innovazioni hanno generato è così elevato per l’utenza e quindi per l’azienda che ha avuto la bravura e la fortuna di svilupparli. Questi prodotti, per usare un’espressione figurativa economica, non hanno semplicemente spostato verso destra la curva dell’offerta o spinto verso l’alto la curva della domanda. Queste innovazioni hanno, nella gran parte delle circostanze, creato un nuovo spazio microeconomico: hanno cioè dato vita a una nuova offerta e a una nuova domanda.

La cosa, tuttavia, che troviamo un po sorprendente e su cui vogliamo porre l’attenzione è combinare queste due semplici osservazioni e constatare che proprio queste innovazioni, quelle cioè che più di altre potrebbero sembrare coerenti per attivare la tanto ambita crescita, siano in realtà appannaggio di nuovi imprenditori e non delle aziende leader di mercato. Dalla loro, i leader di mercato hanno risorse a disposizione, una fiducia diffusa di molteplici stakeholder che compongono il rispettivo ecosistema, una tendenza a effettuare investimenti a due cifre sia per quanto concerne la R&D sia per quanto riguarda il marketing, ovvero le due funzioni più di altre preposte a innovare. Eppure, quando si pensa a molte recenti innovazioni di mercato che hanno generato un successo singolare in termini di valore e crescita, non si può non constatare la difficoltà dell’impresa leader.[2]

Aspetto più preoccupante è che le associazioni “impresa leader innovazione di prodotto e “impresa nuova innovazione di mercato non sono frutto solo di alcuni esempi emersi negli ultimi anni. Sembra un trend costante della recente storia industriale. Grazie al pionieristico supporto della biotecnologia, la multinazionale americana del farmaco Eli Lilly sviluppa l’insulina perfetta in quanto non più soggetta a impurità per la cura del diabete e, così facendo, non lancia invece la penna di insulina, resa famosa dalla piccola azienda danese Novo Nordisk e in grado di duplicare le vendite mondiali in quanto prodotto che si rivolge per la prima volta al paziente (interessato più alle modalità di somministrazione) anziché al medico (desideroso invece di avere un’immediata e superiore efficacia terapeutica). La celebre catena dolciaria Dunkin Donuts aumenta il numero di dolci, ma non crea gli spazi aperti come invece fa a metà anni novanta la neonata Starbucks, che sviluppa un mercato del breakfast di massa che non aveva precedenti in termini di qualità e di dimensione internazionale. Nokia sviluppa un cellulare più potente e più bello, non lo smartphone di BlackBerry che combina in un prodotto convergente Internet, telefonia e quant’altro serve a un consumatore professionista per comunicare. Benetton e Gap ipotizzano di estendere il numero di punti vendita e il numero di categorie merceologiche per vendere più servizio nei loro punti di vendita, ma non pensano di poter vendere a prezzi “casual” combinazioni di collezioni imitate da stilisti top come invece fa Zara negli ultimi dieci anni, che riesce così ad acquisire la leadership del mercato di massa del settore abbigliamento. Se a queste storie si aggiunge che in molti casi in cui l’innovatore che ha creato il nuovo mercato, consolidandosi e ingrandendosi, ha perso nel tempo la vis creativa che conduce all’innovazione di mercato, il corollario teorico che l’impresa leader non è in grado di immaginare un’innovazione di mercato diventa un dato di fatto.

La domanda quindi che sorge spontanea è la seguente: ma, data la sua importanza, come è possibile che l’innovazione di mercato mal si sposi con la grande azienda leader di mercato, che per prima dovrebbe preoccuparsi di perseguirla in quanto in costante ricerca di fattori di crescita? Quattro ci sembrano le cause principali: a. l’interpretazione dominante di innovazione condivisa in azienda; b. la strumentazione impiegata e caratterizzata prevalentemente da ricerche di mercato; c. l’organizzazione attivata per il suo sviluppo e la sua commercializzazione; e da ultimo d. la carenza di tensione nei confronti della fase di realizzazione dell’innovazione stessa. Per fornire qualche spunto di riflessione a chi gestisce l’innovazione in un contesto manageriale e non imprenditoriale, di seguito analizziamo i quattro punti e per ciascuno proponiamo alcune possibili soluzioni. Così facendo, mettiamo in discussione alcuni “miti legati al mondo dell’innovazione, che dal nostro punto di vista sono più utili per sviluppare innovazione di prodotto e non invece innovazione di mercato.[3]

Mercato, non tecnologia

I laboratori di ricerca e sviluppo e, in via speculare, la letteratura sull’innovazione tecnologica che ad essi si rivolge, sono assordati da dibattiti sull’innovazione incrementale e radicale. Questi dibattiti, spesso legati all’opportunità di avere un portafoglio di innovazioni più o meno bilanciate dal punto di vista della radicalità e quindi del rischio, sono mal posti rispetto alle innovazioni di cui stiamo parlando. Come tutti gli esempi menzionati in queste pagine dimostrano, l’innovazione di mercato non è un’innovazione radicale un’innovazione incrementale. Il paradosso dell’innovazione di mercato è che essa ha un impatto radicale, ma spesso viene da idee e tecnologie che non possono certo dirsi rivoluzionarie sembrano anzi più simili a miglioramenti incrementali.

Spostare il dibattito dalla tecnologia e quindi dall’offerta alla domanda aiuta a meglio focalizzare l’oggetto di analisi. I grafici dei dibattiti sulle decisioni da prendere per l’innovazione presentano invece sempre un asse dedicato alla tecnologia (spesa di R&D, numero di patents ecc.) e un secondo dedicato al rischio, al tempo e così via. Incominciare a far apparire nell’ambito di queste chart in uno di questi due assi o in un terzo asse domanda e/o mercato è cruciale se all’innovazione di mercato si vuole puntare e non si vuole cadere nella solita logica incrementalista e/o radicale dell’innovazione di prodotto tecnologica.[4]

Nuovo mercato, non solo ricerche di mercato

Quanto appena scritto potrebbe a qualcuno apparire come l’apologia delle funzioni Marketing rispetto alle funzioni tecnologiche (R&D e Operations), che spesso in aziende dedicate all’innovazione hanno il sopravvento sulle prime. In realtà, sostenere la prospettiva del mercato non significa cedere alle lusinghe dell’oramai sterminato e obiettivamente affascinante mondo delle ricerche di mercato e del marketing strategico. Spostare il dibattito dalla tecnologia alla domanda, infatti, non significa dare carta bianca alla funzione Marketing. Un tipico problema delle funzioni Marketing è credere che il cliente abbia sempre ragione e che si debba reinterpretare l’idea di prodotto in funzione dei servizi che esso può offrire al cliente, acquisendo quindi una prospettiva di mercato. Questo cambio di prospettiva, seppur importante, non è sufficiente a far intravedere le innovazioni di mercato. Questo perché, quando si parla di innovazione, il cliente spesso non ha la più pallida idea di quanto si possa fare. Non solo: un’innovazione di prodotto coerente con le aspettative del cliente rimane un’innovazione di prodotto che probabilmente venderà di più di un’innovazione che si disinteressa di quanto la domanda desideri, ma non diventerà mai un’innovazione che crea un nuovo mercato. Quello che intendo è che il problema delle funzioni di Marketing e delle ricerche di mercato tradizionali è che rimangono ancorate a una specifica prospettiva di mercato, che invece nella logica dell’innovazione di mercato è proprio quella che deve essere superata.

L’innovazione di mercato comporta una ridefinizione del mercato rispetto a bisogni che il cliente non immagina neanche di avere. Per fornire un esempio quintessenziale della genialità tradizionale del mondo del marketing – che tuttavia rimane un mondo ancorato ai prodotti si pensi al seguente esempio legato al mondo Disney. Come fece il grande CEO Mike Eisner, celebre per aver riportato Disney alla ribalta e al profitto, si può anche formalizzare l’obiettivo di “vendere sogni e non fumetti”. Si può cioè puntare ai servizi offerti dai prodotti anziché ai prodotti stessi, acquisendo quindi una prospettiva di mercato. E si può, come appunto ha fatto Disney, dedicare molte energie per migliorare la qualità del servizio “sogno” che vende al proprio cliente, con ricerche di mercato di ogni genere per meglio interpretare tali bisogni. Ma vendere sogni significa comunque rimanere nella prospettiva di quei clienti (i bimbi) e fare un parco tematico più bello o un cartone animato più bello. Questa prospettiva non permette di ridefinire il business del cinema animato, come invece hanno fatto la Pixar di Lasseter e la Dreamworks di Spielberg nel produrre film, da Toy Story a Shrek, in cui sono i genitori che supplicano i bambini di andare a rivedere il film per la seconda volta al cinema, per poi comprar loro DVD, annessi gadget e scaricare il film sui tablet e in quanto tali, generatori di valore in modo esponenziale rispetto a un’innovazione di prodotto.[5]

In sintesi, ciò che conta non è solo l’idea che la prospettiva di mercato sia prevalente; il punto, nell’innovazione di mercato, è sfidare l’interpretazione dominante di prodotto che viene offerta all’interno dell’impresa e la strumentazione che ad essa si riferisce.

Business development, non R&D vs. Marketing

La motivazione per cui l’innovazione di mercato è appannaggio dell’imprenditore e non del manager riguarda anche i gradi di libertà del primo rispetto al secondo. Da un punto di vista organizzativo il manager lavora con una serie di vincoli che l’imprenditore non ha. Benché, come dicevamo, abbia potenzialmente più risorse a disposizione dell’imprenditore (ha, per esempio, un team di R&D magari rodato da anni di esperienza; un brand di valore; degli investitori che ripongono fiducia nell’azienda per cui lavora), il manager deve purtuttavia fare i conti con una serie di ostacoli che derivano dalle stesse risorse che limitano le scelte e portano a decisioni non tanto scontate, quanto comunque evolutive (l’inerzia del team che ha sviluppato routine da cui non vuole sganciarsi; l’identità del brand, adeguato soprattutto per alcune strategie; le aspettative di breve periododegli investitori). In questo contesto, l’innovazione di prodotto e tecnologica è percepita come meno rischiosa, anche se spesso assai più costosa dell’innovazione di mercato. Lo è a tal punto che la seconda non entra neanche nei dibattiti. E nei pochi casi in cui venga “scoperta”, cade nel dimenticatoio. Si pensi che Barnes and Noble aveva creato uno dei primi siti di e-commerce nel lontano 1994 dodici mesi prima di Amazon per vendere libri a studenti di college, salvo poi concentrarsi sui suoi punti di vendita fisici. Così come la summenzionata Sony aveva in realtà per prima sviluppato uno dei brevetti pionieristici di MP3, con la paura però di lanciarlo per vedersi cannibalizzate le vendite dei contenuti da essa prodotti dal mondo piratesco di Internet. E una simil-penna di insulina era stata concepita dalla Lilly, ma non lanciata in quanto non gradita dai medici di riferimento: diabetologi ed endocrinologi convinti che quello che contasse fosse la cura e non il dolore e il fastidio del paziente, elementi invece centrali e intuiti dai medici generici.

Poiché le aziende in oggetto destinano comunque tanti fondi e tante risorse all’innovazione, il problema che si pone non è se innovare, ma come innovare. In questo senso, la creazione di aree aperte dal punto di vista del pensiero e dell’azione, come per esempio i laboratori o le unità di business development, sono non solo utili, ma in grado di liberare l’energia richiesta soprattutto dall’innovazione di mercato.[6]

Execution, non solo strategia

Ultimo, ma altrettanto importante spunto che attanaglia l’incapacità del leader di mercato è l’insensibilità alla parte esecutiva che dovrebbe essere valorizzata dagli action plan e go to market. Mentre l’enfasi sulla parte strategica dell’innovazione (dal business plan alla realizzazione dell’innovazione) rimane elevata, non altrettanti sforzi sembrano profusi rispetto al cosiddetto “ultimo miglio”. Il paradosso è che il miglio in questione è lastricato di tante trappole che fanno cadere e fallire la potenziale innovazione di mercato e la rendono second best rispetto a decisioni più squisitamente legate ai prodotti. Dedicare più attenzione all’execution può aiutare a superare questi rischi. In particolare ciò significa mantenere alta la tensione dell’innovazione, comunicare in modo costante il da farsi e non cadere nello sconforto di fronte ai potenziali stop che si vanno a incontrare.

In conclusione, ci sembra di poter dire che guardandosi bene intorno, innovazione e crisi possono convivere, ma è opportuno che lo facciano non solo tramite la forza schumpeteriana della neoimprenditorialità, ma anche con la forza della grande azienda leader. La quale forza, tuttavia, deve probabilmente cercare di metabolizzare alcune certezze maturate nel corso della propria storia con l’innovazione di prodotto e abituarsi invece a vivere il contenuto dell’innovazione in modo più moderno rispetto alla complessità dei tempi che viviamo.

1

Si veda per una review sintetica e recente l’articolo “Has the Ideas Machine Broken Down?”, The Economist, Jan 12, 2013, pp. 21-24.

2

Purtroppo i mali dell’impresa leader non si fermano qui. Essi riguardano anche l’inerzia cognitiva, economica e organizzativa che in molte circostanze non le permette di sopravvivere a fronte di grandi cambiamenti dell’ecosistema industriale, come è già stato evidenziato in un precedente editoriale (Verona G., “Perché il leader di mercato non sa più innovare”, Economia & Management, 2009, n. 6, pp. 3-8).

3

Per intendere i miti cui mi riferisco basta leggere al contrario i titoli che seguono. Per esempio, il primo punto mette in discussione il mito per cui l’attività più importante per innovare è il presidio della tecnologia.

4

Questa considerazione non è interamente frutto di chi scrive ma deriva da un’idea, caduta nel dimenticatoio, a opera di due tra i più grandi studiosi dell’innovazione: William Abernathy e Kim B. Clark (“Innovation: Mapping the winds of creative destruction”, Research Policy, 14, 1985, pp. 3-22).

5

Come noto, la sensibilità strategica di Disney associata alla sua forza industriale la ha portata in un secondo momento ad acquistare Pixar.

6

A questo proposito ci sembra calzante ed efficace l’esempio offerto dal caso IBM: O’Reilly C.A., Harreld J.B., Tushman M.L., “Organizational Ambidexterity: IBM and emerging business opportunities”, California Management Review, 51/4, Summer, 2009, pp. 75-99.