E&M

2009/6

Gianmario Verona

Perché il leader di mercato non sa più innovare?

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Quattro anni fa, in corrispondenza del sesto numero annuale di E&M auspicavamo che l’“anno dell’innovazione” – così definimmo il 2005 per i continui proclami in favore dei cambiamenti industriali e di prodotto da parte di parecchi imprenditori, manager e persino politici – non fosse un semplice abbaglio né una moda manageriale. Lo auspicavamo perché l’innovazione è la modalità più significativa per garantire sviluppo all’economia aziendale, industriale e nazionale.

Nonostante l’anno trascorso sia purtroppo stato devastato da una crisi finanziaria che nei tempi e nei modi è stata la più subdola e dannosa degli ultimi decenni, l’innovazione sembra rimanere, quantomeno nei propositi, ai primi posti delle agende strategiche di manager, imprenditori e policy maker.[1] A fronte di questo primato, una serie di episodi degli ultimi mesi ci dimostra in realtà come siamo ancora lontani dall’ambita meta di comprendere a fondo come stimolare con sistematicità cambiamento e innovazione. Il timore è quindi che, a crisi finita, quando cioè i laboratori di R&D e le funzioni di Design e Marketing potranno finalmente tornare a godere di finanziamenti più corposi di quelli disponibili in questi momenti di ristrettezza economica, si rischi di non impiegarli per fare il vero salto di qualità.

Vediamo alcuni di questi episodi e cerchiamo di capire cosa sembra non funzionare.

Starbucks, colpita paradossalmente da crisi da troppo successo, si sta risollevando grazie alla “Linea Latte”. La linea latte è una riga disegnata sul bricco con cui i baristi producono le tonnellate di caffè, latte e Frappuccino che hanno reso Starbucks famosa in tutto il mondo, anche dove non è fisicamente presente. La linea latte, che porta il barista a dosare il giusto contenuto di liquido senza quindi sprecarlo come faceva fino al dicembre 2008, sta permettendo a Starbucks di riguadagnare importanti spazi di redditività persi, tra l’altro, a causa della crescente concorrenza causata dall’imitazione. A detta del CEO Howard Schultz, la linea latte è divenuta in azienda metafora di quanto si possa fare in termini di innovazione.

Disney, il colosso globale del settore multimediale, dopo aver acquisito Pixar, emblema della nuova tecnologia digitale impiegata nel cinema, ha deciso quest’anno di acquistare anche la regina dei fumetti Marvel, in modo da ampliare la gamma di contenuti da proporre sui molteplici device che ci circondano e che sempre più cadenzano in ogni secondo la nostra vita. Come hanno intitolato i giornali, “Topolino mangia Spiderman”, provocando – immagino – non poco imbarazzo in tutti i genitori che, come il sottoscritto, cercavano inutilmente di spiegare questa importante sfumatura economica ai loro piccoli, interessati più alla sostanza del mondo dei supereroi.

Queste innovazioni di grandi multinazionali, seppur pregevoli nel loro intento e interessanti dal punto di vista delle implicazioni gestionali e dei risultati, ci dimostrano in realtà la fatica che si fa a reinventare la ruota. Una volta che hai la bravura di ideare Starbucks, è difficile ripetersi. La linea latte proposta da Starbucks 2.0 è indubbiamente una buona idea (ed è certamente redditizia), ma molto lontana dall’idea di innovazione radicale presente nel business model originale, ed è quindi lontana dalla crescita e dalla redditività originariamente prodotta. Analogamente, quando hai inventato Topolino, Disneyland e i cinema cartoon, spingere in avanti la frontiera della creatività è, per parafrasare appunto Hollywood, una “mission impossible”. Cosa ci può essere, quindi, di più semplice che rivolgersi al mercato per cercare di “comprare” l’innovazione di Marvel, l’azienda che ha ben espresso e tuttora esprime la creatività dei fumetti, che oggi trova nuova linfa nell’era multimediale che stiamo vivendo?

Gli episodi in questione evidenziano il tema centrale di queste pagine, e cioè che il leader di mercato non sa ripetersi. E quando riesce a farlo, lo fa in tono decisamente contenuto. E così facendo, molto probabilmente perde la corsa all’innovazione radicale successiva.

Mi piace legare ai due esempi menzionati i casi recenti di due imprenditori che nell’immaginario collettivo riflettono, invece, la singolare capacità di cambiamento e innovazione continua: Steve Jobs e Giorgio Armani. Jobs e Armani sono, a ragion veduta, due imprenditori ritenuti in grado di cambiare continuamente la propria azienda spingendo verso nuovi orizzonti strategici e competitivi. Il primo è passato dal mondo dei pc per grafica (Macintosh anni ottanta), al mondo dei pc compatti e di design (iMac negli anni novanta), al mondo della distribuzione e dell’ascolto della musica (iPod inizio del 2000), al mondo della telefonia (iPhone 2007) e di tutto quello che ci rende digitali (come ricorda oggi la stessa pubblicità di iPhone “There’s an app for everything ” – c’e’ un’applicazione per qualsiasi cosa, e difatti i telefoni i-Phone sono caricati di un numero sempre maggiore e sempre più creativo di applicazioni che ci servono ormai quasi per qualsiasi cosa). Similmente, Armani ha trasformato la moda mondiale all’inizio degli anni ottanta con il suo stile mascolino e ha anticipato molti operatori del fashion grazie alla sua capacità di mettere in discussione il proprio portafoglio prodotti, con l’estensione a segmenti ad ampia diffusione come Emporio Armani e Armani Jeans a cavallo tra anni ottanta e novanta. È lui che sviluppa una logica più moderna di moda intesa a essere interpretata come uno stile di vita, grazie alla diversificazione in business quali l’arredamento e, più recentemente, il settore turistico e alberghiero del lusso. L’unicità dei Jobs e degli Armani è ben dimostrata dalla recente tensione della comunità finanziaria di fronte ai loro problemi di salute e dal pensiero collettivo (che è invece indimostrato e indimostrabile) che senza di loro le loro aziende non saprebbero fare quello che con loro fanno, e cioè continuare a innovare.

Ma lo snodo cruciale è proprio questo: fino a quando l’innovazione non sedimenta nelle competenze dell’azienda, ma rimane una visione e una capacità di un leader, non riuscirà mai a sprigionare la sua distruzione creatrice indipendentemente dalle sorti del leader stesso. Perché, quindi, è difficile far sì che un’azienda innovi con continuità? Cosa frena la realizzazione di un’azienda che innova con sistematicità e permette al leader di mercato di continuare a innovare?

La parola che gli accademici amano impiegare per spiegare questo fenomeno prende il nome di inerzia, che personalmente mi piace rappresentare come una sorta di pigrizia che si manifesta su scala organizzativa. Sappiamo che le competenze distintive nel corso degli anni diventano rigidità altrettanto distintive, che portano le aziende a sedersi sugli allori e a impedire ogni forma di innovazione di possibile interesse per il futuro delle stesse aziende. Per innovare si pensa diventi quindi più semplice rivolgersi ai processi che non mettono in discussione i business model in essere (nel nostro esempio, Starbucks), comprare l’innovazione di terzi (Disney) o alimentare una pipeline di spinoff/spinout che non disturbino il modello corrente di azienda (come stanno facendo molte grandi multinazionali del pharma e delle Information & Communication Technology). Così facendo, però, si sottovalutano il costo e le difficoltà di integrazione delle innovazioni comprate o incubate e il limitato impatto del cambiamento dei processi rispetto, invece, al valore dell’innovazione radicale. E in generale, non si innova sostanzialmente, ma marginalmente.

Cosa fare, quindi, per cercare di combattere l’inerzia? Per capirlo occorre anzitutto illustrare come essa si manifesti.

Vi sono tre forme studiate di inerzia organizzativa: una di natura tecnica, una di carattere cognitivo e una di tipo economico. La prima forma di inerzia è legata all’incapacità tecnica di gestire l’innovazione. Dipende dal fatto che le competenze delle aziende sono rivolte al passato e non necessariamente si legano con il futuro. Per esempio, i laboratori delle grandi multinazionali del pharma non presentavano a inizio anni ottanta un dipartimento di biologia/biotecnologia, e con le competenze in essere non erano in grado di lanciare alcun prodotto di nuova generazione. Non a caso, il primo farmaco biotecnologico è stata l’insulina (Humulin) lanciato da Lilly grazie alla collaborazione con Genentech, società biotecnologica di Herbert Boyer, inventore del processo di riproduzione biotecnologica assieme al premio Nobel Stanley Cohen, che ideò e produsse il farmaco senza però avere la forza commerciale per lanciarlo. Da sola Lilly non ci sarebbe arrivata. L’inerzia, tuttavia, si manifesta anche sotto forma cognitiva. Sappiamo che i team di sviluppo e lancio di prodotti si caratterizzano per la “Not-Invented-Here syndrome”, la sindrome del non inventato qui, che porta molti progettisti a rigettare le soluzioni più creative perché non interamente inventate grazie alle competenze dell’azienda. Sappiamo che queste barriere cognitive “egoistiche” sono poi a volte aggravate da barriere legate alla comprensione. L’inerzia ha infatti anche forme più subdole perché non permette di vedere e di capire cosa la nuova tecnologia può fare rispetto alle precedenti, come ben dimostrano i casi di Kodak e Polaroid, aziende che hanno investito nelle tecnologie digitali, però con la mentalità e gli occhi della chimica che produce le pellicole, condizionando sostanzialmente i risultati conseguibili da tali operazioni.[2] Da ultimo, a queste forme di inerzia si deve aggiungere una forma di inerzia economica, magistralmente descritta dal lavoro di Christensen sul dilemma dell’innovatore: cioè che l’innovazione nel breve periodo cannibalizza i prodotti del leader e si caratterizza per risultati decisamente inferiori, per questo viene rigettata dallo stesso leader.[3] Cosa fare per combattere l’inerzia e cercare di cambiare l’inesorabile destino dell’oblio cui l’innovatore va incontro?

Una storia del nostro illustre passato, che abbiamo ricostruito negli ultimi due anni con gli amici Erwin Danneels di Worchester Politechnique Institute e Bernardino Provera di Mercer Consulting, ci ha permesso di identificare le profonde implicazioni dell’inerzia e una possibile strategia di superamento.[4] La storia riguarda la mitica Olivetti e, in particolare, il periodo di leadership che ha visto l’azienda transitare dalla meccanica delle macchine da scrivere all’elettronica dei computer da tavolo e che è stato riprodotto con dettaglio grazie all’impiego di tre archivi storici (Archivio Olivetti, Fondazione Natale Capellaro, Archivio Fiat) e alla generosa disponibilità di quindici manager che hanno vissuto i gloriosi anni dell’azienda di Ivrea (tra cui Gianluigi Gabetti, Bruno Lamborghini, Elserino Piol e Ottorino Beltrami) e quattro esperti (Giovanni DeWitt, Francesco Novara, Giuseppe Rao, Giuseppe Silmo), che si sono tutti resi disponibili, grazie a una serie di incontri e interviste, a ricostruire nei dettagli il passaggio dalla meccanica all’elettronica.

Nata nel lontano 1908 per opera di Camillo Olivetti, l’azienda di Ivrea iniziò a produrre voltmetri e macchine da scrivere, le quali diventano, tra le due grandi guerre, un punto di riferimento per affidabilità e design. Grazie alla lucidità del figlio Adriano, a partire dagli anni quaranta l’azienda inizia un processo di espansione geografica e produttiva che porta a estendere il business verso il segmento lucrativo delle calcolatrici. A inizio anni sessanta l’azienda conta 24.000 dipendenti e un capitale sociale di circa 30 milioni di dollari e rappresenta un esempio di interesse mondiale, come peraltro testimoniato dalla presenza del caso Olivetti nel primo manuale ufficiale di strategia prodotto dalla Harvard Business School.[5]

Nonostante la leadership nelle macchine da scrivere e da calcolo e, quindi, il “peso” della meccanica, Olivetti riesce a partecipare e vincere la corsa ai primi mainframe computer, con la produzione di Elea 9003 (elaboratore elettronico automatico), primo prodotto integralmente a transistor lanciato nel mercato mondiale nel settembre 1959 e cioè tre mesi dopo il prodotto a tubi catodici di Univac e sei mesi prima del prodotto a circuiti integrati di IBM. Olivetti è anche l’azienda che nel 1966 lancia il primo desktop computer, il Programma 101 di Piergiorgio Perotto, che sbalordì il mondo per essere stato il primo elaboratore da tavolo con una capacità elettronica e per aver pionieristicamente interpretato il concept di prodotto del personal computer, affermatosi poi a fine anni settanta. E nel corso degli anni ottanta, prima del disinvestimento a favore del mondo delle telecomunicazioni, Olivetti si trasforma interamente in un’azienda elettronica lasciandosi alle spalle il passato di azienda meccanica.

L’aspetto singolare del caso di transizione di Olivetti si riconduce al fatto che tale passaggio non è avvenuto senza il manifestarsi di forti resistenze legate alle forme di inerzia precedentemente indicate, né è stato indolore.

Il passaggio non è stato estraneo all’inerzia organizzativa perché, da un punto di vista tecnico, la popolazione di Olivetti era meccanica al cento per cento e non aveva le competenze richieste per l’ideazione e produzione di prodotti elettronici: la meccanica è difatti tangibile, richiede competenze creative e manuali e si basa su una logica di insourcing; l’elettronica, al contrario, è invisibile, si basa su competenze scientifiche, strumentazioni idiosincratiche e richiede una forte dose di outsourcing. Da un punto di vista cognitivo, la base meccanica dell’azienda, la cui roccaforte era rappresentata dagli importanti stabilimenti industriali e dalle funzioni di design e di produzione, semplicemente non comprendeva la produzione di bit e quando, per esempio, ha cercato di comprenderla, ha sviluppato il “bit meccanico”, un complicatissimo marchingegno che impiegava la logica degli 0 e degli 1 in un sistema di lamiere meccaniche. Da un punto di vista economico, la produzione dei primi Elea ha fatto accusare importanti perdite, non compensate dal sostegno finanziario offerto dai governi, come invece accaduto nel caso di concorrenti internazionali quali la francese Bull e l’americana IBM. Similmente, il lancio di prodotti come Programma 101 produceva valori di marginalità incredibilmente inferiori ai prodotti “da mungere” della gestione meccanica: si pensi che la Divisumma, prodotto centrale della logica meccanica, aveva un rapporto costo di produzione e prezzo di 1 a 10.

Il passaggio all’elettronica, peraltro, non è stato indolore perché, in seguito alla prematura scomparsa di Adriano nel novembre del 1960, l’azienda ha trascorso un periodo di profonda crisi finanziaria iniziato nel 1961 e conclusosi ufficialmente intorno al 1968. In questo periodo il capitale di controllo dell’azienda è passato dalle mani della famiglia Olivetti a un gruppo di intervento, orchestrato da Mediobanca e Fiat, che ha sostanzialmente cambiato i vertici aziendali e ha deciso nel 1964 di cedere la divisione elettronica a General Electric.

Nonostante questa rappresentazione “da manuale” dell’inerzia e dei suoi effetti, la transizione si è conclusa con esito positivo e rappresenta quindi un’interessante prospettiva di insegnamento per chi voglia comprendere la delicatezza di queste transizioni e la capacità di innovazione continua. Cosa è accaduto in Olivetti e cosa è stato fatto razionalmente per far sì che l’elettronica alla fine avesse il sopravvento sulla meccanica? Tre sono gli aspetti più eclatanti di questa storia.

In primo luogo, la sensibilità nei confronti del futuro. Seppur tra i risultati meno interessanti e, forse, più scontati, la presenza di leader visionari e competenti è indiscutibilmente utile a scatenare la vis creativa del cambiamento, poiché ne è il fuoco iniziale. La presenza di personaggi del calibro di Adriano, che già nel 1959 predicava che: “Non dobbiamo farci prendere di sorpresa dagli avanzamenti tecnologici che porteranno i nostri prodotti a essere trasformati da meccanici a elettronici”, è tanto rilevante quanto necessaria.[6] La capacità di far salire a bordo del proprio progetto personaggi che sanno anticipare le esigenze del mercato quali Mario Tchou (nel 1954 giovane ricercatore italo-cinese dell’allora “meccatronica” nell’ambito della Columbia University), Elserino Piol (primo direttore Marketing in Olivetti in grado di vendere al gruppo Marzotto il primo Elea nel lontano 1959) o Marisa Bellisario (prima business plan manager in Olivetti) è certamente alla base della capacità di cambiamento.

In secondo luogo, la gestazione e protezione iniziale della nuova tecnologia. L’elettronica si sviluppa in Olivetti grazie all’intuizione, già alla fine degli anni quaranta, di alcuni manager, tra cui Adriano, il fratello Dino e il figlio Roberto, i quali decidono di separarla fisicamente dal resto dell’azienda. L’azienda apre anzitutto un piccolo laboratorio a New Canaan nel New Jersey, per beneficiare degli spillover delle prime venture elettroniche. Il primo gruppo di elettronica italiano lavora invece a Barbaricina, un piccolo sobborgo di Pisa, a contatto con l’unica università italiana dove era maturato un progetto di sviluppo di un calcolatore elettronico, grazie all’intuizione del nobel per la fisica Enrico Fermi. E anche quando il primo prodotto dell’era elettronica venne partorito, l’aggregazione delle forze di progettazione, produzione e commercializzazione viene locato lontano da Ivrea, e in particolare a San Giuliano Milanese, alle porte di Milano. Separare e proteggere sembra un passo necessario per irrobustire le nuove competenze.

In terzo luogo, e cosa certamente più eclatante, il caso Olivetti ci aiuta a meglio rappresentare il problema della sclerosi prodotta dalle competenze distintive di un’azienda. In particolare, di fronte alla produzione di innovazioni radicali, le competenze meccaniche non solamente diventano delle rigidità da un punto di vista tecnico, cognitivo ed economico. Esse tendono addirittura ad alimentare una vera e propria battaglia culturale e valoriale all’interno dell’azienda poiché portano a rigettare ogni nuova forma di competenze in quanto “illegittima” rispetto alla precedente. Ciò è inizialmente evidenziato dall’ostracismo di Ivrea nei confronti dell’emergente divisione elettronica (chiamata nel linguaggio dei meccanici “il giocattolo di Adriano”), del gruppo di elettronici (ribattezzati “mangiapane a sbafo”), della loro ricerca (rappresentata come l’“andare a caccia di farfalle”) ed è successivamente messo in luce dall’infelice frase pronunziata dal gruppo di intervento nel 1964 in fase di cessione della divisione elettronica: “Nonostante la difficile situazione finanziaria, Olivetti è un’azienda solida con un futuro prospero: vi è solo un neo da estirpare per riuscire a raggiungerlo, la divisione elettronica”.

La consapevolezza di questo conflitto valoriale e la sua gestione “istituzionale” diventano quindi una modalità per sfuggire all’inesorabile destino del leader che non sa reinventarsi. Il riuscire a comprendere l’esistenza di un conflitto di questa natura e saperlo in seconda battuta sedare se non addirittura risolvere, conferendo risorse in modo equo e chiaro alle nuove competenze, diventa la chiave per favorire un ambiente di continua innovazione. Nel caso di Olivetti, la cooptazione e il tentativo di integrazione delle risorse messo in campo dai vertici aziendali vicini all’elettronica e in particolare da Roberto Olivetti, Mario Tchou e Piergiorgio Perotto, rappresentano una modalità di gestione di tale legittimazione. La strategia di lavoro del laboratorio di Barbaricina si caratterizzava per cercare comunque di comprendere e compiacere la meccanica di Ivrea e non di contrastarla. Per esempio, uno dei principali progetti al centro del laboratorio riguardava le schede perforate, che rappresentavano un primo rudimentale sistema elettronico che permetteva di centralizzare a livello di sistema il lavoro di calcolatrici e macchine da scrivere da tavolo. Similmente, anche quando la divisione elettronica fu ceduta, l’azienda eliminò ufficialmente tutta l’elettronica, ma nella sostanza eliminò solo la “grande” elettronica, quella, per intenderci, dei grandi calcolatori per applicazioni militari e universitarie. Tenne invece al suo interno la cosiddetta “piccola” elettronica, ovvero i progetti di elettronica che più erano allineati con i prodotti del proprio portafoglio, che portarono alla formulazione del Programma 101 e che permisero poi di partecipare al business dei personal computer.

Cosa serve quindi al leader per reinventarsi? Immaginare le nuove competenze e nutrirle a livello organizzativo con soluzioni protette può essere una soluzione vincente per testare il terreno dell’innovazione radicale. Allo stesso tempo, Olivetti ci permette anche di comprendere che le difficoltà legate all’impiego delle nuove competenze rappresentano un problema più profondo di tante altre considerazioni emerse negli ultimi anni. L’inerzia si manifesta certamente a livello tecnico, cognitivo ed economico, ma purtroppo il suo entrare in scena produce un’amplificazione che va a toccare i valori e la cultura delle aziende stesse e che le porta a delegittimare tutto ciò che non sia in sintonia con il passato. Il caso Olivetti, tuttavia, ci insegna anche che il destino del leader, seppur inesorabile, è non inevitabile. Avere una strategia per anticipare e gestire l’inerzia può essere il punto cruciale per l’innovatore che desidera continuamente stupire i mercati che vanno ad acquistare i propri prodotti.

Quali sono le forme di inerzia che caratterizzano la mia azienda? Quali strategie di legittimazione di nuove competenze posso mettere in campo? Rispondere a queste domande potrebbe essere un ottimo punto di partenza per non farsi cogliere impreparati dalla prossima ondata di cambiamenti che investiranno il proprio settore e, anzi, per cercare di cavalcarla anticipatamente rispetto ai concorrenti.

1

Senza richiamare le numerose classifiche offerte da periodici e associazioni, mi piace simbolicamente solo osservare che Joseph Schumpeter, il padre teorico dell’innovazione e dell’imprenditorialità, è addirittura divenuto da settembre il titolo di una  rubrica permanente sul prestigioso settimanale The Economist, che si propone così di informare i suoi lettori su quali best practices, aziende o settori si stiano muovendo in sintonia con la domanda di cambiamento che l’economia oggi richiede.

2

Si vedano sul caso Polaroid e sul caso Kodak rispettivamente: Tripsas M., Gavetti G. (2000), “Capabilities, Cognition, and Inertia: Evidence from Digital Imaging”, Strategic Management Journal, 21(10/11), pp. 1147-1161; e Kaplan S., Henderson R. (2004), “Inertia and Incentives: Bridging Organizational Economics and Organizational Theory”, Organization Science, 16 (5), pp. 509-521.

3

Christensen C. (1997), The Innovator’s Dilemma, Harvard Business School Press, Boston.

4

Per i dettagli del lavoro si rinvia a: Danneels E., Verona G., Provera B. (2009), “(De)institutionalizing Organizational Competence: Olivetti’s Transition from Mechanical to Electronic Technology”, Working paper KITES, Università Bocconi.

5

Learned E.P., Christensen V.R., Andrews K.R., Guth W.D. (1969), Business Policy: Text and Cases, Richard D. Irwin, Homewood.

6

Piol E. (2004), Il sogno di un’impresa, Il Sole 24 Ore, Milano, p. 26.