E&M

2012/2

Gianni Canova Severino Salvemini

L’industriale. “Noi non scommettiamo mai”

Un’azienda torinese che si occupa di componenti ecologici è strangolata dai debiti e sull’orlo del fallimento. La gestione finanziaria naviga a vista e i dipendenti amministrativi sono alla continua ricerca di credito per tamponare la situazione. Le banche, però, negano all’imprenditore i denari per investire in innovazione e la situazione diventa ogni giorno più grave. L’industriale di Giuliano Montaldo porta il cinema italiano a confrontarsi con la crisi e con i problemi della globalizzazione.

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L’industriale

Regia: Giuliano Montaldo

Interpreti: Pier Francesco Favino, Carolina Crescentini

Italia, 2012

 

“È una scommessa sul futuro…” Mentre pronuncia queste parole, il giovane imprenditore in crisi guarda il banchiere al quale sta chiedendo un finanziamento con uno sguardo che sta a metà tra la supplica e la disperazione. Ma il banchiere non ricambia lo sguardo. I suoi occhi sono obliqui, sfuggenti, solo la voce è ferma e netta: “Noi non scommettiamo mai”, afferma in tono perentorio e inappellabile. E in quella risposta è iscritta la condanna per le Officine Meccaniche Ranieri, prestigiosa azienda torinese dal fulgido passato ma ora sull’orlo del baratro: il mercato non richiede e non assorbe più i prodotti usciti dalla fabbrica, gli operai sono in allarme, le banche chiudono ogni rubinetto e i potenziali acquirenti tedeschi continuano a prendere tempo e rinviano ogni decisione. Ambientato in una Torino plumbea e grigia, quasi decolorata, e trasformata dalla bellissima fotografia di Arnaldo Catinari in una sorta di città fantasma, L’industriale di Giuliano Montaldo (classe 1930, veterano e maestro del cinema italiano) porta lo sguardo dentro i gangli della crisi che morde assieme all’economia anche la società europea. E lo fa con un approccio in cui intuizioni illuminanti si mescolano con notazioni più scontate e criticabili. Ne discutono, come di consueto, Severino Salvemini e Gianni Canova.

 

S.S. Una prima osservazione riguarda il fatto che forse, finalmente, il cinema italiano si sta accorgendo della recessione incombente e – almeno a partire da Il gioiellino di Molaioli e da Il mio domani di Marina Spada – comincia a confezionare sceneggiature più contestuali rispetto alle commedie più o meno di costume. Peccato, però, che non abbia mai il coraggio di andare fino in fondo (contrariamente a quanto fanno, per esempio, film francesi recenti come Une vie meilleure del regista Cédric Kahn o De bon matin di Jean-Marc Moutout), per timore di respingere il pubblico che si presuppone in cerca di divertimento facile e poco interessato a un cinema più impegnato.

 

G.C. Io trovo invece che il cinema italiano sia sempre stato abbastanza attento al contesto sociale e che abbia anzi dialogato in modo interessante con le trasformazioni, le evoluzioni e le crisi della società. Lo stesso Montaldo, per dire, aveva già girato un film sulla crisi di un industriale negli anni sessanta: in Una bella grinta (1964) era Renato Salvatori a indebitarsi ben oltre le sue possibilità per costruirsi quella “fabbrichetta” che negli anni del boom economico sembrava l’unico possibile ascensore sociale. Anche nel caso di quel film, del resto, era il rapporto con la moglie che portava a una drammatica svolta finale. Certo: finora la crisi è stata dipinta per lo più nelle sue conseguenze sulla parte più bassa della piramide del potere (le ristrutturazioni, i licenziamenti, i drop-out ecc.).

Questa volta saliamo ai livelli più alti per parlare di un industriale, l’ingegner Nicola Ranieri, figlio di un immigrato che ha fatto i soldi negli anni settanta e che, sposato bene, è entrato nel salotto buono delle colline torinesi.

 

S.S. … ed è proprio questo che sulla carta poteva rendere il film molto interessante. Questa volta a essere rappresentati sono i piccoli e medi imprenditori, responsabili nei confronti dei loro dipendenti fedeli. Imprenditori pervicaci e orgogliosi (“Io non mollo mai!”), figli di generazioni dedite all’industria manifatturiera, che tentano di tutto pur di pagare a fine mese lo stipendio ai loro dipendenti e di non licenziare operai che in qualche caso risalgono alla generazione precedente e trattano loro in modo paterno. Questa imprenditoria un po’ spaesata e un po’ stordita durante la crisi rappresenta il simbolo di un’economia nazionale più morta che viva. E in questo la Torino del film fa da specchio al crollo dell’Italia intera.

 

G.C. A me ha colpito molto il fatto che, pur di salvare la fabbrica, l’ing. Ranieri (interpretato con “una bella grinta” da Pier Francesco Favino) arrivi perfino a giocare un bluff nei confronti dei possibili acquirenti tedeschi, assoldando degli attori e facendo credere che ci sia un interesse giapponese nei confronti dell’azienda. Come già nel bel film di Lars von Trier Il grande capo, quella sequenza evidenzia il legame stretto fra i giochi dell’economia e il teatro. Forse, è una sequenza che ci ricorda come anche in economia conti non solo la realtà di quel che vali e di quel che sei, ma la percezione che gli altri hanno di quel che vali e di quel che sei…

 

S.S. A me invece ha colpito molto lo splendido monologo iniziale del vecchio industriale che – rassegnato – ha già venduto la sua azienda agli stranieri, e che spiega al più giovane Ranieri come la crisi non sia che il rovescio della medaglia dell’ingordigia dell’Occidente, reo di avere favorito con il proprio cieco egoismo l’ascesa delle “tigri” orientali. Detto questo, devo però rilevare anche i molti stereotipi in cui involontariamente si adagia la sceneggiatura, specialmente nei caratteri secondari: l’infido avvocato, finto amico; la suocera ricca, esageratamente odiosa e villana; il banchiere troppo servile con i potenti e troppo sbruffone con i deboli; gli altoborghesi cattivi, i poveri operai buoni; il garagista rumeno povero-ma-felice amante dell’ereditiera (ma quando mai?); l’idea familista dell’azienda; la crisi ridotta a poco più di qualche immagine di scioperanti.

E poi il solito marito, troppo concentrato sul lavoro, tardivamente impegnato a pedinare la moglie fedifraga (quante volte l’abbiamo già incontrato sullo schermo?). La caratterizzazione è molto leziosa e spesso conduce a goffaggini inverosimili: la moglie che totalmente nuda si intoeletta davanti allo specchio indossando evidenti scarpe col tacco a spillo (… i ricchi si comportano così?); il marito che, dopo aver subito un incidente automobilistico quasi mortale, si siede con la moglie a un ristorante stellato e inizia un’equilibrata e razionale serenata romantica; la raffigurazione dei benestanti con macchine costose, smoking inamidati, aziende vinicole, autisti, maggiordomi e ville da sogno.

 

G.C. È vero. Devo anche dire che a me ha deluso un po’ il fatto che la dimensione privata dei due protagonisti prenda il sopravvento, facendo perdere lucidità all’opera e indebolendone il contenuto critico. Gli sviluppi ossessivi della relazione coniugale del protagonista rendono sempre meno coerente il tema della crisi economica e dell’azienda che si sviluppa nel primo tempo, e ribaltano il nucleo narrativo. Tanto che la disfatta esistenziale prende a poco a poco il posto della disfatta imprenditoriale. Certo: del film resta soprattutto il gran lavoro sulla luce di Arnaldo Catinari, quel clima da “grande freddo” che avvolge i due protagonisti e che fa di Torino una città socialmente chiusa, provinciale e altera, con grandi palazzi sabaudi ma anche con sacche di povertà e di degrado sempre più estese. Per il resto, dal nostro punto di vista, mi pare che il film sia soprattutto un’occasione mancata.