E&M
2012/2
Indice
Editoriale
In primo piano
Rilevanza e rigore
Lo spirito di Anassimandro e il dialogo tra impresa e ricerca nel management
Il PhD in Business Administration and Management dell’Università Bocconi
The Cognitive and Neuropsychological Foundations of Strategic Decision-Making
La finestra sul mondo
Il Diversity Management
Temi di Management
Airport retailing reengineering: la conquista del valore economico per l’impresa-aeroporto
Il rapporto banca-impresa: dal conflitto alla logica win-win
Il mercato delle regole
Fuoricampo
Articoli
Detenere liquidità genera valore? Benefici, costi ed evidenze dall’Italia
I Direttori Generali dei Comuni tra (City) management, politica e governance locale
Storie di straordinaria imprenditorialità
Fotogrammi
MBA e manager: ma è veramente crisi?
Scarica articolo in PDFLa crisi del debito non sembra proprio dar tregua a nessuno. Dopo aver travolto aziende, risparmiatori e Stati, i fendenti di spread e l’atteggiamento “orso” di grandi investitori impauriti da quanto sta succedendo in Europa sembrano adesso prendersela anche con il prodotto bandiera dell’immagine delle business school di tutto il mondo nonché roccaforte dei loro ricavi, il Master in Business Administration (MBA), ovvero il programma di formazione che da sempre prepara la classe dirigente di multinazionali di tutti i paesi. Il Financial Times qualche giorno fa titolava “Numbers Crunch for MBAs” e accompagnava a un articolo, che sono certo abbia reso il sonno più difficile a dean e deputy dean di molte scuole internazionali, la foto di una studentessa che legge degli appunti da sola in un’aula deserta.[1]
Pochi giorni dopo, in seguito alla pubblicazione dell’ultimo ranking delle business school mondiali a opera del Financial Times, che per la prima volta in tanti anni ha osservato un arresto nella crescita di molti MBA europei (diciotto su ventitré sono addirittura scesi nella classifica dei top 100, che attribuisce molta importanza sia alla differenza tra salario in entrata e in uscita degli studenti sia alla crescita salariale nel triennio successivo), il Wall Street Journal seguiva con “Economy Slows Application to Europe’s Business Schools”.[2]
Questo sintomo, decisamente acuto, ben si sposa con il malessere che da alcuni anni vige in parte del mondo accademico, che con toni più o meno accesi ha decretato una sorta di indebolimento strutturale dei programmi MBA. Emblematico in proposito il titolo del bel libro di uno dei vecchi guru della strategia aziendale nonché uno dei principali accusatori del modello vigente, Henry Mintzberg: Managers, not MBAs.[3] Mintzberg propone un’analisi impietosa del modello americano di MBA, caratterizzato secondo l’autore da un’enfasi eccessiva su razionalità e tecnicismi, che risulterebbero completamente inadeguati alla complessità del mondo professionale moderno. Oggi l’MBA – sostiene Mintzberg – aiuta solo ad alimentare la spocchia di studenti già di per sé molto ambiziosi che, consolidato ulteriormente il proprio ego, rischiano di fare danni irreversibili a un mondo dominato dal nuovo capitalismo finanziario. Altrettanto accusatorio, seppur in modo velato, lo sforzo dell’autore dell’articolo più citato nel campo del management, Jay Barney. Barney si è cimentato nella scrittura di un divertente romanzo – altro titolo inquietante per i nostri dean What I Did not Learn in Business School. How Strategy Works in the Real World – in cui il giovane protagonista, Justin Campbell, fresco di un importante MBA conseguito in una prestigiosa università americana, viene assunto a Chicago da una famosa azienda di consulenza e si trova a vivere la prima vera esperienza da neograduato alla guida di un team eterogeneo su un cliente complesso. Vi risparmio la scoperta del giovane Justin, che è però malcelata dal titolo del libro.[4]
L’MBA quindi è in crisi? Il tema in oggetto, è bene osservare, non ha un risvolto solamente accademico. Ogni anno le università sfornano migliaia di MBA. Aspetto più importante, gli MBA rappresentano una buona porzione di manager in carriera di tutte le più grandi multinazionali, e una crisi strutturale del prodotto che li forma, o comunque del modello portante che li sostiene, interessa non solo l’accademia, ma anche il mondo delle imprese. In questa nuova fase che sta vivendo il capitalismo industriale, un MBA che non funziona o è in crisi riteniamo sia un problema significativo anche dal punto di vista istituzionale.
Ci chiedevamo, dunque, è vera crisi o solo un momento di sbandamento? Stiamo entrando in un’impasse o stiamo semplicemente navigando in mari decisamente agitati? Tesi di queste pagine è che non solo l’MBA non è entrato in una crisi strutturale, ma, anzi, alla fine della congiuntura l’MBA in quanto tale potrà uscirne sostanzialmente rafforzato. Lo farà se sarà in grado, da prodotto leader e storico di un mercato divenuto maturo, di imparare da recenti errori e da importanti segnali dell’ambiente circostante. È importante cioè che vengano valutati con attenzione sia i sintomi sia il momento di cambiamento dello scenario che in parte stiamo oggi vivendo, destinato in futuro a modificare ulteriormente il mondo corporate e la società economica di cui l’MBA si nutre.
Per presentare questa tesi ho organizzato questo editoriale in tre momenti. In un primo racconterò brevemente cosa sia un MBA. Illustrerò in seguito l’attuale scenario di cambiamento e, da ultimo, cercherò di descrivere alcune risposte che stanno emergendo da parte di diverse business school per superare la congiuntura sfavorevole.
Cos’è un MBA?
L’MBA nasce negli Stati Uniti. Come noto, nei paesi di cultura anglosassone l’università porta a una specializzazione meno marcata di quanto avvenga nel contesto europeo e in gran parte degli Stati di altri continenti. I college propongono una specializzazione composta da soli “major” e “minor”, che non aiutano in maniera sostanziale a entrare nella complessità del funzionamento di un’impresa. Per questa ragione, a inizio del secolo scorso le università americane hanno sentito innanzitutto il bisogno di creare un prodotto post laurea in grado di aiutare ad apprendere la complessa professione del manager, che già allora rappresentava il principale mercato di sbocco di gran parte dei laureati universitari, indipendentemente dalla disciplina di specializzazione. Hanno quindi congiuntamente colto l’opportunità di creare un vero e proprio contenitore – le business school – che accogliesse questo tipo di prodotto con le adeguate strutture tecniche (per esempio un corpo docente dedicato) e amministrative (inclusive di servizi di supporto di una clientela che acquista un prodotto diverso). In particolare due università tra le otto della cosiddetta Ivy League, e cioè Dartmouth College e Harvard University, hanno sentito il bisogno di fondare, rispettivamente, Tuck School of Business e Harvard Business School e di far partire il primo Master in Business Administration più di un secolo fa, precisamente nel 1900 la prima e nel 1908 la seconda.
Come si fa un business? Come lo si sostiene? Come si crea e si difende nel tempo dai concorrenti il valore creato per un mercato grazie ai propri prodotti? Sin dall’inizio, è chiaro che un tipo di insegnamento di questa natura richiede uno sforzo diverso da parte del docente e del discente: la lezione non può essere svolta dall’alto (la cattedra che conosce a dovizia il sapere) verso il basso (l’aula che invece non sa e deve quindi imparare quello che le viene raccontato in modo passivo), ma attraverso l’interazione. È altresì chiaro che per stimolare l’interazione è opportuno far ricorso non solo a una ricca esemplificazione casistica, ma anche a contesti ad hoc studiati e progettati per stimolare il problem solving.
A questo primo imprinting didattico che contraddistinguerà per sempre MBA e business school fa seguito un primo importante risultato: il successo di mercato che rende questo prodotto un vero e proprio standard. Il fenomeno di imitazione isomorfica che segue il successo di HBS e Tuck fa infatti diffondere letteralmente a macchia d’olio il prodotto ben oltre i confini delle scuole Ivy della East Coast, per raggiungere prima il Midwest e poi il Sud e la California. Così facendo, si alimenta un circolo virtuoso nell’ambito dei percorsi di carriera delle prime grandi imprese americane: per fare un salto marcato di professione o per far ripartire la propria “tenure” in una professione diversa è opportuno iscriversi a uno di questi corsi, che si propongono di insegnare la cosa più difficile: non la conoscenza disciplinare, ma la conoscenza applicata.
In Europa il prodotto sbarca tra gli anni sessanta e settanta con scuole come Insead e London Business School, ma si consolida soprattutto negli anni settanta. L’MBA di SDA Bocconi School of Management, per esempio, nasce grazie all’incredibile spirito imprenditoriale del compianto Claudio Dematté e di un gruppo storico di docenti di Business Administration già nel 1975 – bellissimi e romantici i racconti di colleghi senior che con Claudio hanno vissuto quei momenti di progettazione del nostro primo MBA.
Ma sono gli anni ottanta, gli anni della prima vera globalizzazione dell’economia, gli anni dello yuppismo e delle prime grandi multinazionali che rendono l’MBA un vero e proprio punto di riferimento per laureati già in carriera anche in Europa e in tutto il resto del mondo. Per fare un salto di carriera è opportuno imparare la professione non solo sul campo, ma con dei tutor accademici che permettano di far fare l’agognato salto di qualità sia nel salario sia nella crescita personale. In quegli anni si vanno anche a consolidare quelli che diverranno i mercati traino degli MBA: la consulenza strategica e l’ampio mondo del finance, che rappresentano le vere e proprie stelle nel panorama delle professioni sia dal punto di vista del ruolo che rivestono in economia sia dal punto di vista del valore di mercato delle professioni che propongono. E anche quando gli anni novanta hanno accresciuto la verve imprenditoriale degli studenti MBA con le opportunità legate al mondo di Internet (memorabile nei miei ricordi di quando studiavo presso la Sloan School of Management di MIT l’intervento del CEO di Citybank con l’aula semivuota in quanto gran parte degli studenti era in uno Starbucks con il proprio pc a inventarsi un business model per lanciare un’iniziativa di e-commerce) ci ha subito pensato la bolla speculativa a rimettere in carreggiata gli studenti. Gli acronimi internettiani allora in voga di B2B e B2C – espressioni rispettivamente di attività imprenditoriali Business to Business e Business to Consumer, a seconda che si rivolgessero a una domanda industriale o ai consumatori – subito dopo la bolla di Internet venivano ribattezzati dagli studenti Back to Banking e Back to Consulting, a conferma di un controesodo verso i mercati storici e di riferimento dell’MBA.
Qualcosa è cambiato
Con l’avvento del nuovo millennio la solidità e leadership dell’MBA ha cominciato a essere minacciata. Crisi finanziaria a parte, tre ci sembrano i vettori di cambiamento che hanno più di altri scalfito le certezze costruite attorno all’MBA: le scelte di mercato delle business school, il cambiamento istituzionale in USA e in EU e, da ultimo, il nuovo capitalismo globale. Vediamole da vicino.
Il successo dell’MBA ha portato i dean delle business school a fare quello che insegnano: ampliare il mercato di un prodotto vincente attraverso la brand extension del proprio portafoglio prodotti. Ecco quindi che tutte le scuole cominciano già negli anni ottanta a proporre MBA part time, ovvero corsi MBA serali, offerti a studenti che non se la sentono di dedicare uno o due anni di tempo pieno a comprendere a 360 gradi la vita in azienda e che non vogliono abbandonare la propria professione. A fine anni novanta, grazie anche all’ausilio delle nuove tecnologie che permettono di tenere corsi a distanza, nascono gli Executive MBA, ovvero prodotti erogati attraverso moduli face to face e moduli gestiti in remoto. Nel nuovo millennio alcune scuole, in particolare in Europa, sperimentano gli Specialized MBA in Finance, in Marketing, in Strategy. Cioè in quelle discipline dove più ricca è la domanda delle business school. I prodotti, è bene osservare, non insistono necessariamente sullo stesso mercato dell’MBA, che nel frattempo tuttavia acquisisce la nuova denominazione di Full Time MBA. Non insistono poiché si rivolgono a segmenti di mercato attigui, ma in buona parte differenti: per esempio, l’MBA part time ha un mercato locale. Gli Executive MBA tendono a proporsi a partecipanti più senior; così come, nel caso vengano lanciati Specialized MBA, questi tendono a reclutare studenti più giovani e quindi meno esperti dei partecipanti al classico MBA. I prezzi di mercato riflettono questa segmentazione. Non mi soffermo sull’importanza e la bontà di questi prodotti, ma osservo solo una cosa. È indubbio che questa proliferazione, oltre a creare un po’ di confusione a un mercato non sempre attento, ha certamente creato anche una forma di cannibalizzazione.
Il secondo vettore è legato al cambiamento istituzionale vissuto in diversi mercati. In particolare, in USA ci si è resi conto che la business administration è troppo importante per essere lasciata ai soli corsi post graduate. Ecco quindi che, mentre in passato sussistevano solo major e minor in economia, da qualche anno si avviano major e minor in business administration. Le stesse business school incominciano una corsa per lanciare corsi undergraduate che vengono impiegati dalle rispettive università per produrre major in business administration. Interessante osservare che questi corsi sono evidentemente considerati per immagine e mercato molto importanti. Docenti come Michael Porter di Harvard Business School e Margie Peteraf di Tuck School of Business (giusto per fare esempi di persone che hanno influenzato pesantemente il campo del general management) vengono sollevati dal loro impegno presso i corsi MBA per insegnare nei corsi undergraduate rispettivamente alla Harvard University e a Dartmouth. Si assiste a un proliferare di testi di general management, di strategy, di accounting e di finance per studenti college del mercato americano. Tutto ciò non crea necessariamente problemi all’MBA, ma esattamente come la differenziazione marcata che deve avere oggi un MBA (a questo punto full time) rispetto a vari Executive MBA, MBA part time e Specialized MBA, certamente anche in USA, mercato che storicamente non presentava alcun insegnamento di general management a livello college, diviene necessaria una chiara differenziazione rispetto a quanto fatto nei major e minor di business administration.
Con riferimento sempre a questo secondo vettore istituzionale, in Europa si verifica una situazione anche più complessa. Come già osservato, l’MBA non è un prodotto nato in Europa, ma vi è stato importato. A differenza degli USA, da sempre l’Europa presenta una università specialistica, in cui si consegue un titolo di laurea in singole discipline quali economia, economia aziendale, scienze delle comunicazioni e così via. L’MBA ha da sempre dovuto marcare in modo preciso i confini di apprendimento per evitare di creare confusione. Oltre al vantaggio di offrire una specializzazione in business administration a chi ha fatto università lontane dal campo economico, lo storico elemento di differenziazione dell’MBA nel mercato europeo per catturare l’attenzione di chi avesse seguito un corso in economia si è sempre ricondotto alla conoscenza applicata. In questo contesto, la riforma universitaria attivata in Europa in seguito all’accordo di Bologna alcuni anni orsono non ha certamente fatto bene alla comprensione da parte del mercato di cosa sia una business school e un MBA in particolare. Mentre l’intento era assai nobile, ex post esso ha realizzato un cambiamento lontano dall’obiettivo. L’idea di produrre una separazione tra undergraduate e graduate era infatti intesa a stimolare una pausa legata alla fondamentale esperienza lavorativa tra i due momenti formativi e, così facendo, avrebbe dovuto in linea teorica favorire programmi come gli MBA. L’implementazione della riforma ha invece portato alla creazione di corsi triennali e di corsi biennali (peraltro tradotti in inglese Master of Science), in cui questi secondi vengono nella sostanza agganciati ai primi (troppo corti) senza lasciare spazio alla fondamentale esperienza professionale tra i due momenti didattici. Cosa anche più penalizzante è il sistema di debiti formativi, che non permette quella flessibilità richiesta dal mercato e tipica del mondo anglosassone. Ecco quindi che il biennio seguito da uno studente è in molti casi lo stesso corso di laurea del triennio. De facto, sono aumentati di un anno i vecchi corsi di laurea quadriennali e si è aggiunto un titolo al curriculum accademico compiuto da uno studente: al dottore triennalista facciamo seguire oggi il titolo di dottore magistrale. (Per notare la distanza con i paesi anglosassoni presi a riferimento nella riforma, si noti che il titolo di doctor all’estero viene conferito solo in seguito a un PhD.) Quello che invece non si è andato aggiungendo è la fondamentale conoscenza applicativa in seguito all’esperienza che viene offerta dai programmi MBA. Bene quindi per i programmi MBA: tutto ciò non lede la bontà dei prodotti, che per natura e contenuto continuano a offrire qualcosa di assolutamente unico nel panorama formativo. Peccato però per l’accresciuta complicazione di percorsi di crescita personali e soprattutto per la confusione terminologica nel mercato.
Un nuovo MBA per un nuovo mondo
Nonostante l’ampliamento dei prodotti in portafoglio e il cambiamento istituzionale in US e EU abbiano inferto dei colpi all’MBA e non abbiano quindi certamente fatto gioco alla leadership del programma, contenendone anzi il mercato, riteniamo tuttavia che l’elemento di cambiamento più significativo sia rappresentato dal terzo dei vettori summenzionati: il nuovo capitalismo globale.
Paradossalmente, oltre a costituire una minaccia, questo terzo vettore, a giudizio di chi scrive, rappresenta la vera nuova linfa di cui si può nutrire l’MBA per confermare la sua storica leadership nell’ambito dei programmi di formazione post graduate. È infatti il nuovo capitalismo globale che dischiude nuove porte di differenziazione e di innovazione all’MBA. Il capitalismo della neoimprenditorialità – eccezionale l’affermazione di Larry Summers, presidente di Harvard University, che si rivolge ai fratelli Winklevoss quando accusano Zuckerberg di aver loro sottratto l’idea di Facebook, sostenendo: “At Harvard students believe that inventing a job is better than finding a job”.[5] Il capitalismo del “bottom of the pyramid”, dove le innovazioni dei paesi emergenti guideranno i paesi occidentali. Il capitalismo dove il mondo della finanza dovrà bersi una forte dose di etica per tornare a essere credibile agli occhi dei risparmiatori di tutto il mondo.
Tre sono, in particolare, gli aspetti che porteranno a una mutazione significativa del lavoro dei manager e che quindi richiedono riflessioni precise in merito ai curricula degli MBA.
Il leader di oggi, rispetto al manager di ieri, deve essere ambidestro. Lo deve essere in quanto deve saper coniugare alla gestione del presente la capacità di una visione del futuro che cambia sistematicamente. A uno spirito prettamente manageriale deve aggiungere una dose di conoscenza e di spirito imprenditoriale schumpeteriano. L’azienda moderna non vive di pianificazione a lungo termine (il vecchio long range planning strategico), come l’azienda di successo degli ultimi quarant’anni, ma è un organismo che si adatta e cambia continuamente. Per alimentare questa capacità ambidestra il pensiero razionale e quello creativo del cervello devono essere stimolati continuamente nei leader del futuro. La natura applicata del vecchio MBA deve quindi cercare di percorrere nuove strade: non basta più la lecture brillante di un docente efficace. Non basta neanche il caso didattico à la Harvard. Ci vuole anche un risvolto empirico più attivo per lo studente.
Indipendentemente dalla capacità ambidestra che sa coniugare visione ed esecuzione, i manager di oggi devono anche imparare ad apprendere. Per quanto possa sembrare paradossale, un programma MBA che deve fornire certezze deve anche saper fornire l’incertezza necessaria per stimolare il saper apprendere e il saper cambiare. E questa è una seconda sfida che le business school devono cercare di trasferire nei loro programmi, in particolare gli MBA. Nel panorama di certezze che venivano insegnate ieri (di cui il famoso modello delle cinque forze di Porter è forse l’esemplificazione quintessenziale), devono iniettare oggi la capacità di apprendimento che il mestiere di manager in futuro richiederà sempre di più. Per far questo sarà sempre più necessario far leva su una faculty integrata: combinare i cervelli che producono la conoscenza (scienziati e ricercatori) ad abili practitioner “di successo” che hanno quella conoscenza tacita che fa capire i meccanismi del perché, a volte irrazionale, delle cose, il rule of thumb, dicono i nostri colleghi anglosassoni. Da ultimo, ai manager di oggi è richiesta una capacità di leadership che implica doti di comunicazione, motivazione e consenso sempre più spiccate. I leader di oggi devono, da un lato, aver le idee sufficientemente chiare per costruire una visione del futuro per sé, ma devono anche saper comunicare e motivare i team che li circondano. Questa capacità può essere maturata solo attraverso un percorso integrato. A differenza di quanto accadeva in passato, in cui ad attività di contenuto curriculare venivano associate attività extracurriculari, i programmi MBA dovranno sempre più saper combinare sinergicamente la conoscenza insegnata con i servizi che offrono finalizzati alla crescita delle soft skill dei propri studenti.
Queste riflessioni, che naturalmente esprimono soprattutto il punto di vista di chi scrive, possono essere evinte in misura più o meno esplicita e più o meno articolata e ricca dalla direzione di cambiamento di molti programmi MBA e dalle interviste rilasciate da diversi dean e deputy dean di tante scuole di business. È peraltro auspicabile che queste scelte vengano anche supportate dai sistemi di certificazione della qualità dei programmi. Per esempio, parrebbe fondamentale che i ranking – pur con tutte le loro anomalie e idiosincrasie – assorbissero sempre di più questi stimoli, anziché insistere nel considerare il delta salariale conseguito dagli studenti graduati come parametro fondamentale per decretare l’importanza e il successo di un programma MBA.[6]
Tornando quindi al nostro titolo: ma esiste veramente una crisi strutturale? No, riteniamo di no. L’MBA vivrà una seconda giovinezza e potrà dimostrare di essere, oltre al prodotto storico, l’indiscusso standard di mercato. Per usare una metafora legata al mondo dell’innovazione, a differenza di quanto succede nei settori dell’elettronica e del farmaceutico, dove innovazioni radicali si succedono ad altre innovazioni radicali facendo mutare sistematicamente lo standard di mercato, ci sentiamo di affermare che l’MBA ricorda molto di più il settore automobilistico, il cui standard è in sostanza rimasto fedele nel tempo all’automobile di Henry Ford. La differenziazione dei prodotti e la segmentazione del mercato sono indubbiamente aumentate, ma da un punto di vista formativo, per quanto concerne la professione di manager, l’MBA rimane lo standard di riferimento. È chiaro che, per proseguire la metafora, i tempi richiedano innovazioni importanti, come il motore a idrogeno, e design più coerenti all’urbanistica delle nuove città e all’immagine della nuova società; ma queste innovazioni non ledono la struttura di prodotto e il mercato di riferimento. L’MBA continuerà cioè a rimanere il passaporto per fare carriera nelle imprese multinazionali. Ma è anche auspicabile che per consolidare il suo successo diventi sempre di più un vero laboratorio di apprendimento, in grado di rendere economia applicata e business administration veramente a servizio di una società migliore.
Reisberg L., “Economy Slows Application to Europe’s Business Schools”, The Wall Street Journal, February 2, 2012.
Mintzberg H., Managers not MBAs. A Hard Look at the Soft Practice of Managing and Management Development, Berrett-Koehler Publishers, San Francisco, 2004.
Barney J., Clifford T.G., What I Did not Learn in Business School. How Strategy Works in the Real World, Harvard Business School Press, Boston, 2011.