E&M
2011/1
Indice
Editoriale
Perché l’orso polare ci commuove più di un cassintegrato? Sostenibilità ambientale e umana
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Focus intervista
Quando la leadership è donna. Intervista a Mara Carfagna, ministro per le Pari Opportunità
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Il mercato del private equity e degli LBO
Il Diversity Management
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Marketing internazionale e crisi economica
Strategie di brand extension: il caso Pirelli Pzero
Acquisto d’impulso o programmato? Il ruolo del visual merchandising
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Il brand Milano attraverso la moda e il design. Settimane della Moda e Salone del Mobile a confronto
Qualità della revisione contabile e tipo di revisore. Il caso delle società italiane non quotate
Storie di ordinaria imprenditorialità
Fotogrammi
Perché l’orso polare ci commuove più di un cassintegrato? Sostenibilità ambientale e umana
Scarica articolo in PDFQuesto 2011 si apre con una notizia che tutti (tranne forse i produttori dell’oggetto in questione) giudicano positiva: la messa al bando nel nostro paese dei sacchetti di plastica con i quali per decenni abbiamo trasportato la spesa fatta in un qualsiasi supermercato e anche altrove. Anche noi, ovviamente, siamo tra coloro che plaudono all’iniziativa. Anche noi, infatti, ci siamo commossi davanti alle immagini dei cetacei spiaggiati e dolorosamente agonizzanti anche per l’ingestione dei famigerati sacchetti scambiati per cibo invitante, da loro come dalle povere tartarughe e da intere specie di uccelli marini, tutti destinati a uguale triste sorte. Nei paesi ricchi e sviluppati come il nostro, una certa sensibilità ambientalista è ormai diffusa se non addirittura di moda. Ed essere verdi fa sentire molti ancora civilmente impegnati, tanto quanto un tempo altri colori. Dal rosso al nero. Tutto bene, allora? Lo spirito del Natale, passato da poche decine di giorni suggerirebbe di sì: i buoni propositi sono sempre i benvenuti all’inizio di un nuovo anno. Soprattutto se accompagnati da buone e coerenti azioni. E quelli relativi alla protezione dell’ambiente sono utili e buoni quasi per definizione: basta farsi una passeggiata in una strada qualsiasi del centro di Milano respirando a pieni polmoni per rendersene conto. Ma ogni volta che inizia un nuovo anno, qui rinnoviamo sempre anche il proposito di andare più a fondo nelle cose, di affinare lo sguardo e migliorare la nostra capacità di distinguere e capire. Grattando la superficie verniciata di un bel verde brillante e di grande impatto mediatico, sorge infatti un dubbio. Le migliori parole per esprimerlo le abbiamo trovate in un articolo molto interessante che vi proponiamo tradotto qui di seguito, facendo un’eccezione alla nostra regola che vuole pubblicato qui solo materiale originalmente pensato per questa rivista. Lo ha scritto uno dei più influenti ricercatori nelle scienze dell’organizzazione: il professor Jeffrey Pfeffer, dell’Università di Stanford negli Stati Uniti. Si tratta di un intellettuale raffinato, che si è occupato per molti anni e in molti articoli e libri scientifici soprattutto del tema del potere sia all’interno delle organizzazioni sia nel rapporto tra imprese. Il professor Pfeffer, persona dal carattere non esattamente facile, è tra i pochi studiosi di management capaci di lanciare periodicamente un sasso nello stagno del quieto vivere accademico, stimolando vivaci dibattiti e non facili prese di coscienza riguardo a problemi importanti. Questa volta la sintesi della sua provocazione è riassumibile nella domanda di ricerca che propone all’attenzione dei suoi colleghi e di tutti noi: “perché gli orsi polari, per esempio, o i contenitori del latte, sono più importanti delle persone, non solo in termini di attenzione della ricerca, ma anche come obiettivo delle iniziative delle imprese?”.
Che questa sia una domanda seria e interessante lo dimostrano i dati che il collega americano riporta relativamente ai costi sociali ed economici provocati dai danni alla salute fisica e psichica delle persone inferti loro da cattive condizioni di lavoro (stressanti, in conflitto rispetto alla vita privata e familiare, caratterizzate da forti disuguaglianze o da assenza di tutele) o da eventi traumatici come i licenziamenti. Si tratta di costi notevoli, che non impallidiscono affatto rispetto a quelli provocati dai danni all’ambiente fisico, e peraltro sottostimati visto che la gran parte degli studi citati si riferisce prevalentemente ai soli Stati Uniti d’America e al mondo occidentale sviluppato più in generale. Perché, allora, ci preoccupiamo di più dell’ambiente rispetto all’effetto che hanno sulle nostre vite le decisioni relative alle condizioni e alle modalità di lavoro? Perché le imprese sono pronte a vantare i loro successi nella riduzione delle emissioni di CO2 e molto meno propense a impegnarsi, investendo le stesse risorse umane e materiali, per il miglioramento delle condizioni di vita dei propri lavoratori? Perché la ricerca più avanzata è impegnata a dimostrare quanto positivo sia l’impatto sui profitti aziendali delle politiche favorevoli all’ambiente, e più in generale di responsabilità sociale, e trascura di chiedersi se risultati altrettanto positivi (e non solo per le imprese ma per la società in generale) potrebbero essere raggiunti mettendo al centro della gestione il fattore umano?
Sono domande che tutti dovrebbero porsi: manager, imprenditori, lavoratori e loro rappresentanti sindacali, politici e accademici. E alle quali, come dimostra il professore di Stanford nel suo articolo, è possibile dare risposte interessanti. In primo luogo l’ambiente fisico (qualità dell’aria, del suolo, dell’acqua ed equilibrio tra i diversi regni naturali secondo la prospettiva dello sviluppo e del mantenimento armonico di Gea, del nostro pianeta) ci riguarda tutti e pare essere immediatamente responsabile delle nostre condizioni e prospettive di vita. Condizioni e problemi di lavoro, invece, o ci toccano di persona per esperienza diretta di cosa vuole dire una catena di montaggio o rimanere senza lavoro a quarant’anni, o sembrano non riguardarci affatto. Di ambiente poi si parla diffusamente nei media, rendendo questo tipo di informazioni, dagli sconvolgimenti climatici alla scomparsa di specie animali, fino ai livelli di inquinamento atmosferico riportati quotidianamente nelle pagine locali dei giornali, disponibili nella mente di ciascuno di noi e in grado di impressionarci in modo durevole. Cosa che non accade invece, per esempio, per le oltre mille morti all’anno a causa del lavoro che accadono ancora oggi in Italia, e delle quali non si parla mai abbastanza, nonostante nuove e meritevoli campagne di sensibilizzazione radiotelevisive. L’ambiente è vissuto come problema collettivo, il lavoro come questione individuale, privata. Perdere il lavoro, doverne accettare uno degradato o pericoloso, essere costretti a rinunciare a parti importanti della propria vita, a cominciare dalla propria famiglia, per essere più produttivi, sono visti come eventi personali e frutto di libere scelte. Non si è studiato abbastanza, non si è stati disponibili a trasferirsi per inseguire la giusta opportunità, non ci si è accorti per tempo che il proprio settore di impiego era in netto declino tecnologico o aggredito dalla concorrenza di paesi lontani, dove la manodopera costa poco anche perché spesso non ha alcun diritto riconosciuto. Non è difficile dimostrare, come fa Pfeffer, che questo tipo di attribuzione causale, secondo la quale dietro il destino di lavoro vi sono esclusivamente scelte individuali, espresse liberamente in liberi mercati, è il frutto di una visione ideologica del mondo e può essere molto distante dalla realtà. Abbastanza distante da meritare di essere rivista criticamente, andando alla ricerca di dati a supporto di ipotesi e tesi alternative. Se c’è un motivo per il quale abbiamo voluto cominciare il nuovo anno con questo tipo di riflessioni e di stimoli, è proprio nel volere ribadire il rifiuto di un nuovo trionfo dell’ideologia, per affermare invece il primato della conoscenza basato sulla ricerca sperimentale della verità. Non viviamo nel migliore dei mondi possibili, non ancora, almeno, e sicuramente non dappertutto. Non c’è un ordine inalterabile delle cose, per il quale agli uomini tocca solo subire un destino deciso altrove e spesso contrario alla possibilità di autorealizzazione e sviluppo. La produttività e il profitto non sono gli unici parametri sui quali è possibile misurare lo sviluppo di una civiltà, magari ben temperati dal rispetto per l’ambiente, dalla apprensione per il cormorano impregnato di petrolio o per la balena cacciata ancora crudelmente da qualche baleniera giapponese, oltre centocinquanta anni dopo Moby Dick. Abbiamo uno straordinario bisogno di riconoscere la natura ideologica di gran parte del dibattito politico e sociale che, nel nostro paese in particolare, ha come oggetto temi fondamentali, e per questo meritevoli di un approccio più basato sul dialogo sostenuto da dati scientificamente validi.
Abbiamo bisogno di fatti che stimolino opinioni innovative, invece di opinioni di parte alla ricerca di prove, verosimili o fabbricate ad arte, in grado di corroborarle, mentre si nasconde qualunque evidenza contraria. E ne abbiamo bisogno ovunque: nelle nostre famiglie quando dobbiamo prendere decisioni importanti, per esempio, circa l’avvenire dei nostri figli, così come nelle nostre aziende o nei comuni e nelle regioni in cui viviamo. Con un orientamento simile si sarebbero potute affrontare utilmente questioni spinose come l’accordo Fiat sull’organizzazione del lavoro di Mirafiori in vista dell’implementazione della joint-venture con Chrysler. Voluto dall’azienda e da alcune componenti sindacali, e fieramente avversato da altre, preoccupate (in ipotesi di loro perfetta buona fede) dei costi individuali e sociali che la nuova organizzazione del lavoro potrebbe comportare. Costi che potrebbero più che bilanciare i benefici attesi grazie a nuovi investimenti a sostegno dei livelli di occupazione nel nostro paese e in un settore difficile come quello automobilistico. Sarebbe davvero da illuministi ingenui o da inguaribili riformisti proporre di impegnare le parti che hanno firmato l’accordo a sottoporre a una verifica scientificamente rigorosa, trascorso un lasso adeguato di tempo, le conseguenze che la nuova organizzazione del lavoro ha avuto anche sulla salute e sulla vita dei lavoratori, mettendole per esempio a confronto con quanto accade in stabilimenti dove valgono regole diverse pur nella somiglianza dei processi produttivi? E chiedere che, sulla base di questi risultati, le stesse parti collaborassero poi per ripensare all’insieme di diritti e doveri sul posto di lavoro e per trovare tutti i correttivi utili a migliorare su più parametri, inclusi ovviamente quelli economici e della produttività, la qualità del lavoro oltre la sua quantità e il suo costo? Forse stiamo davvero peccando di irrilevante utopia nell’era della globalizzazione trionfante. Ma beati gli ingenui e gli inguaribili ottimisti della volontà, se almeno a loro è ancora concessa la possibilità di non rassegnarsi al mondo così come è. Buon anno!