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2008/4
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Il boss, il manager e il traditore
Il film di Matteo Garrone Gomorra, premiato al Festival di Cannes, porta sullo schermo l’omonimo romanzo di Roberto Saviano semplificandone la complessa drammaturgia, ma anche mettendo a fuoco le analogie organizzative e procedurali fra economia legale ed economia criminale.
Gomorra
Regia: Matteo Garrone
Interpreti: Toni Servillo, Gianfelice Imparato
Italia, 2008
Un formicaio umano nell’immensa periferia di Napoli. Cinque storie di ordinaria criminalità che si intrecciano sullo schermo in un crescendo di spietatezza e di ferocia. Uno sguardo asciutto, lucido, non giudicante, che recupera l’antica lezione neorealista per raccontare un pezzo non marginale dell’Italia di oggi. Insignito del Gran Premio della Giuria all’ultimo Festival di Cannes e premiato da un successo di pubblico sorprendente per un film di questo tipo (oltre 10 milioni di euro di incassi), Gomorra di Matteo Garrone sorprende, spiazza, fa discutere. E lo fa rinunciando del tutto all’epos e al pathos. La sua drammaturgia è coerentemente de-epicizzata: non c’è nulla di eroico nelle gesta dei camorristi di Scampia e di Secondigliano. Né ci sono antagonisti positivi con cui lo spettatore si possa identificare. Non ci si commuove mai, di fronte alle storie e ai personaggi che il film mette in scena. Eppure si resta lì, come magnetizzati dalle immagini, e coinvolti in un rapporto con quel che si vede che si articola su pulsioni diverse da quelle – facilmente patemiche, banalmente commoventi, prevedibilmente catartiche – su cui lavora spesso la tv. Gomorra non consente né l’immedesimazione né l’indignazione. Il film di Garrone segue una strada diversa: ingloba lo spettatore in una messinscena che non è mai giudicante, mai sentenziosa, mai “di denuncia”. Piuttosto, ci pone di fronte alla “banalità del Male”: all’avidità feroce e desolante di esseri umani che vivono all’inferno e sembrano non avere nessuna ambizione di uscirne. Si resta lì, vedendo Gomorra: come appiccicati all’unto e allo sporco che cola dalle pareti, al sudore che gronda da corpi sformati e feroci, al fruscio delle banconote tra i polpastrelli delle dita dei ragionieri della camorra, al crepitio delle armi da fuoco. Insieme, si assiste a una messinscena che illumina dal di dentro alcune modalità organizzative dell’economia illegale. Ne discutono, come di consueto, Severino Salvemini e Gianni Canova.
S.S. Io trovo che rispetto al libro di Roberto Saviano il film di Matteo Garrone abbia operato una semplificazione drammaturgica eccessiva. Il libro mette in luce in modo molto evidente le infiltrazioni dell’economia mafiosa nell’economia tradizionale. Per esempio, nel libro si fa riferimento al fatto che tutti i confezionisti napoletani – quelli che hanno un’antica tradizione di eccellenza nella confezione di abiti maschili di qualità – sono di fatto contaminati dalla camorra perché distribuiscono i loro prodotti nelle grandi catene tedesche che sono in parte controllate o condizionate dalla criminalità organizzata. In modo analogo, il libro dimostra come le gang cinesi abbiano ormai una posizione dominante nel controllo del porto di Napoli. Di tutto ciò non c’è traccia nel film, che mi pare proponga una visione più stereotipata della criminalità. Il libro mi è sembrato più spietato.
G.C. Non sono d’accordo. A me pare invece che il film lo stereotipo del mafioso lo demolisca. Per lo meno: non ci sono in Gomorra figure carismatiche e avvolte di fascino come potevano essere il Padrino di Marlon Brando, certi “goodfellas” di Martin Scorsese o perfino alcuni geni del Male della fiction italiana, per esempio i boss della serie La Piovra. I camorristi di Gomorra vivono in spazi angusti e squallidi, in interni domestici con la carta da parati lisa e consunta, e indossano canottiere dozzinali sopra i loro ventri sfatti e flaccidi. Invece che una visione eroica della camorra, viene a galla il volto dimesso, anche se feroce, della banalità del Male.
S.S. Quando parlavo di stereotipi, mi riferivo soprattutto al modo in cui è raccontata l’economia criminale. In fondo, Garrone e i suoi collaboratori ripropongono un modello di economia camorristica che abbiamo già visto, e che è diventata quasi un cliché. Certo: il personaggio di Toni Servillo, il “dottore” vestito con un elegantissimo completo di lino chiaro, che sale al Nord per offrire i servizi della camorra agli industriali lombardo-veneti in materia di smaltimento dei rifiuti, è un camorrista decisamente fuori dagli schemi. Ma è un’eccezione: una sorta di Zelig che si adatta all’interlocutore che ha di fronte, e che mostra nel suo agire tratti specifici e peculiari dell’economia criminale. Il film, però, lo ribadisco, non accenna neppure al fatto che tutta l’economia regionale è contaminata, e continua a illudersi che sia ancora possibile distinguere fra un’economia buona e un’economia cattiva.
G.C. A me ha colpito il fatto che tutte e cinque le storie che compongono il film, in un racconto corale intrecciato che ricorda un po’ i modelli di Crash di Paul Haggis, o di Babel di Inarritu, abbiano al centro il tema del tradimento. Tradiscono tutti, i personaggi di Gomorra. Tradiscono o vengono traditi. Come se il tradimento fosse la modalità necessaria a dinamizzare le relazioni fra i vari membri dell’organizzazione.
S.S. Il valore prioritario di ogni comunità organizzata è la fedeltà. Ovviamente lo è tanto più per un’organizzazione criminale e semiclandestina come la camorra. Il tradimento, in questo contesto, rappresenta l’innovazione nei confronti della cultura di riferimento. È l’elemento imprevisto che rompe il collante emotivo dell’organizzazione. È attraverso il tradimento che si fondano nuove famiglie, e che l’organizzazione sprigiona e scarica la conflittualità endogena che la attraversa…
G.C. C’è però un caso a parte, ed è quello del sarto che decide di “vendere” il suo sapere ai cinesi e di diventare il loro – come dire – personal trainer. Mi pare un caso a parte perché illustra in maniera paradigmatica alcune dinamiche che sono tipiche non solo e non tanto dell’economia camorrista, ma anche di quella legale e istituzionale.
S.S. Certo. “Tradimenti” di questo tipo si verificano con una certa frequenza, sono un meccanismo tipico dei distretti. Quando un tecnico o un manager sono cresciuti sensibilmente all’interno di una singola azienda, e non vedono ulteriori possibilità di crescita, non hanno altra scelta per salire di rango che offrirsi alla concorrenza. Dove, almeno all’inizio, sono anche molto più vezzeggiati, apprezzati e valorizzati di quanto non fossero nell’ambiente che hanno “tradito”…
G.C. Io trovo molto interessante anche la scelta di girare in location, e di fare di un monstrum architettonico come le Vele di Scampia, progettato dall’architetto Franz Di Salvo, un luogo strutturalmente funzionale ai meccanismi di controllo sociale e territoriale messi in atto dalla criminalità organizzata.
S.S. No. A me questa sembra una scelta facile. Sarebbe un po’ come dire che la criminalità milanese è tutta concentrata – poniamo – a Quarto Oggiaro perché lì il territorio presenta alcune caratteristiche particolarmente funzionali – appunto – alle organizzazioni criminali. Non ci credo. Trovo più interessante, tanto sul piano estetico che su quello sociologico, la scelta di una fotografia sporca e come sgranata, che mi sembra in tutto e per tutto omologa alla sporcizia dei valori che connotano quel mondo e il suo modello di organizzazione.