E&M

2008/4

Torniamo a parlare di cambiamento. Mentre si leggono sui giornali le nuove gride di una rivoluzione che dovrebbe partire dalla pubblica amministrazione, investire la scuola, sconvolgere il fisco, innalzare ponti, abbattere deficit e riaccendere fusioni nucleari. Torniamo a interrogarci su cosa serve affinché si produca una differenza, affinché maturi una nuova prospettiva, affinché alle legittime attese corrispondano gli attesi risultati. E ci concentriamo sul coraggio, un requisito necessario, anche se non sufficiente, per cambiare. Dandoci l’obiettivo di approfondire l’analisi fino al punto di poter disporre alla fine di un profilo significativo, di una sommatoria di caratteristiche che fanno di una persona (e per estensione di un gruppo o di entità organizzative più ampie e astratte) una persona che ha coraggio.

Cortellazzo e Zolli, nel loro Dizionario etimologico edito da Zanichelli, lo definiscono “forza morale che mette in grado di intraprendere grandi cose e di affrontare difficoltà e pericoli con piena responsabilità”. Una forza che l’etimo indica collocata nel cuore, in quello che si riteneva essere il centro vitale della persona. Si tratta di una definizione ricca e complessa che offre per questo spunti di riflessione interessanti. In primo luogo sembrerebbe che per essere coraggiosi, per poter esercitare questa forza, occorra essere radicati in un proprio ordine etico. Non è detto che tale ordine sia universale, come dimostra l’ammirazione che si può avere persino per il coraggio di un criminale o di uno spericolato speculatore finanziario. Ma occorre che ci sia consapevolezza, in chi agisce in modo coraggioso, di cosa sia bene e cosa sia male, giusto e sbagliato. E l’adesione ferma a un proprio codice di comportamento. Nei leader è proprio questa fermezza che consente di dare fiducia al loro coraggio, di seguirne l’esempio nei momenti difficili, che sono poi quelli nei quali è più che mai necessario innovare. Occorre poi che il coraggio si eserciti in rapporto a mete e obiettivi alti e straordinari perché abbia rilievo. La forza morale di cui stiamo parlando è particolarmente necessaria quando si vogliono realizzare grandi cose e affrontare grandi difficoltà. Mete ambiziose e sfidanti sono da sempre uno dei cardini necessari per sostenere e motivare al meglio lo sforzo necessario per cambiare. Da questo punto di vista possiamo essere più generosi con chi ha la responsabilità enorme di cercare di raddrizzare la barca su cui siamo tutti, sottolineando che indicare obiettivi straordinari come quelli da raggiungere con la programmazione economica elaborata dal governo italiano per i prossimi tre anni, sfidare radicalmente le abitudini del passato facendo in modo di spendere meno danaro pubblico e con migliori risultati per i cittadini, mettere in discussione e attaccare frontalmente corporazioni e gruppi di potere che al cambiamento resistono in ogni modo possono essere effettivamente modi importanti e coraggiosi di incominciare. A patto, ovviamente, che agli annunci roboanti seguano comportamenti coerenti e risultati di pari portata.

Nel nostro paese, e in molte delle nostre aziende, ci troviamo in questo momento di fronte alla necessità di fare grandi cose (rimandate per troppo tempo e da realizzare con risorse sempre più limitate) e di risolvere problemi molto difficili. Per questo ci vuole coraggio. Tornando al contenuto della definizione che stiamo commentando, vi è il richiamo all’idea di piena responsabilità. È coraggioso ai nostri occhi solo chi si mette in gioco in prima persona, chi si prende la responsabilità di scegliere e operare in una direzione precisa, chi è pronto a rispondere del risultato conseguito in virtù di tali scelte. Rischio personale e coraggio vanno insieme. Nessuno definirebbe coraggioso chi espone al rischio e al sacrificio solo gli altri, risparmiando sé stesso. Per questo bisognerebbe continuare a riflettere su come gli enormi privilegi, in primo luogo economici, garantiti ai top manager anche in caso di cattivi risultati delle aziende che gestiscono e le protezioni loro accordate in caso di perdita del proprio posto di lavoro, che li differenziano grandemente da tutti gli altri dipendenti, possano minare alla base la credibilità delle loro scelte, dei loro comportamenti e dei loro inviti ad affrontare con energia cambiamenti anche dolorosi. Il coraggioso, ma dovremmo dire l’adulto maturo e responsabile, agisce sulla base di ipotesi e principi e non solo in ragione di opportunità. Il suo è un agire eticamente motivato, orientato a un obiettivo difficile, non sorretto solo da un preciso calcolo di convenienza. Si dice, infatti, che per essere motivati a cambiare occorre che i conti tornino: i vantaggi attesi dalla situazione nuova e futura che si vuole raggiungere ai quali vanno sottratti quelli che oggi si conseguono mantenendo le cose come stanno devono essere superiori al costo del cambiamento stesso. Se questa diseguaglianza tiene, allora si è disposti a cambiare comportamento.

Nella realtà difficilmente calcoli così precisi sono possibili. E chi ha coraggio ce l’ha proprio perché riesce a decidere e ad agire senza bisogno di sapere in anticipo quali saranno esattamente le conseguenze. Non per questo è un temerario. Nella nostra lingua quest’ultimo è denotato da una parola che ha una radice etimologica comune con la parola tenebra. Chi sceglie la temerarietà chiude gli occhi e si getta nel buio, senza badare a nulla. La persona, il manager dotato di coraggio si situa in una difficile terra di mezzo tra il razionale accurato e calcolatore e il temerario sconsiderato, indossando piuttosto gli occhiali rosa dell’ottimista. Come un interessante filone di studio e ricerca in psicologia cognitiva ha mostrato, gli ottimisti sono persone che invece di partire da un’accurata percezione di sé stessi e dell’ambiente nel quale devono operare (percezione che in situazioni difficili ed estreme avrebbe un effetto deprimente e immobilizzante) sono sensibilmente distorti da una serie di illusioni cognitive. La psicologa ricercatrice americana Shelley Taylor ne ha identificate tre fondamentali, comuni in realtà alla maggior parte delle persone mentalmente sane ma indispensabili in chi mostra coraggio quando è necessario. La prima illusione consiste nel percepirsi in maniera più positiva o meno negativa rispetto agli altri. Una persona ottimista pensa di avere capacità superiori alla media degli altri con i quali si confronta. Pensa anche, ed è questa la seconda illusione, di poter esercitare sugli eventi che accadono intorno a lei un controllo personale decisamente superiore a quello reale. La terza e ultima illusione consiste nel pensare sistematicamente che oggi è meglio di ieri, e che soprattutto il domani sarà ancora migliore. Chi ha coraggio deve essere particolarmente distorto dal punto di vista cognitivo in queste tre direzioni precise: tre illusioni che la ricerca ha dimostrato, tra l’altro, essere più forti proprio nel momento dell’implementazione di una decisione, durante l’azione, rispetto al momento precedente della scelta tra alternative, durante il quale sembra prevalere una maggiore accuratezza nella valutazione degli elementi in gioco. E di conseguenza, se si vuole infondere coraggio negli altri, la prima cosa che si deve fare è preservare in loro l’esistenza di queste preziose distorsioni percettive. Per questo, decisa la direzione di marcia dopo un’accurata e anche dolorosa, se necessario, ricognizione della situazione, nel momento in cui occorre sostenere in chi ci sta intorno il coraggio di cambiare conviene essere positivi, sottolineare le cose fatte piuttosto che quelle che ancora mancano o che si potevano fare meglio, attribuire meriti precisi e personali anche laddove forse ha più responsabilità il caso, sottolineare quanto attraente sia il futuro che finalmente si avvicina. Senza una terra promessa dove scorrano finalmente fiumi di latte e miele pochi sono disposti persino a scuotersi dalla schiavitù più insopportabile. E questo vale nella storia come nei processi di cambiamento aziendali e istituzionali.

Giocando un po’ con l’etimo delle parole e prendendo a prestito idee dalla ricerca in campo psicologico abbiamo cercato di mettere a fuoco alcuni aspetti del coraggio in rapporto al cambiamento. Le prossime suggestioni le ricaveremo invece dalla letteratura. Partendo, questa volta in negativo, dal personaggio che per la propria mancanza di coraggio ha assunto una notorietà proverbiale: quel don Abbondio che il coraggio proprio non riusciva a darselo. Lasciamo parlare Manzoni e disponiamoci ad ascoltarlo con quell’attenzione che forse, costretto alle minuscole dimensioni di un banco di scuola e della giovane testa che vi si appoggiava disperata, non è mai riuscito ad avere da noi. “Il nostro Abbondio, non nobile, non ricco, coraggioso ancor meno, s’era dunque accorto … d’essere, in quella società, come un vaso di terra cotta, costretto a viaggiare in compagnia di molti vasi di ferro. Aveva quindi, assai di buon grado, ubbidito ai parenti che lo vollero prete. Per dir la verità, non aveva gran fatto pensato agli obblighi e ai nobili fini del ministero al quale si dedicava: procacciarsi di che vivere con qualche agio, e mettersi in una classe riverita e forte, gli erano sembrate due ragioni più che sufficienti per una tale scelta. Ma una classe qualunque non protegge un individuo, non lo assicura che fino a un certo segno: nessuna lo dispensa dal farsi un suo sistema particolare. … Il suo sistema consisteva principalmente nello scansar tutti i contrasti, e nel cedere, in quelli che non poteva scansare. Neutralità disarmata in tutte le guerre che scoppiavano intorno a lui ... Se si trovava assolutamente costretto a prender parte tra due contendenti, stava col più forte, sempre però alla retroguardia, e procurando di far vedere all’altro ch’egli non gli era volontariamente nemico: pareva che gli dicesse: ma perché non avete saputo essere voi il più forte? ch’io mi sarei messo dalla vostra parte.” Cambiare significa sempre mettere in discussione lo status quo e il sistema di potere che lo sostiene e gode dei maggiori benefici. Per questo occorre coraggio. Per fare le domande scomode che nessuno fa, per criticare laddove c’è solo consenso, per non avere paura della solitudine che deriva dall’essere, almeno all’inizio, minoranza, interprete e araldo di qualcosa che deve ancora arrivare piuttosto che pigro e panciuto osservatore, magari inutilmente critico, del presente. L’opportunista don Abbondio, al quale la dialettica narrativa del romanzo contrappone il coraggioso fra’ Cristoforo, capace invece di mettere a rischio la propria vita per sfidare un potere malevolo e oppressivo, è il prototipo di chi è sempre pronto a salire sul carro del vincitore, dell’amministratore delegato di nomina politica che si barcamena tra vecchi e nuovi padroni cercando di non scontentare mai del tutto nessuno, di chi per quieto vivere rinuncia a opporsi al male anche quando questo è evidente e lascia per ignavia e paura che le cose, una famiglia, un quartiere, un’azienda o un intero paese, degradino. A quest’uomo il coraggio manca anche perché fa un mestiere che non ha scelto. E invece per essere attivi, capaci di evolvere e cambiare, occorre la passione che deriva dall’impegnarci in qualcosa che amiamo. È anche da questo, dal proprio lavoro fatto con passione, dalle emozioni positive che proviamo e non solo dalle norme morali che ci dovrebbero ispirare, che si riesce a trarre la forza necessaria. Meno passione circola nelle nostre aziende e nelle nostre vite e meno energia saremo capaci di esprimere proprio quando abbiamo bisogno di reindirizzare il nostro futuro. A volte il coraggio serve anche per opporsi alla pressione di chi vorrebbe agire troppo in fretta, all’incalzare degli alfieri del nuovo a tutti i costi. Più dalla possente capacità narrativa di Tolstoj che dall’esattezza della ricostruzione storica si prenda a esempio la vicenda del generale Kutuzov, principe di Smolensk. Un vecchio, orbo di un occhio, protagonista prima delle guerre contro i turchi e poi chiamato, più a furor di popolo che per volere dei potenti, a salvare la patria dall’invasione della straordinaria armata francese guidata da Napoleone. Kutuzov non crede ai piani dettagliati e alle grandi e brillanti strategie disegnate sulla carta: durante i consigli di guerra dove tutti discutono, elaborano strategie alternative e disquisiscono di ordini e disposizioni, lui si appisola destando scandalo e sarcastica ilarità. Il generale, invece, sa che il campo di battaglia, soprattutto all’epoca in cui combatteva lui, è un’altra cosa, fatta di errori, di ritardi fatali e di congiunture impreviste quanto favorevoli. Un luogo dove contano i soldati più delle chiacchiere e delle carte dei loro generali. Anche lui è animato da una profonda passione: quella per il proprio paese e per gli uomini che ha la responsabilità di comandare. Un amore profondo che gli dà il coraggio di ordinare cose durissime come fare terra bruciata davanti all’esercito francese che avanza e abbandonare persino la capitale Mosca pur di salvare il proprio esercito. Per la sua tattica attendista e per la sua decisione di evitare in tutti i modi di scontrarsi con il nemico in una battaglia campale, Kutuzov è inviso ai generali più giovani, all’ambiente di corte e in buona misura allo stesso zar Alessandro, che soffre il danno di immagine, diremmo oggi, del proprio esercito che si ritira senza dare battaglia e che ambirebbe forse a prendere direttamente il controllo delle operazioni. Riuscendo però alla fine a rovesciare la situazione, a spingere l’esercito francese alla disastrosa ritirata fuori dai confini della Russia per poi batterlo duramente anche sul campo di battaglia, il generale ci lascia invece una grande lezione di coraggio. Quello che occorre per scegliere, contro tutti, tempo e pazienza come gli alleati necessari per cambiare davvero il corso della storia. Nell’epoca della frenesia di Internet, del ritmo incalzante delle trimestrali, dell’impazienza degli analisti finanziari e di molti manager rampanti non si tratta di una lezione da poco per molti capi azienda impegnati in battaglie sicuramente meno cruente di quelle napoleoniche ma non prive di comparabili difficoltà.

Non indugiamo oltre in quella che è ormai diventata una moda sgradevole, ovvero il cercare esempi di buone pratiche manageriali in ogni dove, nella Bibbia come nei trattati di tattica militare, nella letteratura come nella storia dei popoli barbari, nei fumetti, al cinema o in zoologia. Ovunque tranne che nelle aziende dove pure ogni giorno donne e uomini, competenti e appassionati, si confrontano con la necessità di adeguare pratiche manageriali e modelli operativi alle mutate condizioni tecnologiche, istituzionali e di mercato. I risultati eccezionali che qualche volta riescono a conseguire, anche in un contesto difficile e disperante come il nostro, sono la prova del loro coraggio. È da lì che dovremmo ripartire.