E&M

2021/2

Franco Amatori

Nazionalizzazioni e privatizzazioni in una prospettiva storica

La commistione fra pubblico e privato è, in Italia, un carattere ineludibile nel percorso di modernizzazione economica nazionale. Tra Otto e Novecento, l’iniziativa statale diede concretezza all’unificazione del Paese dotandolo delle infrastrutture indispensabili. Le imprese dell’IRI sono state poi protagoniste della fase di sviluppo del « miracolo economico » in cui l’atteggiamento di « negligenza benigna » da parte dei governi favorisce l’attivismo di competenti manager pubblici; la costituzione del ministero delle Partecipazioni Statali e le successive scelte politiche rovesciano la catena di comando e impongono alle aziende pubbliche scelte fuori dalla logica economica.#La grande impresa privata è oggi quasi inesistente o si colloca in rami di attività di scarso peso strategico nello scenario competitivo internazionale. Quanto resta della grande impresa è soprattutto controllato dallo Stato: ENI, Enel, Fincantieri Leonardo-Finmeccanica.

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Nazionalizzazioni e privatizzazioni sono due facce della stessa medaglia, una porta girevole che viene manovrata da un attore inequivocabile: lo Stato. È lo Stato che, attraverso i suoi organi, definiti da una legge suprema, la Costituzione, stabilisce gli assetti delle attività economiche, i confini del pubblico e del privato.

In Italia lo Stato ha un ruolo particolare, perché il nostro è un Paese che arriva tardi all’unificazione politica e alla modernizzazione economica rispetto alle altre potenze europee (la Germania è un caso a parte), con le quali si intende tuttavia gareggiare. La meta è l’edificazione della «Terza Roma», dopo quella classica e quella dei grandi papi del Rinascimento: quella liberale, laica, anticlericale del Risorgimento.

Ai conservatori, che volevano «andare avanti lemme lemme, adagino adagino», in un discorso al Parlamento dell’aprile 1863, Quintino Sella risponde a nome della nuova classe dirigente: «Noi abbiamo scelto una via diametralmente opposta, noi ci siamo gettati animosamente a soddisfare i bisogni di civiltà e di progresso che trasparivano da tutte le parti della popolazione italiana»[1].

Fin dagli esordi della nuova costruzione unitaria, lo Stato si caratterizza come il maggiore operatore economico-finanziario della penisola. Ha assoluta necessità di risorse per costruire le infrastrutture di un Paese civile: ferrovie, strade, porti, edifici per la pubblica amministrazione, un apparato di armamenti e forze militari che ne difendano l’indipendenza e che completino il processo di unificazione nazionale.

Sono questi i motivi per cui l’esazione fiscale è gravosa e inflessibile, l’emissione di titoli del debito pubblico largamente superiore a quella dei vecchi Stati messi insieme e viene infine «alienato» – con il linguaggio odierno: «privatizzato» – il 20 per cento del territorio nazionale, costituito da beni demaniali ed ecclesiastici, probabilmente la maggiore asta pubblica della nostra storia. È stata definita una «privatizzazione forzosa», con la quale il governo intese far pagare alla media e alta borghesia i costi dell’unificazione[2].

Tanta energia, però, deve far presto i conti con la realtà: con la cosiddetta «guerra al brigantaggio» che insanguina il Mezzogiorno; con la reazione dei cattolici; con l’ostilità di una parte delle potenze europee.

Per resistere, si deve scegliere una configurazione del potere rigidamente accentrata, respingendo il federalismo vagheggiato da Carlo Cattaneo, ma anche le istanze di decentramento amministrativo proposte da Marco Minghetti.

Con la struttura di governo accentrata, l’unità d’Italia è salva, ma la forza delle cose, la realtà della società civile, non si può nascondere.

All’accentramento statuale corrisponde una società frammentata, con necessità e dotazione di risorse molto differenziate, così come diseguali sono le relazioni con il contesto internazionale. Tutto ciò è presto disvelato dalle grandi inchieste, come quella del 1876, condotta da Leopoldo Franchetti e Sidney Sonnino sulla Sicilia.

Se era imperativo governare il territorio nazionale facendo riferimento a un’unica legge, questa doveva poi essere, per così dire, «aggiustata» in modo da renderla concreta nei diversi territori. Tale passo poteva essere compiuto solo dalla società politica, con tutta la carica di discrezionalità che ciò ha comportato e comporta.

Quando in Italia si pronuncia la parola «Stato», non si pensa a una struttura di burocrati competenti, efficienti, imparziali, ma alla politica, alla militanza politica.

Quello italiano può definirsi quindi «un precoce capitalismo di Stato»: la prima e, probabilmente, la maggiore privatizzazione della storia d’Italia si ha proprio, come accennato, all’indomani dell’unificazione, con la vendita dei beni ecclesiastici e demaniali.

Per trovare, in senso inverso, un episodio paragonabile a questo, è necessario andare, quarant’anni più tardi, alla nazionalizzazione delle ferrovie del 1905.

I grandi salvataggi

Prima di considerare gli sviluppi novecenteschi è necessario però analizzare un tema non connesso in modo così evidente con la trama del racconto ma, di fatto, parte rilevante della dinamica fondamentale di nazionalizzazioni e privatizzazioni nella storia d’Italia.

Dalla metà degli anni Ottanta del XIX secolo, lo Stato italiano ha bisogno della produzione industriale di acciaio: per le proprie navi da guerra, innanzitutto, ma anche perché si intravedeva con una certa chiarezza la necessità di intraprendere la strada dell’industrializzazione e per l’impossibilità di mantenere a lungo la competitività economica all’interno del tradizionale modello agricolo-mercantile.

Lo Stato però non affronta questo nodo con un intervento diretto, non crea una produzione siderurgica pubblica, ma manda avanti un imprenditore privato: in un certo senso, si può dire che venga privatizzato un compito pubblico.

La storia è quella della Terni, la grande impresa fondata nel marzo del 1884 per la produzione di acciaio – le piastre per la corazzatura delle navi della Regia Marina, innanzitutto – impiegando le tecnologie più avanzate dell’epoca. È una scelta strategica per lo Stato italiano, che viene però affidata a Vincenzo Stefano Breda, la cui biografia si connota per un fitto intreccio fra patriottismo e affari. Combattente nelle guerre del Risorgimento, Breda è poi deputato nel collegio della sua città, Padova, e, dal 1872, presidente della Società veneta per imprese e costruzioni pubbliche, una delle più importanti aziende italiane.

L’idea di una «acciaieria di Stato» affidata a un’impresa privata comporta a favore di quest’ultima un supporto pubblico rilevante: anticipi finanziari, commesse, sovvenzioni, protezionismo. Ma a causa di una situazione generale sfavorevole e di carenze manageriali e tecniche, dopo tre anni la Terni non ha prodotto un solo chilo di acciaio, ed è sull’orlo del fallimento.

Lo Stato fa fronte al disastro finanziario, mentre la Banca d’Italia stamperà cartamoneta per pagare la siderurgia pubblica affidata a un’impresa privata. Breda è inquisito per aver dirottato parte delle risorse erogate per la Terni verso la Società veneta, anch’essa in seria difficoltà, e viene posto sotto processo per irregolarità nei confronti dello Stato. Fatto senatore del Regno d’Italia, verrà giudicato da un tribunale speciale, il Senato riunito in alta Corte di giustizia, e assolto[3].

La commistione fra pubblico e privato si presenta come vizio d’origine nel percorso dell’industrializzazione italiana. Se questo è il primo grande salvataggio operato dallo Stato nella storia d’Italia, ce ne saranno poi altri due nel giro di trent’anni.

Nel 1911 viene salvato l’intero settore siderurgico: è un’operazione enorme che consente all’Italia di essere autosufficiente, dal punto di vista della produzione di acciaio, quando entra nella Prima guerra mondiale.

Nel 1922 il trattamento strategico del salvataggio pubblico è infine riservato alle attività industriali afferenti alla Banca Italiana di Sconto (BIS): fra queste emerge l’Ansaldo, la più grande impresa italiana del tempo, con 110mila dipendenti.

Questo colosso era guidato dai fratelli Perrone, che avevano creato un impero minerario-metallurgico-meccanico dalla Valle d’Aosta a Genova, passando per il Piemonte. Dal momento che producevano beni indispensabili per la nazione, ritenevano che lo Stato dovesse farsi carico delle loro «avventure» imprenditoriali, cioè dei loro debiti.

In tutti tre i casi menzionati – salvataggio della Terni, del settore siderurgico, della Bis-Ansaldo – la Banca d’Italia agisce da primo attore: nel caso della Terni, stampando carta-moneta; con i siderurgici, nel 1911, versando una somma stratosferica; nell’operazione Bis-Ansaldo in modo più originale, attraverso la Sezione speciale del Consorzio di Sovvenzioni sui Valori Industriali (CSVI), grazie a un meccanismo, protratto fino al 1926, che costa allo stato il 3 per cento del PIL di un anno.

Nella storia delle nazionalizzazioni/privatizzazioni, la vicenda dei ripetuti salvataggi statali segna in profondità il rapporto spurio fra pubblico e privato, e non è possibile ignorarla.

Attraverso questi pasticci però, e altri ancora, il Paese arriva alla Seconda guerra mondiale, unico del Sud-Europa con uno stadio stabile di industrializzazione.

Un Paese simile al nostro, la Spagna, tentò e fallì.

Le nazionalizzazioni del primo Novecento

Un intervento di nazionalizzazione più chiaro negli intenti e nei risultati è quello delle ferrovie nel 1905: un’operazione necessaria, dato lo stato di incuria e arretratezza in cui le mantenevano le compagnie private, in particolare nel Mezzogiorno (si ricordi la celebre immagine di Giustino Fortunato, dello «sfasciume pendulo sul mare», riferita alla Calabria, in uno scritto del 1904, La questione meridionale e la riforma tributaria).

Questo passaggio della nazionalizzazione delle ferrovie è importante sotto diversi punti di vista.

Il primo: la rete viene modernizzata, dando corso a una massiccia serie di forniture per l’industria pesante italiana: locomotive, rotaie, e vario materiale fisso e rotabile.

Il secondo: le conseguenze economiche di lungo periodo. Alle compagnie ferroviarie, infatti, vengono corrisposti cospicui indennizzi, la maggior parte dei quali sarà reinvestita nel nascente settore elettrico, che dagli anni Trenta alla fine degli anni Cinquanta costituirà un formidabile centro di potere finanziario e politico.

Il terzo: a capo delle ferrovie nazionalizzate viene posto un grande manager e tecnico, l’ingegner Riccardo Bianchi, il cui contratto è fissato fuori dai parametri della pubblica amministrazione; inizia così il controverso regime delle «burocrazie parallele».

Nel 1910 lo Stato compie un ulteriore passo sulla strada delle politiche di nazionalizzazione, per attuare riforme necessarie anche se costose, assumendo il monopolio delle assicurazioni sulla vita.

Questo episodio è interessante in sé, in quanto prova di una volontà riformatrice del blocco giolittiano, ma anche perché mette in luce un personaggio importante in questa narrazione: Alberto Beneduce.

Il primo fascismo al potere si dichiara poi apertamente liberista e per lo smantellamento di tutte le cosiddette «bardature di guerra»: basta con lo Stato ferroviere, postino, telefonista! tuonava Mussolini su suggerimento del suo ministro delle Finanze, Alberto De Stefani.

In realtà l’Italia non può permettersi una condotta del genere. Lo Stato italiano è pieno di debiti per le conseguenze della Prima guerra mondiale; inoltre, il governo non può perseguire una politica inflazionistica che gli avrebbe alienato le simpatie dei ceti medi; infine, ci sono i salvataggi da portare a termine, e questi nel 1926 hanno un esito nella creazione dell’Istituto di liquidazioni, il quale assume tutti gli oneri della Sezione speciale del CSVI.

La nascita dell’IRI

A causa delle conseguenze economiche della Prima guerra mondiale, le tre maggiori banche del Paese – Banca commerciale italiana, Credito italiano e Banco di Roma – si erano intrecciate in una mostruosa «fratellanza siamese» con poche grandi imprese.

Erano banche universali, cioè svolgevano sia raccolta di depositi, sia credito commerciale a breve, sia credito a medio e lungo termine; avveniva quindi che, se le imprese si trovavano in una situazione di crisi, a loro volta lo erano le banche, che avevano immobilizzato le risorse dei risparmiatori nel finanziamento alle imprese stesse. Era quindi giocoforza, per le banche, ricorrere all’aiuto della Banca d’Italia, la quale, nella drammatica situazione che si era venuta a creare dopo il crollo di Wall Street del 1929, rischiava un vero e proprio fallimento.

L’IRI, Istituto per la ricostruzione industriale, costituito nel 1933 come ente provvisorio, rileva quindi le passività delle banche e di conseguenza le loro partecipazioni industriali.

Nella letteratura straniera è invalso un uso generalizzato del termine «nazionalizzazione» riferito alla nascita dell’IRI. In realtà non è proprio così.

Per parlare dell’IRI è necessario delineare la figura del suo fondatore, Alberto Beneduce, un matematico attuariale di primissimo ordine, che aveva aiutato il ministro Nitti nella sua opera riformistica di modernizzazione economica del Paese.

Beneduce era un social-riformista interventista e quindi, nel Dopoguerra, si dedicò a creare una serie di istituzioni volte a favorire la riforma agraria e l’industrializzazione del Mezzogiorno.

Dal 1924 si rompe il suo sodalizio con Nitti, il quale va all’estero e lo considera un traditore. Beneduce, invece, pur senza alcuna manifestazione esteriore di consenso, si pone al servizio di Mussolini, di cui diventa il più ascoltato consigliere economico. Nella seconda metà degli anni Venti partecipa quindi alle maggiori conferenze economiche internazionali e si può dire che solo il governatore della Banca d’Italia, Bonaldo Stringher, gli fosse pari nella comprensione e nella soluzione dei grandi problemi economici e finanziari del Paese.

Stringher muore nel 1930 e Mussolini, nei guai per la gravissima crisi interna e internazionale che rischia di travolgere la stessa Banca d’Italia, deve ricorrere a Beneduce.

Questi, ben presto coadiuvato da Donato Menichella – che, come lui, aveva combattuto in prima linea nel conflitto mondiale e che vedeva come valore assoluto il mantenimento dello stato unitario nato dal Risorgimento – si impegna sin dai primi mesi dalla costituzione dell’IRI in una radicale riforma del credito che ponga fine al sistema della banca universale, attuando una specializzazione per la quale le tre maggiori banche – ora definite «banche di interesse nazionale» – sono autorizzate a svolgere solo attività di credito ordinario, mentre per i finanziamenti a medio e lungo termine si creano istituti speciali che attingono le risorse non dai depositi, ma dal mercato dei capitali.

L’IRI si assume quindi le attività e le passività delle banche, avendo così a carico un debito a cui cerca di far fronte emettendo massicciamente obbligazioni garantite dallo Stato. A fronte di ciò, richiede e ottiene il possesso totale delle banche stesse, salvaguardando in questo modo il risparmio di un Paese che su questa risorsa aveva costruito valori che andavano al di là del fatto meramente economico.

Questa è la premessa indispensabile per la legge bancaria del 1936, che rimane in vigore per il successivo mezzo secolo.

Ma l’IRI eredita dalle banche anche partecipazioni industriali che non solo incidono per più del 40 per cento di tutte le società quotate, ma sono costituite da aziende che operano in settori assolutamente centrali per la consistenza economica del Paese: la siderurgia, la meccanica pesante, la cantieristica, l’industria elettrica, una buona porzione di quella chimica.

L’intenzione di Beneduce è quella di vendere ai privati quante più aziende industriali possibile; venderle, ma non svenderle. In effetti, il grande capitalismo privato italiano, pur sollecitato vigorosamente da Beneduce, si rivela una classe dirigente economica di scarso spessore.

Giovanni Agnelli, a capo di una cordata piemontese, tenta, con una somma del tutto inadeguata, di acquisire la SIP, Società Idroelettrica Piemontese, uno dei componenti del cartello elettrico; con una manovra simile cerca anche di acquisire il controllo dell’Alfa Romeo, anch’essa caduta nelle mani dell’IRI, egualmente senza successo.

La Montecatini, con Guido Donegani al vertice, tenta a tutti i costi di acquisire la Terni Chimica, l’unica impresa che in Italia poteva contrastarne il monopolio nel campo dei concimi azotati, ma anche in questo caso Beneduce giudica insufficienti le somme proposte.

Trova invece una facile privatizzazione la Edison, il maggiore gruppo elettrico sorto nella zona più industrializzata d’Italia, l’area metropolitana di Milano, che può vantare un alto tasso di ritorno sull’investimento.

In definitiva, in base al principio del «vendere, ma non svendere», l’IRI mantiene la proprietà di gran parte delle azioni industriali provenienti dai salvataggi bancari. Questo non implica tuttavia una nazionalizzazione di tipo sovietico, oppure una guidata dalle corporazioni fasciste.

Secondo Beneduce, la conduzione di queste imprese deve essere il più possibile aderente ai criteri del mercato e razionale nella sua architettura. L’IRI ha come unità di conduzione il settore, in un periodo in cui l’Italia è popolata da confusi gruppi polisettoriali.

Quindi, dalla superholding IRI, alla vigilia della Seconda guerra mondiale dipendono la STET per il settore delle telecomunicazioni, la Finmare per il settore armatoriale, e la Finsider per quello dell’acciaio; al di sotto delle finanziarie, nello schema teorico, operano le aziende, alla cui guida vengono poste le migliori risorse imprenditoriali e manageriali disponibili nel Paese.

Gli anni d’oro dell’IRI e la nascita dell’ENI

È su queste basi che l’IRI si presenta come uno dei protagonisti della straordinaria stagione che va dal Primo dopoguerra all’inizio degli anni Sessanta; opera come una piramide rovesciata, con priorità alle imprese, poi alle finanziarie e poi alla superholding, e accetta di buon grado l’ingresso di capitali privati, purché in misura controllabile, ma senz’altro esigenti.

È il periodo dei Sinigaglia, dei Reiss-Romoli, dei Luraghi, dei Cova[4].

Nel 1953, dopo una serie di vicende rocambolesche, nasce anche l’ENI, l’Ente Nazionale Idrocarburi, che in un certo senso rappresenta l’epitome della filosofia di Beneduce, quella della proprietà pubblica associata a uno stile imprenditoriale privato. In effetti l’ENI è stato definito «l’iniziativa privata di un grande imprenditore pubblico, Enrico Mattei»[5].

Certo, non si può dire che quest’insieme di aziende fosse coordinato e rispondesse alle esigenze di una programmazione economica. Non di rado si verificano seri scontri, come quando la Finelettrica dell’IRI si oppone alla creazione di un ente unico per l’energia caldeggiato da Mattei.

È uno scenario che vede la presenza non di «un capitalismo di Stato», ma di «capitalismi di Stato».

La svolta statalista

Fra il 1956 e il 1962 si registrano episodi decisivi per l’intero sistema.

Viene creato nel 1956 il ministero per le Partecipazioni Statali, che porta alla formazione di una catena di comando diametralmente opposta alla filosofia precedente. Il sistema ideato da Beneduce e difeso vigorosamente da Menichella (che nel Dopoguerra è il governatore della Banca d’Italia), mostra allora il suo punto debole, ovvero la proprietà dello Stato.

Durante il tardo fascismo il peso della politica era quello dell’unico uomo al comando, il duce, che nutriva piena fiducia in chi guidava l’IRI. Nel decennio successivo alla Seconda guerra mondiale le imprese pubbliche godono di una «negligenza benevola» da parte delle forze politiche. Questo insieme di aziende appare però una tentazione troppo grossa per non procedere a uno spoil system, peraltro sempre a senso unico, perché della coalizione governativa non poteva far parte il Partito Comunista, dati i suoi legami internazionali.

In ogni caso, per diversi anni le conseguenze di questa subordinazione dell’IRI alla politica non appaiono così evidenti. La posizione di ministro delle Partecipazioni Statali viene ricoperta sino ai primi anni Sessanta da yesmen di Enrico Mattei.

Nel 1962 cade l’altro grande episodio, ovvero la nazionalizzazione dell’energia elettrica. Questa avviene per una richiesta precisa del Partito Socialista, che a essa subordina la sua entrata nel governo di centro-sinistra.

In effetti, l’industria elettrica costituisce un bastione conservatore che impedisce qualsiasi possibilità di allargamento della coalizione di governo verso la Sinistra e, inoltre, per una sorta di «effetto annuncio», l’industria elettrica privata ha rinunciato a investire nei propri impianti, che non solo versano in cattive condizioni, ma impediscono l’effettiva realizzazione di un sistema nazionale.

Alla nazionalizzazione dell’industria elettrica si oppone quel gruppo di cattolici di sinistra che aveva la sua guida intellettuale in Pasquale Saraceno, uno degli autori del Codice di Camaldoli. Questi voleva che l’intero settore venisse «irizzato» e, d’altra parte, l’IRI già controllava attraverso la sua finanziaria una quota non certo irrilevante del settore (oltre alla SIP, quello che aveva fatto capo alla SME, Società Meridionale di Elettricità)[6].

Prevale la tesi della nazionalizzazione che, in questo caso, significava porre il settore fuori mercato e uniformarlo a tariffe elaborate da un Comitato interministeriale.

Una conseguenza importante e di certo non positiva è legata alla posizione del governatore della Banca d’Italia Guido Carli di indennizzare non gli azionisti, ma le società elettriche.

Carli, che ricoprirà il ruolo di governatore dal 1960 al 1975, pensa allora di ripetere l’esperienza del 1905, quando un settore vecchio aveva travasato le proprie risorse in un settore emergente: dalle ferrovie all’industria elettrica.

Anche in questa fase c’è un’industria in Italia che sembra avere grandi potenzialità, ma anche gravi problemi finanziari: l’industria chimica, e il governatore pensa che gli indennizzi elettrici possano tranquillamente fluire a quest’industria fiorente dal punto di vista tecnologico e scientifico, ma incagliata nella scarsezza di capitali. Il prevalere si questa posizione rappresenta una delle decisioni più sciagurate della storia industriale italiana e lo stesso Carli, in un volume autobiografico, ne fa ampiamente ammenda[7].

La ragione è molto semplice: «Dalle ferrovie al settore elettrico» significò passare da un monopolio all’altro; «dal settore elettrico a quello chimico» fu praticamente come passare da una piscina al mare aperto, tanto diverse erano le risorse richieste in termini di produzione, marketing, R&S.

La grande industria chimica italiana oggi non esiste più, si è in pratica esaurita nel disastro della Montedison e nelle tragiche vicende di Tangentopoli dell’estate del 1993[8].

La parabola delle partecipazioni statali

Dall’inizio degli anni Settanta, in un clima sempre più conflittuale, che vede il Paese subire una sorta di «tempesta perfetta» – le grandi agitazioni operaie, la strategia della tensione, il terrorismo – le aziende che fanno capo allo Stato proprietario diventano terreno di scontro di fazioni politiche e strumenti di consenso, in modo avulso da qualsiasi logica economica[9].

In definitiva, all’inizio degli anni Novanta è opinione generalizzata che non si possa evitare un ampio processo di privatizzazione, anche perché il reaganismo e, soprattutto, il tatcherismo esercitano una chiara egemonia politica e culturale[10].

Per ciò che riguarda l’Italia, tre sono le ragioni che portano a una vasta operazione di privatizzazione.

La prima: il settore pubblico viene ormai identificato con la corruzione ampiamente disvelata da Tangentopoli. La seconda: la privatizzazione avrebbe contribuito ad attenuare l’entità del debito pubblico che negli anni Ottanta appare ormai fuori controllo. Su questo punto insisteva particolarmente l’Unione Europea (con l’accordo Andreatta-Van Miert[11]). La terza: si pensava esistesse in Italia una riserva di imprenditorialità che con le privatizzazioni avrebbe avuto occasione di dispiegarsi senza ostacoli; e si sarebbe senz’altro ravvivato il mercato mobiliare.

Questi auspici si sono rivelati in gran parte illusori.

È vero che l’Italia si colloca quasi in testa alle classifiche per valore delle privatizzazioni operate (160.000 miliardi di euro dal 1985 al 2000)[12], tuttavia è presto evidente che anche una somma cospicua di questo genere non risolve il problema del debito pubblico[13].

I grandi imprenditori, come del resto negli anni Trenta, hanno colto le occasioni, senza però approntare strategie di lungo termine. Pensiamo ai Riva nella trattativa per acquisire lo stabilimento di Taranto[14] o ai cosiddetti «capitani coraggiosi», che conquistano la Telecom con un leverage[15], o anche al caso dei Benetton, una delle famiglie imprenditoriali più rappresentative del capitalismo nazionale, i quali, dall’inizio degli anni Duemila puntano senza riserve alla rendita[16].

In definitiva, possiamo dire che, nonostante in Italia siano state introdotte tutte le tipologie giuridiche e istituzionali per favorire la grande impresa, questa è quasi inesistente e come iniziativa esclusivamente privata, o si colloca in rami di attività di scarso peso strategico nello scenario competitivo internazionale. E quanto resta della grande impresa oggi è soprattutto controllato dallo Stato: ENI, Enel, Fincantieri Leonardo-Finmeccanica.

Il dibattito è aperto e la pandemia lo ha reso ancora più urgente: alcuni vogliono indirizzare le imprese pubbliche o partecipate verso una sorta di programmazione post-litteram, o addirittura affidare a esse una missione, mentre altri si accontenterebbero di metterle nelle mani adatte, come auspicato da Beneduce e Menichella alle origini dell’IRI.

In sintesi

  • La commistione fra pubblico e privato è, in Italia, un carattere ineludibile nel percorso di modernizzazione economica nazionale. Tra Otto e Novecento, l’iniziativa statale diede concretezza all’unificazione del Paese dotandolo delle infrastrutture indispensabili. Alle grandi operazioni di privatizzazione dei beni del demanio pubblico e di quello ecclesiastico, si affiancò un intervento di costante sostegno ai settori strategici (siderurgico e meccanico), che culminò nei salvataggi della Terni (1894), del comparto siderurgico (1911) e dell’Ansaldo (1922).
  • Oltre ad assumersi le attività e le passività delle banche, negli anni Trenta l’IRI eredita da queste anche partecipazioni industriali che non solo incidono per più del 40 per cento di tutte le società quotate, ma sono costituite da aziende che operano in settori centrali per la consistenza economica del Paese: la siderurgia, la meccanica pesante, la cantieristica, l’industria elettrica, una buona porzione di quella chimica.
  • Le imprese dell’IRI sono protagoniste della fase di sviluppo del «miracolo economico» in cui l’atteggiamento di «negligenza benigna» da parte dei governi favorisce l’attivismo di competenti manager pubblici; la costituzione del ministero delle Partecipazioni Statali e le successive scelte politiche rovesciano la catena di comando e impongono alle aziende pubbliche scelte fuori dalla logica economica.
  • All’inizio degli anni Novanta, anche in Italia prende avvio un ampio processo di privatizzazione, con aspettative che sono però disattese.
  • La grande impresa privata è oggi quasi inesistente o si colloca in rami di attività di scarso peso strategico nello scenario competitivo internazionale. Quanto resta della grande impresa è soprattutto controllato dallo Stato: ENI, Enel, Fincantieri Leonardo-Finmeccanica.

 

1

Testo citato in F. Amatori, A. Colli A, Impresa e industria in Italia. Dall'unità ad oggi, Venezia, Marsilio, 1999.

2

F. Bonelli, Il capitalismo italiano: linee generali d'interpretazione, in Storia d’Italia-Annali 1. Dal feudalesimo al capitalismo, Torino, Einaudi, 1978.

 

3

F. Bonelli, P. Craveri, Breda, Vincenzo Stefano, in Dizionario biografico degli italiani, vol. 14, Roma, Treccani, 1972.

 

4

F. Amatori (a cura di), Storia dell’IRI-2. Il «miracolo economico» e il ruolo dell’IRI, Roma-Bari, Laterza, 2013.

5

Bonelli, Il capitalismo italiano, op. cit.

6

M. Comei, La nazionalizzazione dell’energia elettrica e i suoi effetti, in F. Amatori (a cura di), L’approdo mancato. Economia, politica e società in Italia dopo il miracolo economico, Annali della Fondazione Feltrinelli, Milano, Feltrinelli, 2017.

7

G. Carli, Cinquant’anni di vita italiana, Roma-Bari, Laterza, 1996.

8

F. Amatori, «Impresa e industria in Italia negli ultimi trent’anni», in Marca/Marche. Imprese e industria nelle Marche del Novecento, M. Moroni (a cura di), 13, 2019.

9

F. Amatori, «Grande e piccola impresa nella storia dell’industria italiana», in Annali di storia dell’impresa, 17, 2006.

10

E. Reviglio, Privatization in Europe. A Brief History of European Capitalism in the XX Century, Roma, Accademia dei Lincei, 2002.

11

B. Curli, Il «vincolo europeo»: le privatizzazioni dell’IRI tra Commissione europea e governo italiano, in R. Artoni, (a cura di), Storia dell’IRI-4. Crisi e privatizzazione, Roma-Bari, Laterza, 2014.

12

F. Lavista, «San Vittore e lo yacht Britannia», in F. Amatori (a cura di), L’approdo mancato. Economia, politica e società in Italia dopo il miracolo economico, Annali della Fondazione Feltrinelli, Milano, Feltrinelli, 2017, p. 293

13

M. D’Antoni, «Privatizzazione e monopolio. Il caso della Società autostrade», e M. Mucchetti, «L’ultimo decennio, revisione di una liquidazione sommaria», in R. Artoni, (a cura di), Storia dell’IRI- 4. Crisi e privatizzazione, Roma-Bari, Laterza, 2014.

14

R. Gianola, L’illusione del mercato: il grande inganno delle privatizzazioni, Milano, Baldini&Castoldi, 1996.

15

S. Mariotti, «Politiche di privatizzazione e competitività dell’industria italiana», in R. Artoni, (a cura di), Storia dell’IRI-4. Crisi e privatizzazione, Roma-Bari, Laterza, 2014.

16

A. Colli, Famiglia, management e diversificazione. Edizione. Storia della holding Benetton 1986-2016, Bologna, il Mulino, 2017.