E&M
2016/3
Indice
Editoriale
Dossier: Digital (r)evolution
Come leggere la digital transformation
Big data e mercato: l’affare è servito
Industry 4.0: operations in salsa digitale
Networked digitization. L’unione fa la forza
Incontri ravvicinati con l’omnicanalità
Disruptive as usual. Un manifesto per la digital transformation
I costi della burocrazia
Euroscenari
Moneta, finanza e regole
Science
Corruzione e liquidità influenzano le performance delle imprese
L’integrazione di un network complesso in quattro passi. Lezioni dal campo
Disruptive as usual. Un manifesto per la digital transformation
Scarica articolo in PDFLe idee esposte in questo articolo sono state alla base della creazione del DEVO Lab SDA Bocconi, che si propone come luogo di ricerca e confronto sui lati dell’offerta e della domanda in merito al tema dell’impatto delle tecnologie digitali nel mondo aziendale.
L’ultimo decennio è stato caratterizzato dall’emergere, con successo, di una nuova generazione di aziende digitali (Amazon, eBay, Facebook, Google, PayPal) o dal riaffermarsi di aziende ICT consolidate che hanno però reinventato il loro business, come Apple. L’enorme disponibilità di capitali di queste aziende – tra le prime otto aziende per capitalizzazione cinque sono in area ICT[1] –, ha consentito ai loro imprenditori di estendere i loro interessi dal business originario agli ambiti più diversi, dall’esplorazione spaziale (SpaceX), alle auto elettriche (Tesla), alla ricerca biomedica (Google Life Sciences), alle auto a guida autonoma (Google).
Sotto questa spinta, l’accelerazione della trasformazione digitale è diventata vertiginosa, confermando sia la legge di Moore[2], secondo cui il numero di componenti in un circuito integrato raddoppia ogni due anni, sia la sua estensione formulata da Ray Kurzweil: la legge degli Accelerating Returns – LoAR[3]. Tale legge afferma che ogni processo evoluzionistico è esponenziale, con un andamento di crescita molto rapido, non appena viene raggiunta una certa massa critica che accelera ulteriormente il cambiamento; nel caso delle tecnologie digitali, la convergenza di più fattori determina addirittura una crescita esponenziale del rateo della crescita stessa. Ciò porta a prevedere una singolarità tecnologica per la metà di questo secolo, ovvero l’impossibilità di comprendere e prevedere gli impatti sulla società, l’economia e le imprese[4].
Tuttavia, l’andamento esponenziale dell’innovazione tecnologica è un fenomeno storico: basti pensare al tempo intercorrente tra l’invenzione del motore a scoppio e le applicazioni automobilistiche o aeronautiche, al primo volo dei fratelli Wright (1903), al primo volo supersonico (1954), o ancora alle missioni spaziali con il primo allunaggio umano (1969). Tutte queste evoluzioni tecnologiche hanno avuto una crescita iniziale relativamente lenta, che è poi divenuta esponenziale, sia sul fronte delle innovazioni nello stesso dominio tecnologico, sia su quello della leva economica generata dalle stesse.
Nell’ambito delle tecnologie digitali, soprattutto nel software, è però sempre stato presente un fenomeno di iperbole (hype cycle), ovvero di aspettative eccessive, forse dovuto all’immaterialità delle tecnologie stesse. Ciò produce un effetto moda che abbassa le difese collegate al buon senso e alla razionalità economica.
L’innovazione tecnologica digitale ha determinato un processo di creazione di valore e di distruzione fisiologica dello stesso; distruzione anche e purtroppo causata dalla mancanza di pensiero «profondo» e di competenze sulle implicazioni e sui limiti delle tecnologie.
L’hype cycle, in quanto fenomeno ricorrente, è stato ben studiato e descritto[5]. Come visualizzato nella Figura 1, l’idea sottostante l’hype cycle è che le innovazioni digitali, dal momento della loro introduzione, passino attraverso una serie di alti e bassi sul fronte delle aspettative, prima di stabilizzarsi a un livello di performance continuativa. Pur nella sua intrinseca semplicità, il modello ben esemplifica quello che è avvenuto e sta avvenendo con le tecnologie digitali. Ciò che sorprende è come l’hype cycle si ripeta, pressoché invariato, all’introduzione di ogni nuova tecnologia digitale e come la visione mediatica e sensazionalistica prevalga su quella del buon senso e della razionalità economica.
Figura 1 L’hype cycle e le sue componenti
Digital transformation e hype cycle
Un contesto di questo genere fa sì che, per l’ennesima volta, si creino aspettative non realistiche per la digital transformation, che sono già in parte state smentite dai fatti. Siamo davvero condannati a percorrere ogni volta tutto l’hype cycle? Quali sono gli sprechi di risorse economiche e la crisi di credibilità che ne derivano? E d’altra parte, quali sono i rischi di stroncare sul nascere quelle tecnologie che sono invece mature per produrre benefici reali?
La storia recente delle innovazioni tecnologiche, e dei loro effetti sul sistema economico, ci dovrebbe suggerire come distinguere la sostanza dal sensazionalismo. Si tratta di diffondere una nuova consapevolezza in merito all’adozione delle tecnologie che sia in grado di coniugare il fronte delle opportunità digitali con le esigenze aziendali e il sistema economico.
La complessità delle variabili in gioco e la rapidità con cui evolvono le tecnologie espongono al rischio di investimenti poco remunerativi, sebbene saper sbagliare alla svelta valga quanto fare le cose giuste, ma in ritardo. Esistono quindi errori che si fanno per buone ragioni, ma che tuttavia non devono far passare per inevitabili quelli che invece si fanno solo per scarsa consapevolezza. Tra le buone cause per sbagliare c’è la necessità di sperimentare dal vivo, il learning-by-doing, l’essere avanti con conseguente assenza di riferimenti diretti o di analogie.
Anche in presenza di buone motivazioni, ci si trova spesso in situazioni dove è necessario uno spazio economico per assorbire un possibile spreco di risorse, unito a una forte propensione al rischio: condizioni raramente riscontrabili nella maggior parte delle aziende. Ci sono però errori che non possono essere giustificati, anche a fronte di una forte pressione mediatica e di sistema. Nasce quindi l’esigenza di creare una diversa consapevolezza nei confronti delle nuove tecnologie, ma soprattutto quella di considerare questa interazione con il «nuovo» come strutturale, e non più semplicemente episodica.
Questo è un momento di grandi opportunità, grazie al formidabile allineamento di diverse tecnologie digitali, in maniera simile a quanto è avvenuto in altri campi nel passato. I risultati scaturiscono da una profonda riflessione sulle caratteristiche delle tecnologie e sul loro potenziale. Alcuni trend tecnologici oggi molto in voga – come i big data, il cloud computing e l’Internet of Things (IoT) – esemplificano tutto ciò.
Quanto sta avvenendo sul fronte dei cosiddetti big data si configura come la «tempesta perfetta», che causerà forti disillusioni, con il rischio di far perdere anche sostanza e il valore di business intrinseco di queste tecnologie. Inizialmente si sono enfatizzati i grandi progressi nella memorizzazione e nella capacità di elaborazione, anche attraverso sistemi intelligenti, capaci di estrarre conoscenza dai dati. Successivamente, a fronte di promesse tecnologiche sostanzialmente mantenute, sono stati individuati gli ostacoli nel percorso per giungere a risultati utili per le aziende: la qualità dei dati, la mancanza di esplicitazione del contesto (fondamentale nei fenomeni sociali), gli aspetti normativi, gli investimenti necessari per accedere ai sistemi di offerta più avanzati, i gap di conoscenza sul fronte dei metodi (come nel caso della statistica) o su quello del dominio di applicazione (per esempio riguardo al comportamento dei consumatori). Ancora una volta, è stato percorso tutto il tragitto che ha portato al picco delle attese fino allo sconforto sulle reali potenzialità della tecnologia, con conseguente spreco di risorse e annesso rischio di gettare via il bambino con l’acqua sporca. Si sarebbe potuto evitare tutto questo? A parere di chi scrive sì. Sarebbe bastato ricordare che le scienze sociali non sono esatte, che il numero di errori cresce al crescere delle variabili considerate[6], che nelle aziende le grandi quantità di dati sono state spesso accumulate per tracciare fenomeni diversi da quelli che si vogliono studiare, che esistono molti errori di misura e incongruenze nei dati, tali da renderli inutilizzabili a meno che non si affrontino forti investimenti per la loro integrazione e qualità.
Il cloud computing affonda le sue radici negli ASP (Application Service Provider) della fine degli anni Novanta, ma solo in tempi molto recenti se ne sono messe a fuoco tutte le implicazioni, quelle di sostanza (sicurezza, protezione dei dati, responsabilità aziendali, integrazione con le applicazioni legacy), e non quelle di facciata o ideologiche che ne hanno diluito i benefici nel tempo e ne hanno ritardato l’adozione anche in quei casi per cui la tecnologia sarebbe stata matura.
Nel caso dell’IoT, la possibilità di avere capacità di elaborazione e connettività a bassissimo costo ha portato a definire ambiti di applicazione pressoché infiniti: dalla domotica ai veicoli a guida autonoma, dagli elettrodomestici interconnessi a una nuova generazione di macchine manifatturiere, dai droni per usi civili al tracciamento di intere filiere alimentari. Contemporaneamente scopriamo che, per fare un esempio, se prima premendo un interruttore si accendeva istantaneamente una luce, ora dobbiamo fare i conti con una latenza variabile; oppure che il quadro normativo non è pronto, con tutte le necessarie implicazioni legali, o ancora che semplici dispositivi domestici pongono importanti quesiti sulla privacy e sulla sicurezza, e così via.
Volendo fare un ultimo esempio, quando prenderemo piena coscienza che il senso di nausea indotto sarà uno degli ostacoli più difficili da superare per la diffusione della realtà virtuale immersiva[7]?
Un manifesto per la digital transformation
Il fermento tecnologico digitale continua a creare innovazione e valore economico per le imprese. Viviamo in un’era che ha generato progressi inimmaginabili. Però, dopo più di cinquant’anni di innovazioni digitali «disruptive», non possiamo permetterci di non avere un approccio sistematico e disincantato, ma al tempo stesso ricettivo di tutte le tecnologie che possono migliorare l’economicità aziendale e le condizioni di chi lavora in azienda. Si tratta quindi di costruire un percorso virtuoso che, pur mantenendo l’entusiasmo e l’apertura alle novità, consenta di affrontare la trasformazione digitale senza cadere negli eccessi dell’iperbole grazie alla resilienza agli effetti moda, a solidi fondamentali dell’economia aziendale e alla profonda conoscenza delle tecnologie sottostanti le varie innovazioni. La Figura 2 rappresenta visivamente il concetto.
Figura 2 Il «taglio» del percorso hype cycle
Come si può vedere, il «taglio» rappresentato nella Figura permette di anticipare la valorizzazione delle tecnologie e di ridurre lo spreco di risorse. Qui di seguito proponiamo una serie di considerazioni che possono aiutare a definire un percorso di trasformazione digitale realistico ed efficace, in forma di «manifesto».
Rispettare le tecnologie. Non esistono tecnologie ICT banali, esistono le banalizzazioni di chi non le conosce.
Evitare di diventare pseudo esperti grazie alla frequentazione diretta di tecnologie digitali. Aver guidato per migliaia di chilometri non fa di un automobilista un esperto di progettista di veicoli.
Riconoscere che è fondamentale accedere a competenze tecnologiche che sono specializzate, sofisticate e rarefatte. A differenza di quanto si può pensare le competenze digitali non sono né diffuse, né facilmente accessibili. Servono infatti impulsi di conoscenza specializzata che non sono compatibili con la maggior parte delle dimensioni aziendali e possono venire solo dai centri di ricerca, dalle aziende di prodotti e servizi ICT che sono le uniche ad avere le dimensioni necessarie per potersi permettere questo «lusso». La crescente sofisticazione tecnologica acuisce il fenomeno. Si pensi, per esempio, al tema della sicurezza: chi, oggi, si può permettere esperti capaci di affrontare tutte le tipologie di attacchi informatici? La battaglia per il mantenimento di competenze tecnologiche specialistiche è persa in partenza. Meglio sarebbe che l’organico aziendale fosse limitato al solo saper fare da ponte tra gli esperti e il fabbisogno aziendale. In altri termini: creare una cabina di regia e disporre della capacità di fare le domande giuste, piuttosto che dare le risposte sbagliate.
Rispettare le leggi dei mercati e della razionalità economica. Anche se è vero che le tecnologie digitali rappresentano una delle leve più potenti per generare valore, è improbabile che ciò costi poco in termini economici, di conoscenze e di capacità. La visibilità dei casi di successo e la presunta esistenza di un’inesauribile fonte di facili profitti sono la principale causa dell’esplosione delle bolle tecnologiche.
L’approccio da savvy adopter può essere il più opportuno per la gran parte delle aziende. Se il core business di un’azienda non è l’innovazione digitale stessa (IT based), o fondato sulle tecnologie digitali (IT intensive)[8], un monitoraggio vigile e reattivo delle nuove tecnologie vale sicuramente molto di più di un’innovazione acritica e poco ponderata. Acquisire, per esempio, tecnologie che non sono ancora adottabili perché cadono in un vuoto normativo non è segno di innovazione, ma di imperizia. L’approccio suggerito vale in particolare in tutti quei casi in cui le dimensioni aziendali non consentono gli spazi economici e di conoscenze per fare sperimentazioni.
Una visione sistemica e ponderata sia sul fronte tecnico, sia su quello economico è sempre auspicabile, purché non diventi un alibi per non considerare con attenzione tutta la gamma di opportunità che la tecnologia continua a offrire alle imprese.
· Il giusto compromesso tra innovazione e risultati non si ottiene separando tradizionale e nuovo, business as usual e nuovi business. Se la struttura aziendale non è adeguata per cogliere l’innovazione tecnologica, essa va cambiata, non segmentata. I modelli duali non sono una soluzione convincente, soprattutto se si vuole che l’adozione dell’innovazione diventi un’attitudine e non un progetto isolato.
I modelli tradizionali di change management non funzionano nella digital transformation. La distonia tra la velocità dei cambiamenti digitali e i tempi necessari per il coinvolgimento delle persone richiede un cambiamento radicale dei tradizionali modelli di accompagnamento organizzativo: per esempio assecondando le diverse attitudini nei confronti delle tecnologie digitali.
Le precedenti considerazioni suggeriscono un percorso virtuoso per la digital transformation, a cui affiancare la consapevolezza che il sistema economico ha già subito trasformazioni esponenziali e «disruptive», quali la diffusione dell’energia elettrica, l’introduzione del motore a scoppio, le trasmissioni radio, la prima rivoluzione informatica, la diffusione dei personal computer. È quindi lecito domandarsi se il reiterato impiego del termine «disruptive» abbinato alle tecnologie digitali sia appropriato o solo dovuto a un’era mediatica dove il superlativo assoluto è diventato la norma. Le conoscenze e le esperienze acquisite ci dicono che siamo e sempre saremo sottoposti all’innovazione, al cambiamento e alla complessità: ecco perché la digital transformation è e sarà «disruptive as usual».
Un manifesto per la digital transformation
· Rispettare le tecnologie
· Evitare di diventare pseudo esperti
· Riconoscere il valore delle competenze tecnologiche
· Rispettare le leggi dei mercati
· Essere savvy adopter
· Avere una visione sistemica
· Tradizionale e nuovo non sono separabili
· Andare oltre il change management
Nello specifico, Apple, Alphabet – ovvero Google –, Microsoft, Facebook e Amazon, per un valore di capitalizzazione di circa 2180 miliardi di dollari.
G.E. Moore, «Cramming More Components onto Integrated Circuits», Electronics, 38(8), 1965, pp. 114-17.
M. Raskino, J. Fenn, Mastering the Hype Cycle: How to Choose the Right Innovation at the Right Time, Cambridge (MA), Harvard Business Press, 2008.
N.M. Taleb, «Beware the Big Errors of ‘Big Data’», Wired, 8.2.2013, www.wired.com/2013/02/big-data-means-big-errors-people/.
R. McCormick, «First Click: Does VR Need a Nausea Rating System?», The Verge, 31.3.2016, http://www.theverge.com/2016/3/31/11336430/first-click-does-vr-need-a-nausea-rating-system.
Data la sua struttura, il sistema economico italiano, in particolare, non vede la presenza di molte aziende che ricadono nella fattispecie descritta. Nel settore manifatturiero, nell’agricoltura e anche nel settore finanziario le tecnologie digitali sono pervasive e critiche, ma hanno un’influenza relativa sui risultati reddituali. La riprova di questo concetto è che molte aziende italiane sono state e sono competitive nonostante un certo ritardo nell’adozione di innovazioni ICT e nei processi di digitalizzazione.