E&M
2013/6
Indice
Editoriale
La finestra sul mondo
Moneta, finanza e regole
Il Diversity Management
Al di là degli obblighi di legge. L’inserimento al lavoro di persone con disabilità intellettiva
Il mercato del private equity e degli LBO
Le strategie di add-on nel private equity. Una scelta necessaria per valorizzare le way-out
Fuoricampo
Articoli
Supply chain management e competitività. Casi di successo nel made in Italy
La gestione del disservizio: una leva per la fidelizzazione dei clienti
Figlie e azienda di famiglia. Il delicato equilibrio tra volere e potere
Storie di straordinaria imprenditorialità
Dove l’innovazione meno te la aspetti
Scarica articolo in PDFUna delle poche certezze rimaste nel mondo dell’innovazione (inclusivo di chi intende l’innovazione sia come un processo prevalentemente tecnologico guidato dalla ricerca e sviluppo sia come un processo che incorpora le idee degli utenti e dei clienti finali attraverso il marketing) si riconduce all’importanza del sapere pratico (know-how) e scientifico (know-why) legati all’innovazione stessa. sviluppare un’innovazione e lanciarla sul mercato significa anzitutto possedere quel know-how e quel know-why per valorizzarne l’effettiva funzionalità industriale. Chi non investe in competenze in grado di costruire, e nel tempo accrescere, le due forme di sapere non riuscirà nella sostanza a innovare per il mercato e, se del mercato non fa ancora parte, non arrecherà certo problemi a chi ne è leader, che difatti custodisce strettamente tale sapere. Per questa ragione nei settori tecnologici e nei settori creativi si investono molti denari per sedimentare e consolidare know-how e know-why. E oggigiorno lo si fa anche rispetto a traiettorie innovative molto differenti, che rappresentano vere e proprie opzioni strategiche per l’azienda che in esse investe. Per esempio, un direttore di R&D moderno alloca le proprie risorse rispetto a un portafoglio di tecnologie, tra loro spesso anche distanti, per mantenere aperti gli scenari di evoluzione industriale del proprio settore. Similmente, un responsabile Marketing legato all’innovazione studia clienti e utenti anche molto differenti rispetto al segmento di mercato servito al fine di cogliere eventuali segnali deboli di cambiamento del mercato stesso. Negli ultimi anni è difatti emerso chiaramente come nei settori altamente innovativi il sapere sia scosso da cambiamenti, a volte anche strutturali, che richiedono di guardare ad ampio raggio all’evoluzione della conoscenza tecnologica e di mercato. Per evitare la oramai celebre fine di Kodak (fallita ufficialmente a gennaio 2012), è quindi opportuno non rimanere ossessionati dal proprio sapere, ma andare anche verso nuovi orizzonti che risultano importanti per l’evoluzione del mercato stesso.[1]
Ma cosa succede se il cambiamento, anziché incentrarsi sul sapere, si materializza su aspetti periferici al sapere stesso? Cosa succede, cioè, se gli choc esterni che scuotono i settori periodicamente, anziché impattare sulle competenze distintive delle aziende leader impattano invece sulle risorse periferiche? Le risorse che sono periferiche nella creazione di valore (denominate anche complementary assets) sono considerate relativamente importanti rispetto alle competenze distintive. Si pensi, a mero titolo esemplificativo, alle competenze di produzione e di marketing (risorse periferiche) di un'impresa farmaceutica, rispetto a quelle tradizionalmente considerate competenze distintive (R&D).
La teoria strategica vigente in materia di cambiamento tecnologico direbbe: poco male. Le risorse periferiche, alla peggio, possiamo acquistarle sul mercato, essendo il sapere teorico e pratico quello che conta per ideare e fare l’innovazione. Così facendo, saremo eventualmente costretti a condividere il profitto con chi detiene tali risorse periferiche, ma ad ogni modo nulla accadrà alla risorsa strategica che guida l’innovazione e più in generale nulla accadrà al nostro business model.[2]
Questa affermazione, seppur consolidata e molto sensata, sta empiricamente diventando sempre meno valida in un crescente insieme di settori. Tra le tante sorprese ereditate dall’evoluzione delle piattaforme tecnologiche digitali, e più in generale dalla recente evoluzione del web, si assiste oggi a un fenomeno che ha una nuova natura e che porta a intendere sempre più che anche discontinuità che impattano non il know-how ma le risorse periferiche possano indurre cambiamenti strutturali del mercato e più in generale dell’ecosistema. Tali discontinuità possono peraltro sconvolgere la stessa leadership legata ai detentori del sapere pratico e scientifico.
Si pensi, a puro titolo esemplificativo, a quanto sta accadendo in alcuni settori, tra cui l’editoria, l’istruzione e, naturalmente, il nuovo ecosistema dell’ex mondo dei computer, che oggi molti associano alla parola “cloud”. In questi contesti, l’innovazione che è avvenuta alla periferia del know-how e del know-why non solo ha portato alla ribalta nuove aziende che cambiano la governance delle risorse periferiche, ma addirittura comincia a ridefinire lo stesso sapere teorico e pratico verso direzioni diverse da quelle originariamente prospettate da chi deteneva quelle forme di sapere ed era leader di quei mercati.
L’evoluzione dell’editoria fornisce un esempio quintessenziale di questa dinamica.[3] Il settore editoriale si nutre di conoscenza e creatività, e i giornalisti ne rappresentano l’emblema principale, detenendo tale core know-how. Da sempre, difatti, la concorrenza si manifesta nel ricercare e contendersi i migliori produttori di contenuto: i giornalisti. Per arrivare sul mercato il prodotto editoriale necessita, però, anche di parecchie risorse periferiche. Prima fra tutte le rotative, che permettono la produzione materiale del prodotto. Non meno rilevanti sono i canali di distribuzione, che consentono di avvicinare il prodotto all’utente, che si distribuisce nello spazio frammentato in modo capillare.
Il tema non cambia se si guarda al mercato editoriale dal punto di vista della sua altra tradizionale fonte di ricavi: la pubblicità. Anche in questa circostanza il know-how e il know-why, in generale legati alle capacità negoziali e relazionali di assistere e vendere spazi pubblicitari agli inserzionisti, sono rimasti saperi validi e molto ricercati. Prova ne è che le stesse technology companies e i media digital native sono a caccia di tali competenze, che spesso acquistano assumendo personale dalle storiche imprese editoriali.
Aspetto interessante del settore in oggetto è che il cambiamento tecnologico non ha colpito il know-how (e neppure il know-why), ma semplicemente il processo distributivo e manifatturiero. Internet in prima battuta, e i tablet in un secondo momento, stanno tendenzialmente azzerando il valore delle risorse periferiche tradizionali rendendo i prodotti direttamente accessibili agli utenti senza passare dalla produzione fisica (rotative) e i canali di distribuzione (edicole e altro).
Poco male, si potrebbe dire: tanto il know-how (leggi, le competenze editoriali) è ancora strettamente detenuto dalle aziende leader. Peccato che la caduta delle risorse periferiche abbia messo in evidenza una funzione cruciale, e ad oggi poco investigata, che esse svolgono. E cioè: tali risorse fungono da barriere all’entrata al sapere. È da tempo noto che tali risorse periferiche sono fondamentali per la finalizzazione dell’innovazione e l’appropriazione di valore (possedere know-how senza possedere risorse periferiche costringe a cedere parte del valore a chi le possiede per finalizzare l’innovazione). Tuttavia, meno noto e probabilmente più drammatico è il fatto che quando tali risorse cambiano radicalmente, non solo cambiano i fornitori delle stesse, ma i nuovi fornitori possono accedere più facilmente al sapere scientifico e pratico fondamentale e cambiarlo verso nuove direzioni. Detenendo le risorse periferiche (e quindi tra l’altro “l’ultimo miglio” che lega aziende a consumatori), i nuovi produttori di risorse periferiche possono influenzare i processi di consumo e di uso dei prodotti core. La crisi attuale nel modello di business prodotto delle case editoriali, a favore di detentori di piattaforme e devices (come Google e Apple), blog settoriali e aggregatori (come l’Huffington Post) ne è palese evidenza. Per non parlare del mercato pubblicitario dell’editoria che oggi tende a gravitare nelle mani, tra l’altro, dei motori di ricerca.
La dinamica si sta palesando anche nel mondo dell’istruzione con i cosiddetti MOOCs (Massive On line Open Courses). Per la prima volta da qualche anno, e sempre grazie alle piattaforme digitali aperte, è possibile immaginare la docenza al di fuori dell’aula. La scuola e l’università vivono di sapere (i ricercatori e i docenti) e anche di risorse periferiche (tutto quanto contribuisce a rendere convincente e possibile per uno studente la scelta di una specifica scuola o di una università: dagli uffici che si occupano della logistica delle aule, agli uffici che sono dedicati all’ammissione e selezione, a quelli che offrono sbocchi di mercato, agli uffici che offrono sostegno, a quelli che comunicano il valore dell’istituzione stessa). Se fino a qualche tempo fa la rete consentiva fondamentalmente di erogare la medesima docenza on line o poco più, oggi, grazie agli impressionanti upgrade tecnologici e al potenziamento della rete, è possibile fare anche molto altro. La docenza può arrivare direttamente a casa del potenziale utente senza necessariamente possedere le risorse periferiche tradizionali. E arriva con risultati oggettivamente invidiabili sia dal punto di vista della connessione sia dal punto di vista dei contenuti. Per esempio, Mike Lenox della University of Virginia ha appena svolto un corso fondamentale di Fondamenti di Business Strategy via MOOCs. I risultati del potenziale relazionale dei MOOCs sono oggettivamente sorprendenti.[4] Ma anche dal punto di vista del contenuto le cose possono cambiare nella sostanza e stanno oggettivamente già cambiando in modo dinamico e innovativo.[5] Non a caso le new ventures, cioè i cosiddetti nuovi entranti di questo settore magmatico, non si preoccupano necessariamente di allearsi con i leader (alcuni lo fanno), ma prendono anche l’iniziativa di giocare da soli. E lo fanno in modo dinamico e innovativo.
Cosa si cela quindi dietro a queste semplificazioni? Tradizionalmente siamo portati a vedere l’innovazione solo nel know-how e non anche nelle risorse periferiche. Per questo siamo portati a intendere che il vero problema che si trova ad avere l’azienda leader si riconduca alle grandi discontinuità ambientali che portano nuove grandi ondate di innovazione nei cambiamenti sostanziali e radicali che impattano sul know-how. Ma non sulle risorse periferiche. Non siamo cioè portati ad aspettarci innovazione nelle risorse periferiche, perché le riteniamo di minore importanza e valore.
Il ruolo di tali risorse periferiche per l’innovazione è prevalentemente stato quello di complementare la finalizzazione dell’innovazione (per esempio produzione e commercializzazione) e di garantire l’appropriazione del valore creato. Alla peggio, in loro assenza, si tratta di condividere il profitto complessivo con chi le possiede, come qualche anno fa furono costrette a fare le imprese biotecnologiche che avevano il know-how e know-why della biotecnologia ma non possedevano le ingenti risorse periferiche per testare clinicamente i farmaci e portarli sul mercato. Dovettero allearsi con le grandi case farmaceutiche che ne condivisero i profitti.
Quello che sta accadendo nei settori menzionati è un fenomeno tanto nuovo quanto singolare. In primo luogo, le discontinuità tecnologiche possono colpire anche le risorse periferiche. Così facendo, azzerano il valore delle risorse detenute dalle imprese leader, che sono costrette a contrattarle con le nuove aziende che emergono nell’ecosistema cambiato. Alla luce della recente evoluzione delle piattaforme digitali non è difficile immaginare diversi altri settori che nel medio termine verranno aggrediti da questo fenomeno. In secondo luogo, le risorse in oggetto permettono alle nuove imprese di impossessarsi del know-how e di cambiarne le traiettorie evolutive. Difatti le discontinuità importanti nelle risorse periferiche possono portare a ridefinire l’intero ecosistema e fungono da cavallo di Troia per lo sviluppo di nuovo know-how. Sapere che prende forme e sostanza differente rispetto al passato.
Inutile dire che università e aziende editoriali, per citare gli esempi menzionati, se ne sono accorte da tempo, ed è per questo che stanno sperimentando nuove strade. Bisognerà far fronte a un cambiamento che mostra in modo tangibile quanto il luogo dell’innovazione a volte sia dove meno te l’aspetti. Dunque, non tanto (e solo) nel sapere scientifico e tecnico, che ha per anni rappresentato il mantra delle core competence, ma anche nelle risorse periferiche. Ignorare i cambiamenti tecnologici in esse localizzati può alla lunga portare a rendersi conto che il sapere che si detiene è commercialmente obsoleto. E ciò è avvenuto non tanto perché è di per sé invecchiato, ma in quanto assume forme e sembianze che non stimolano più l’interesse del mercato.
Rimandiamo ai precedenti editoriali “Se il leader del mercato non sa più innovare” (2009), n. 6, e “Innovazione di mercato quale leva per la crescita” (2013), n. 2 per l’illustrazione di queste dinamiche e per riferimenti bibliografici puntuali.
Si rinvia a qualsiasi libro di testo di strategia e tecnologia come, per es., tra i più recenti, Scott Shane, Technology Strategy for Managers and Entrepreneurs, Prentice Hall, 2010, e ai classici articoli Teece D.J., “Profiting from Technological Innovation”, Research Policy, 1986, volume 15, Issue 6, pp. 285-305; Prahalad C.K., Hamel G., “The Core Competences of the Corporation”, Harvard Business Review, 1990.
Per un’analisi completa si rinvia a Cozzolino A., Verona G., “From Paper to Clouds: Complementary assetdestroying discontinuity and shift in value creation in the Italian publishing industry”, SDA Bocconi DIR working paper, 2013; e al case study Cozzolino A., Verona G., Breakout News! The changing technology of the publishing business, Bocconi University, 2013.
Per cogliere il mutamento radicale del portato relazionale, Mike Lenox racconta all’intervistatore: “What was more exciting than the number of students was the geographic breadth they represented. There were 180 countries represented among those who originally signed up for the course, and there were 120 countries represented among those who completed it. There was a study group in Mongolia led by a Peace Corps representative. A 12-year-old, who was starting his own business, took the course. A former student from my time at Duke had analysts in his management consulting firm taking the class. Small business owners and entrepreneurs took the course to improve their organizations. In fact, 50 different countries had study groups physically meeting”. Si veda “Are MOOCs the Beginning of the End of B-Schools?”, Bloomberg Businessweek, July 25, 2013.