E&M
2007/5
Indice
Editoriale
Focus intervista
Doing business in China
Il mercato delle regole
Temi di Management
MIFID tra personalizzazione e standard di comportamento
Fuoricampo
Articoli
Il vantaggio competitivo delle sfilate milanesi: fonti e sostenibilità
Il lusso alla ricerca di un’identità
Un criterio di ripartizione dei ricavi televisivi delle società di calcio
I sistemi di costing nelle imprese di servizi: il caso I.L.-Logistics
Storie di straordinaria imprenditorialità
Fotogrammi
Il teatro dell’organizzazione
Nel nuovo film del regista danese Lars von Trier Il grande Capo il manager di un’azienda informatica viene rappresentato come un teatrante che recita una parte. O come un attore che simula un ruolo. E tutta l’organizzazione aziendale viene riletta attraverso la metafora del teatro.
Il grande Capo
Regia: Lars von Trier
Interpreti: Jens Albinus, Peter Gantzler
Danimarca, 2006
Il proprietario di una società di informatica mette in vendita l’azienda e per coprire una serie di scelte impopolari decide di inventarsi la figura di un finto Presidente, che nessuno ha mai visto. Tuttavia, quando i possibili acquirenti della società cominciano a insistere per incontrare faccia a faccia il “Boss”, il proprietario assume un attore fallito per interpretare il ruolo del Presidente. Lars von Trier, geniale regista danese di film come Dogville e Le onde del destino, ideatore dell’ormai decaduto manifesto “Dogma 95”, abbandona con il suo ultimo film i toni drammatici a cui ci aveva abituato e sceglie un registro in bilico fra il comico e il sarcastico: Il grande Capo è infatti una commedia acida e graffiante, anche se non priva di elementi di riflessione metafilmica, che ci offre una verosimile ricostruzione della vita di un’azienda in cui il proprietario si libera dei soci, ma è imbarazzato all’idea di perdere l’immagine di bonario primus inter pares. Tutti i personaggi sono visti solo in ufficio e in orario lavorativo, con le loro nevrosi, i loro tic, le loro paure. Tutti sono così presi dal loro gergo di tecnici computeristici da non accorgersi di esser stati presi in giro, per anni, dal loro amico/ socio/padrone, e di essere giunti alla fine del loro sogno di autogestione. Il film procede a colpi di finte, di voltafaccia, di simulazioni più o meno riuscite, ma dalle conseguenze sempre imprevedibili. Gli eterni trabocchetti aziendali, le invidie, le frustrazioni, gli amori, le rivalse anche erotiche, le piccinerie di ogni genere si intrecciano con effetti esilaranti alle fumisterie intellettuali dell’attore chiamato a recitare dal vero, ma troppo digiuno di bilanci e di informatica. E mentre si moltiplicano gli equivoci, le gaffes, i tentativi precipitosi e spesso rovinosi di limitare i danni, a poco a poco prende corpo l’idea che l’economia oggi sia soprattutto teatro. E che il potere, anche quello aziendale, sia anche, per certi versi, una mascherata, un bluff, un gioco ininterrotto di ruoli e di simulacri. È proprio così? Che suggestioni può fornire un film come Il grande Capo al mondo dell’economia e del management? Ne discutono, come di consueto, Severino Salvemini e Gianni Canova.
G.C. Mi pare che un film come Il grande Capo offra prima di tutto alcune possibili riflessioni interessanti e non scontate su un tema sempre d’attualità come quello della leadership. Mi ha molto colpito, per esempio, il modo in cui il proprietario dell’azienda è riluttante ad assumere visibilmente un ruolo di potere…
S.S. È vero. Il personaggio di Lars von Trier lo riconosce apertamente quando dice che tutte le società devono avere un Presidente, ma che lui non riesce a riconoscersi in quel ruolo. Preferisce far credere ai suoi collaboratori di essere un socio come gli altri. Si sottrae alla responsabilità di farsi carico del potere. Così, non avendo la capacità, la voglia e l’azzardo di giocare apertamente il suo ruolo, decide di farlo giocare a qualcun altro. Anche se poi usa lo spauracchio del “Grande Capo” per continuare a manipolare i suoi collaboratori. Per condizionarli e influenzarli come vuole, ma senza mai dare l’impressione di farlo…
G.C. Quindi, paradossalmente, la sua apparente refrattarietà all’esercizio del potere è una prima maschera per riuscire a esercitarlo meglio, il potere, ma sottraendosi alle critiche che l’esercizio del potere quasi inevitabilmente comporta.
S.S. Certo. Il primo attore è lui, non l’attore professionista che lui ingaggia per interpretare e simulare il ruolo del Capo. Quest’ultimo è, e non può che essere, un semplice gestore. Un agente. La sua è una funzione-tramite. Deve allinearsi agli obiettivi del “vero” Capo, e aiutarlo a realizzarli.
G.C. L’altro aspetto interessante, in questo quadro, è la refrattarietà dei vari collaboratori a lasciarsi “gestire”…
S.S. Non c’è dubbio. Tutti e sei i collaboratori principali non si adattano. Sono riluttanti a lasciarsi gestire. E ognuno esprime la propria riluttanza in maniera diversa: c’è chi tira in ballo il tema del sesso, chi quello del matrimonio, chi quello del castigo. Ognuno mostra peculiarità interessanti nel rifiuto della subordinazione. E ciò ci ricorda che la leadership è sempre una figura di relazione: il suo successo non dipende mai solo da come viene gestita, ma anche da come i subordinati si adattano o no a una modalità di esercizio del potere…
G.C. … ma ci ricorda anche che – almeno secondo la diagnosi di Lars von Trier – il potere è anche teatro, cioè simulazione, recita, messinscena. Ma allora, la domanda che mi pongo, e che ti pongo, è: il gran teatro dell’organizzazione è più simile alla commedia dell’arte o al teatro moderno post-goldoniano? In altre parole, si improvvisa su un canovaccio o si recita un copione già ben definito e strutturato?
S.S. Direi che si recita su un copione nelle organizzazioni statiche, meccaniche e prevedibili, mentre si può provare a improvvisare nelle organizzazioni più duttili, aperte e flessibili. Nel caso raccontato dal film, per esempio, siamo di fronte a un attore che all’inizio sembra avere un ruolo molto circoscritto e limitato a un copione predefinito, ma che alla fine – con il coup de théâtre conclusivo – cambia le carte in tavola e vende la società, compiendo un gesto che non era nel suo mandato…
G.C. … e che ridisegna, in qualche modo, anche la “maschera” dell’autorità. L’attore diventa autore, il personaggio esce dalla finzione e agisce sulla realtà…
S.S. Da un lato è così. Dall’altro, il film di Lars von Trier ci ricorda anche che quella che tu hai definito la “maschera dell’autorità” funziona, sul piano teorico, se assolve due condizioni. La prima è che le persone che “subiscono” l’autorità sospendano ogni giudizio razionale sull’autorità medesima. La seconda è che il “capo” disponga di un sistema premiante in termini di incentivi e sanzioni che spinga i collaboratori a adottare un certo comportamento. Un film come Il grande Capo mostra l’operatività di entrambe queste funzioni: il proprietario dell’azienda, attraverso la messinscena del Grande Capo, finge di disporre di informazioni riservate e coercitive (“C’è un Grande Capo fuori…”, “Mi hanno detto che…”) che i collaboratori non possono controllare. Perciò sono indotti a rinunciare a capire quel che sta succedendo e a seguire il Capo in modo totale. Sospendendo, appunto, il giudizio razionale, e accettando il “capriccio” dell’autorità in base al sistema di premi e sanzioni che l’autorità stessa si mostra in grado di comminare. Da questo punto di vista, il film di von Trier coglie in modo davvero interessante e stimolante alcune delle reali dinamiche organizzative dell’azienda contemporanea.