E&M

2007/5

Vincenzo Perrone

La quinta stagione del lavoro

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I presidenti di Camera e Senato, entrambi ex sindacalisti, hanno avviato, con il contributo di esperti e del CNEL, una ricerca ad ampio spettro che dovrebbe consentirci di comprendere come il lavoro si sia trasformato in questi ultimi anni nel nostro paese e quali evoluzioni possiamo aspettarci nel prossimo futuro. Si tratta di un’iniziativa meritoria. Nel secolo scorso, il secolo dell’industria, e nei paesi che si sono sviluppati di più e meglio, il lavoro aveva conquistato una posizione centrale nell’economia e nella società. Anche sulla spinta di grandi movimenti sociali animati da ideologie forti. In questa alba incerta di un nuovo secolo quella centralità sembra perduta e il lavoro pare condannato a un ruolo marginale.

L’arretramento è in primo luogo sostanziale: le quote della ricchezza prodotta e ridistribuita ai fattori di produzione hanno visto decrescere in modo sostanziale la percentuale destinata a remunerare il lavoro in rapporto a quella destinata al capitale. Questo fenomeno ha cause diverse e tutte rilevanti per il nostro paese in particolare. In primo luogo l’innovazione tecnologica, e la rivoluzione informatica che ne costituisce il cuore, quando non hanno sostituito del tutto il lavoro dell’uomo ne hanno fatto aumentare la produttività e lo hanno semplificato rendendo meno rilevante in molti casi la qualificazione professionale, con conseguente riduzione del valore. Poi ci sono gli effetti della globalizzazione: l’affacciarsi nell’arena competitiva mondiale di paesi a basso costo del lavoro e la connessa delocalizzazione di processi produttivi da paesi ad alto costo verso i paesi a basso costo di manodopera hanno avuto l’effetto di “calmierare” le retribuzioni nei primi. Si tratta di un effetto destinato nel tempo a ridursi quanto più si svilupperanno le economie di paesi come la Cina o l’India e con esse il livello dei salari e, più in generale, di benessere di quelle popolazioni. Ma per ora la globalizzazione gioca contro il valore del lavoro, con due eccezioni significative. La prima è data dal lavoro per l’amministrazione pubblica: proprio perché difficilmente questo lavoro può essere minacciato dalla delocalizzazione (è immaginabile forse che il lavoro di back office necessario, diciamo, a far pagare ai cittadini le multe venga fatto in outsourcing, magari in un paese del vicino Est Europa, a una frazione del costo attuale?) il potere di questa categoria di lavoratori e dei sindacati che li rappresentano si è mantenuto intatto e ha lavorato a favore dei salari. La seconda eccezione è data da quelle situazioni nelle quali è il lavoro ad assumere il capitale. Perché questo accada occorre che il capitale umano abbia un valore superiore a quello del capitale finanziario, sia più scarso di quest’ultimo, più difficilmente producibile e per questo più prezioso. Il lavoro intellettuale sofisticato, quello creativo o legato alla ricerca e allo sviluppo di nuove tecnologie, e quello capace di generare in modo imprenditoriale nuovi prodotti e nuovi mercati hanno le caratteristiche necessarie per invertire il rapporto di forza rispetto al capitale finanziario il quale, soprattutto quando è abbondante e mobile come in questi anni, diventa una commodity disponibile per persone capaci di generare opportunità di rendimento. Quanto minore, però, è la quota di capitale umano con queste caratteristiche di rarità e preziosità disponibile per un paese, per esempio il nostro, tanto maggiori sono la perdita di valore del lavoro e la sua suscettibilità agli effetti negativi di innovazione e globalizzazione insieme.

Il flettersi strutturale del valore del lavoro è stato accompagnato e amplificato dall’affermarsi, sul piano simbolico, di correnti di pensiero e atteggiamenti svalutativi dell’etica del sacrificio e dell’impegno e orientati piuttosto a legittimare il successo, ottenuto possibilmente senza sforzo, il consumo e la rendita. Lavorare stanca, poetava Cesare Pavese, per il quale anche la vita era un mestiere troppo difficile: e molti, con in prima fila i tanti, troppi, assenteisti e fannulloni italici che periodicamente assurgono al (dis)onore delle cronache, sono assolutamente d’accordo con lui. D’altra parte il lavoro porta inscritto nel proprio nome quel senso di maledizione divina (il doversi guadagnare da vivere con il sudore della propria fronte è il primo effetto della cacciata dal paradiso) che molti finiscono con l’attribuirgli ogni mattina. Secondo un autorevole dizionario etimologico pare, infatti, che la parola abbia origine da un verbo, labare, con il quale si intendeva letteralmente il vacillare sotto un enorme peso. E la cosa diventa ancora più evidente se si guarda alle parole usate per indicarlo in altre lingue del ceppo latino e in certi nostri dialetti: trabajo o travail fanno riferimento addirittura ai “tre pali” ai quali il condannato veniva appeso per essere torturato! Il lavoro come fatica e tortura: si comprende bene come il sogno di liberarsi dal lavoro, di minimizzarne il peso e la durata nella propria esperienza di vita sia ampiamente diffuso. E si comprende anche perché si cerchi almeno di salvaguardarne il valore strumentale: se l’esperienza in sé non è particolarmente appagante, che almeno il salario consenta di vivere e di accedere ai livelli di consumo medio della comunità alla quale si appartiene, che almeno le regole di durata e intensità di lavoro e di protezione del posto di lavoro siano capaci di garantire con assoluta continuità quel reddito che diventa la base reale di costruzione del proprio progetto di vita e della propria identità, visto che a questo fine il lavoro in sé e l’ambiente nel quale si svolge poco hanno da contribuire.

Crediamo che questi temi, quelli delle regole del mercato del lavoro e del livello delle retribuzioni che in esso si stabilisce, siano assolutamente importanti e giustamente al centro del dibattito sociale e politico, oltre che economico. Paventiamo però il pericolo che finiscano con il mettere in secondo piano una riflessione ancora necessaria nei paesi sviluppati come il nostro, anche se non più di moda o politicamente corretta, sui contenuti dell’esperienza di lavoro in sé, sulla forza di quella esperienza e sulla necessità di operare per lo sviluppo di modelli organizzativi capaci di liberare il lavoro e renderlo fonte di soddisfazione intrinseca. In inglese lavoro si dice anche work, così come il tedesco offre l’alternativa di werk ad arbeit: l’etimo di queste parole conduce alla radice greca erg che sta per “energia”. Il lavoro è anche energia applicata alla trasformazione di sé e della realtà. Grande parte dell’innovazione organizzativa degli ultimi cinquant’anni è stata orientata a ridurre la componente di fatica e di mancanza di senso nel lavoro per liberare energia, per renderlo maggiormente produttivo e aggiungere contenuti più alti a questa esperienza centrale nella vita di ciascuno di noi.

Questa spinta al cambiamento e all’evoluzione positiva dei contenuti del lavoro sembra oggi essersi pericolosamente ridotta, e questo è forse il sintomo più preoccupante della progressiva marginalità del lavoro. Perché senza attenzione al “come” e al “perché” si lavora, oltre che alle condizioni alle quali si è disposti a farlo, si fa spazio a un progressivo degrado che ha riflessi anche sull’identità delle persone, sulla loro crescita e sulla loro cittadinanza. Per reagire occorre almeno ricordare che sono in primo luogo la crescita economica e la specializzazione produttiva del paese nei settori avanzati e knowledge intensive a offrire le migliori opportunità di sviluppo e miglioramento dei contenuti del lavoro, che la diffusione di autonomia decisionale – unita a responsabilità attraverso una revisione dei modelli organizzativi volta a renderli più reattivi ai cambiamenti ambientali – arricchisce il significato di compiti e mansioni attribuiti agli individui, e che sono soprattutto i dirigenti delle nostre imprese responsabili di creare e mantenere un clima organizzativo (fatto in primo luogo di regole chiare e rispettate) nel quale la dignità e il valore delle persone siano promossi e rispettati.

Su questi temi ci sarebbe davvero bisogno di un tempo nuovo di attenzione, di confronto e di proposta. L’autunno, più o meno caldo, è invece da sempre nel nostro paese la stagione dei rinnovi contrattuali, delle negoziazioni e degli scontri duri tra posizioni estreme. Tra chi vuole una rigida, ideologica e schematica affermazione della centralità del lavoro, che finisce con essere difesa di quanti un lavoro già ce l’hanno, ma non magari delle loro compagne o dei loro figli che un lavoro ancora lo stanno cercando. E i campioni oltranzisti di una libertà senza diritti e senza protezioni, che finisce con lo sconfinare nell’illegalità e nell’arbitrio a danno dei più deboli e per assecondare un’idea di società dove i valori che il lavoro insegna, quelli del merito, della disciplina, dell’apprendimento continuo, dell’efficacia e dell’efficienza, dell’impegno e dell’orientamento a un risultato appassiscono come le foglie a vantaggio dell’affermazione aggressiva di ideali e idoli di consumo e successo senza fatica.

Nella medicina tradizionale cinese, l’autunno è associato a una delle cinque fasi o movimenti primordiali, detti wuxing, che definiscono l’universo e ne determinano, alternandosi e trasformandosi l’uno nell’altra, l’evoluzione dinamica. Il materiale simbolo di questa fase e dell’autunno, quando le cose si chiudono su se stesse e l’emozione prevalente è la tristezza, è il metallo. Rigido e indeformabile, rappresenta la durezza e la fissazione. Per fortuna questi antichi saggi credevano nell’esistenza di una quinta stagione collocata proprio a cavallo tra l’estate e l’autunno. Un tempo breve, il cui simbolo materiale è la terra, fatto per seminare, per crescere e per maturare. Un elemento posto al centro di tutti gli altri e associato all’idea di trasformazione, di cambiamento sostenuto e generato da una profonda riflessione. Perché la discussione sul lavoro porti frutto occorre sapersi collocare in questa terra di mezzo, occorre avere la curiosità necessaria e l’onestà intellettuale indispensabile per guardare a come il lavoro si è trasformato nella prassi concreta della vita degli individui e delle aziende. E da lì partire per una ricerca seria che porti elementi utili per decidere non solo delle forme e delle regole che devono governare le condizioni alle quali un lavoro lo si trova, lo si mantiene, lo si cambia o lo si lascia. Forme e regole che devono essere ripensate con coraggio ora per essere eque oggi e domani per il maggior numero possibile di soggetti, e non frutto di una sterile coazione a ripetere modelli che andavano bene ed erano giusti quando l’organizzazione delle attività economiche e della società nella quale queste si svolgono erano profondamente diverse.

Al di là di questo, è necessario però sapere prestare nuovamente attenzione alle qualità intrinseche dell’esperienza di lavoro e alla qualità dell’ambiente organizzativo nel quale quella esperienza si realizza. Se è vero, infatti, che la precarietà, l’assenza di garanzie tanto per i lavoratori quanto per i disoccupati, unite allo sfruttamento, minano alla radice la struttura stessa di una società, siamo altresì convinti che una società non possa definirsi moderna e avanzata, non abbia saputo mettere a frutto appieno l’innovazione tecnologica e il progresso scientifico, non abbia davvero innalzato il livello medio di benessere se non si è posta la questione, essenziale e mai eludibile per troppo tempo, del senso del lavoro. Della possibilità, cioè, che siano progressivamente maggioritarie esperienze di lavoro e ambienti di lavoro nei quali la crescita morale e culturale degli individui non solo è desiderata ma attivamente perseguita, mentre diminuisce la quota di lavoro privo di senso e totalmente servile. Sembrano obiettivi utopistici o questioni da sociologia dell’alienazione degli anni settanta del secolo scorso. E invece niente è più avanzato e moderno di ciò che ancora importa all’uomo in faticoso cammino sulla strada di una equa, libera e massima realizzazione di sé.