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2007/4

L’elastico dei pantaloncini si ruppe mentre si stava chinando per sistemare il pallone sul dischetto. Era la semifinale mondiale del 1938 e quel rigore ci permetteva di battere il Brasile per 2 a 1. In finale arriverà il secondo titolo della nostra storia. L’incaricato del tiro indugiò a lungo, con le mani ai fianchi per non restare in mutande. Poi prese una rincorsa dai passi brevissimi e con un tiro angolato fece secco il portiere. Fu l’ultima delle trentatré reti da lui segnate in nazionale. Milano gli ha intitolato lo stadio: Giuseppe Meazza. 

Scartato a un provino del Milan perché troppo magro, approdò all’Inter dove esordì a diciassette anni segnando undici reti. A lanciarlo in serie A fu un allenatore che più nessuno ricorda, Arpad Weisz. Nato nel 1896 a Solt, a cento chilometri da Budapest, arriva da noi in un modo strano: viene fatto prigioniero dai soldati italiani sul Carso. Dopo aver giocato nel Padova come ala sinistra, nel 1925 passa all’Inter. Niente di straordinario: undici partite e solo tre reti. Diventato allenatore, sarà lui a regalare all’Inter il primo scudetto a girone unico della storia, quello del 1929-30, superando di due punti il Genoa e di cinque la Juventus. Il pupillo Meazza segnerà trentuno reti.

Passato al Bologna nel 1935, Arpad Weisz vince lo scudetto del 1936 sul filo di lana. L’ultima domenica batte la Triestina, grazie anche a un’autorete di Nereo Rocco, il futuro Paròn del Milan. L’anno dopo rivince il titolo. È l’epoca d’oro della scuola danubiana. Nell’Italia del 1935 sette allenatori sono ungheresi e solo cinque gli italiani. Weisz appartiene alla nostra storia. È stato l’allenatore più giovane a vincere un campionato, record non ancora battuto. Ha vinto tre scudetti, uno con l’Inter e due con il Bologna. Per quasi un decennio, quando non vinceva la Juventus vinceva lui. Il 16 ottobre 1938 il suo Bologna batte la Lazio per 2 a 0, ma l’allenatore sparisce nel nulla.

Era ebreo. A nulla gli era servito cambiare l’iniziale del cognome e diventare Veisz. Cercò sino alla fine di difendere la sua famiglia: la bellissima moglie Elena; Roberto, che non finirà mai la terza elementare iniziata a Bologna; Clara, nata nel 1934. In fuga dalle leggi restrittive italiane, comincia una vera odissea. Rifugiato a Parigi, non ci sono i soldi per tentare l’unica via di scampo: una fuga in Sudamerica. Il bisogno di lavorare spinge Weisz ad allenare una squadra di serie B, ma proprio in quell’Olanda dove neppure Anna Franck, ben nascosta, riuscì a sopravvivere. Tutta la famiglia fu internata in un campo di concentramento, nel disgusto aberrante delle stelle colorate: rosa per gli omosessuali, nere per gli zingari, rosse per i politici, viola per i testimoni di Geova, verdi per i prigionieri comuni, gialle per gli ebrei. I quattro viaggiano verso Auschwitz sullo stesso treno ma, appena arrivati a destinazione, il 5 ottobre 1942, moglie e figli scompariranno nelle camere a gas. Lui, abile al lavoro, è risparmiato ma non ha più una ragione per vivere. Muore il 31 gennaio 1944. In Italia, in quel momento, il primo campionato di guerra sta per essere vinto dai Vigili del Fuoco di La Spezia. Tutto sconvolto. 

E dire che era salito in alto come nessuno. Nel 1937, con il suo Bologna campione d’Italia, partecipa al trofeo dell’Esposizione a Parigi, una specie di Coppa dei Campioni dell’epoca. Nella prima partita batte i francesi del Sochaux e poi i cecoslovacchi dello Slavia. In finale gli tocca uno squadrone inglese, borioso perché invincibile. Il Bologna di Weisz lo sconfigge per 4 a 1. Era il Chelsea.