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2006/4
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Struttura finanziaria e scelte strategiche di diversificazione. L’esperienza italiana (1980-2000)
Le modifiche del rating influenzano il comportamento degli investitori?
Enti locali e società partecipate: quale controllo per i servizi pubblici
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Lo strip-tease dell’innovazione
Nel nuovo film del regista inglese Stephen Frears un’impresa di spettacolo nella Londra della fine degli anni trenta diventa un modello di organizzazione, di innovazione e di creatività gestionale applicabile anche a molte situazioni dell’economia immateriale della società contemporanea.
Lady Henderson presenta
Regia: Stephen Frears
Interpreti: Judi Dench, Bob Hoskins
Gran Bretagna, 2006
Londra, fine anni trenta. Lady Henderson (Judi Dench) rimane vedova ed eredita una discreta fortuna dal defunto marito. Le amiche le suggeriscono di darsi al ricamo e alla carità, ai gioielli e agli amanti, ma lei non ci sta. Vuole reinvestire il capitale in un’attività proficua ma anche appassionante. Così decide di comprare un teatro, il Windmill, e di ristrutturarlo. I problemi cominciano quando si tratta di organizzarne la gestione e di stabilire la programmazione e il cartellone. Lady Henderson chiama a capo della struttura un direttore artistico di origini ebree (Bob Hoskins) che – a fronte della crisi in cui versano quasi tutti gli altri teatri londinesi con l’approssimarsi della guerra – si inventa una nuova forma di spettacolo, la revue-de-ville, una rivista che va in scena tutto il giorno, no stop. La trovata, che scardina la tradizione degli orari rigidi del teatro non solo londinese, ha una fortuna imprevista, e il Windmill ritrova all’improvviso pubblico e incassi. Il successo è così evidente che – come spesso accade in situazioni simili – gli altri teatri copiano l’idea e adottano l’“orario continuato” introdotto dal direttore artistico del Windmill. Per fronteggiare la concorrenza interviene allora Lady Henderson, che sceglie ancora una volta l’innovazione radicale e propone di portare sulla scena il nudo femminile. Il direttore artistico non è d’accordo, la censura è in agguato e anche il Gran Ciambellano mostra più di una perplessità. Alla fine, la proposta di Lady Henderson viene accolta, ma con una limitazione: le ragazze del Windmill andranno in scena nude, ma resteranno immobili. Non attrici o interpreti di personaggi, insomma, ma semplici “figure” di tableaux vivants. Anche così ridimensionata, tuttavia, l’innovazione di Lady Henderson funziona: il pubblico accorre numeroso a godere delle generose grazie di procaci ragazzotte ingaggiate in provincia, che non vedono l’ora di trovare il loro attimo di celebrità nella capitale. Lo scoppio della guerra complica le cose. Il Gran Ciambellano vorrebbe chiudere il teatro, ma Lady Henderson improvvisa un comizio davanti a soldati e giornalisti raccontando la storia di suo figlio, morto ventunenne durante la prima guerra mondiale, senza mai aver potuto vedere una donna nuda. Il suo appello accorato è convincente e lo spettacolo continua. Le ragazze tornano in scena, in platea i soldati cantano in coro e Lady Henderson e il direttore ballano sul tetto mentre Londra brucia sotto il fuoco dei bombardamenti. Diretto con grazia e con complice ironia dal regista Stephen Frears, nome di punta del nuovo cinema britannico (My Beautiful Laundrette, Le relazioni pericolose, Piccoli affari sporchi), Lady Henderson presenta offre più di uno spunto per riflettere sul rapporto fra esigenze creative e razionalità economico-gestionale nell’organizzazione di un’impresa, non necessariamente solo di un’impresa di spettacolo. Ne discutono, come di consueto, Severino Salvemini e Gianni Canova.
S.S. Il film di Stephen Frears mette in scena con assoluta precisione la situazione che si viene a creare tutte le volte che un’organizzazione vede al suo vertice due competenze diverse, chiamate a cooperare per il medesimo fine: da un lato, la competenza amministrativa, finanziaria e gestionale, dall’altro la competenza per così dire artistica. Nel nostro caso esse sono incarnate rispettivamente da Lady Henderson e dal direttore del teatro. È una sorta di diarchia, un modello quasi classico in tutte quelle strutture che prevedono da una parte la presenza di un general manager, di un sovrintendente, e dall’altra di un direttore artistico con competenze sulla programmazione e sulle scelte più specificamente creative. In Italia, per esempio, quasi tutti i teatri, i musei, le gallerie d’arte funzionano così…
G.C. Si tratta di una forma di governance efficace? Cosa ti suggerisce la tua esperienza in proposito?
S.S. Qualcuno pensa che sia più utile avere al vertice una persona sola, che assommi in sé tutte le responsabilità gestionali e decisionali. La storia e l’esperienza ci dicono tuttavia che anche il modello di governance diarchico può funzionare egregiamente, a patto che le due persone coinvolte sappiano focalizzarsi su sottobiettivi diversi ma sinergici e coordinati.
G.C. Il problema messo a fuoco dal film di Stephen Frears nasce proprio da qui: dal fatto che l’impresario e il direttore operano continue invasioni di campo e rivendicano per sé compiti e funzioni che sulla carta dovrebbero essere di pertinenza del collega. Anche se poi da questo parziale mancato rispetto delle competenze nasce una dialettica non priva di esiti positivi, se non altro perché obbliga entrambi a continue verifiche del proprio operato…
S.S. Va detto, peraltro, che una simile struttura diarchica è attiva in buona parte delle imprese che prevedono un alto tasso di creatività o di invenzione simbolica: penso a campi come quelli della moda e del design, anche se di fatto nello scenario dell’economia immateriale anche le imprese produttrici di beni più tradizionali sono chiamate a fare i conti con questo duplice volto della governance e con la necessità di conciliare la razionalità economica con gli aspetti più squisitamente creativi.
G.C. C’è un altro aspetto che mi pare molto interessante nel film di Frears, ed è quello legato ai modi e alle forme dell’innovazione. È significativo il fatto che la proposta di innovazione più radicale venga non dal direttore artistico ma da Lady Henderson, cioè da una persona che non ha competenze specifiche e neppure esperienze artistiche. È come se la sua “incompetenza” la rendesse più libera da condizionamenti e da schemi preconcetti.
S.S. Hai richiamato un fenomeno ben noto, che ricorre spesso nella vita delle organizzazioni e che in area anglosassone viene definito come path dependence, la dipendenza dal proprio sentiero, dal proprio tracciato: se un’organizzazione ha successo, tende a riprodurre le tattiche e le strategie che hanno determinato il successo. Rischia di chiudersi, cioè, in un certo paradigma, senza avere più la capacità di pensare o ipotizzare soluzioni alternative. Lady Henderson, proprio perché estranea alla logica classica dell’impresario teatrale, senza alcun passato a cui fare riferimento, agisce sul sistema come una testa d’ariete e rompe tutte le convenzioni consolidate.
G.C. C’è un’immagine molto efficace, all’inizio del film, che illustra molto bene quello che stai dicendo: un’inquadratura dall’alto riprende una fila di auto lussuose, tutte nere. All’improvviso, inaspettatamente, una di esse sterza e se ne va, con un bizzarro effetto sorpresa che anticipa un po’ tutta la logica narrativa del film. Ecco: si può dire che il film ci ricorda – fin da questa immagine – come l’innovazione consista prima di tutto nella capacità di rompere gli schemi e di prendere un’altra direzione di marcia. ?