E&M

2006/4

Vincenzo Perrone

Chi trova un amico trova un tesoro

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“Chi trova un amico trova un tesoro: noi siamo i ragazzi più ricchi del mondo”. Dubitiamo che padre Tobia, il protagonista di una mitica serie tv della nostra infanzia (vedi editoriale precedente per dettagli sull’età), quando insegnava ai suoi ragazzi questa simpatica e rivelatrice canzone, avesse in mente un amico come Luciano Moggi o Stefano Ricucci. Eppure l’ormai vecchia tiritera musicale aveva il pregio di contenere una grande intuizione sociologica circa il nostro Paese e la nostra società: avere buone relazioni aiuta ad avere successo nella vita tanto quanto in un campionato di calcio o nella scalata a una banca. L’amico non aiuta infatti solo – la citazione è sempre dalla canzoncina – a tradurre “la versione di latino”.

Il sociologo statunitense Granovetter ha dimostrato, per esempio, che la qualità e soprattutto la varietà delle nostre relazioni sociali sono fondamentali nel darci più o meno possibilità di ritrovare un lavoro nel caso in cui dovessimo perdere quello che abbiamo.

Verità pratica nota a chiunque si sia mai fatto raccomandare con successo per una certa posizione. Sempre a questo sociologo si deve un concetto fondamentale nella sociologia economica contemporanea: quello di embeddedness. Si tratta di una parola di pressoché impossibile traduzione nella nostra lingua ma che indica un’idea non difficile da comprendere: noi, con le nostre decisioni e i nostri comportamenti, in primis quelli economici, siamo immersi in una rete di relazioni sociali che ci condiziona e, a sua volta, è condizionata da noi e dalle nostre scelte. Questa rete ci sostiene ed è strumentale alla nostra azione. Sono rilevanti sia la quantità di relazioni, che il loro contenuto e le caratteristiche delle persone che si trovano dall’altra parte di ciascun rapporto. Chi può vantare molte relazioni, tutte di contenuto positivo e con attori molto potenti, competenti e ricchi ha possibilità di azione sociale ed economica sconosciute a chi si trovi in una situazione opposta di povertà relazionale. E questo in modo relativamente indipendente dalle risorse e dalle capacità personali, anche se queste sono probabilmente necessarie per creare e sostenere nel tempo la rete. Le regine dei salotti milanesi e quelle delle terrazze romane sanno bene quanto conti e cosa produca una agenda che consente di mettere intorno allo stesso ricco buffet l’amico banchiere con il politico fidato, il giornalista brillante quanto influente con il malinconico professore membro di importanti consigli di amministrazione e il regista di cortometraggi alternativo. Lungo i legami che costruiscono la rete di relazioni scorrono la fiducia, l’amicizia, lo scambio di informazioni delicate, l’aiuto e la collaborazione. Risorse preziose per il funzionamento tanto dei mercati quanto delle imprese. È per questo che oggi si parla, e non solo nelle riviste scientifiche o nelle aule di università, di capitale sociale quando si vuole sottolineare il valore economico che si può produrre grazie alla nostra posizione e alla qualità delle risorse sociali che vengono scambiate all’interno del sistema di relazioni nel quale siamo appunto embedded, immersi. Un capitale che può, per esempio, essere trasformato in innovazione e in conoscenza. Ormai tanti anni fa, qui in università, cominciavamo ad usare un po’ intimoriti ma pieni di entusiasmo Bitnet, la rete che, almeno nei nostri ricordi e nella nostra esperienza, ha fatto da “mamma” a Internet. Allora era ancora accessibile solo da bui terminali attaccati a enormi mainframe, dove si poteva scrivere una riga per volta. Ma quella riga permetteva già di scambiare un’idea importante con un collega dell’Università della Florida con il quale si stava scrivendo un articolo, un amico che si era magari svegliato prima del solito solo per potere entrare in rapporto virtuale con noi. Bitnet, la prima rete delle università, dei laboratori di ricerca e magari anche di quelli legati all’apparato militare statunitense, alla quale era stato affibbiato un acronimo degno della passione e della fiducia nel futuro di allora: Because It’s Time to Net! È arrivato il tempo nel quale occorre collegarci, scambiare e fidarci per imparare cose nuove. Il capitale sociale consente una maggiore produzione di capitale intellettuale. Questo è vero anche nelle nostre imprese, dove attività sempre più complesse, come lo sviluppo di un nuovo prodotto, hanno richiesto una definizione delle reti di relazione tra persone e unità tale da favorire la collaborazione e lo scambio tempestivo di informazioni. E la rete, in questo caso, si è estesa anche a fornitori e a clienti, la cui collaborazione è essenziale per produrre innovazione di valore.

Il capitale sociale rimpicciolisce il mondo e mette alla nostra portata opportunità che il mercato da solo, e tanto meno la faticosa estensione di rapporti burocratici e gerarchici, non potrebbero generare con pari efficacia ed efficienza. È stato uno dei fattori di successo dei nostri distretti industriali che sono anche, e forse prima di tutto, comunità sociali nelle quali valori, tradizioni e linguaggi condivisi consentono un più agevole conseguimento delle economie di aggregazione. Il capitale sociale permette di acquisire informazioni, di guadagnare tempo, di trovare la persona giusta o il finanziatore interessato al nostro progetto. Un ampio complesso di ricerche testimonia in modo ormai affidabile quanto, per esempio, sia importante il suo ruolo nel fare evolvere una relazione di fornitura tra due aziende nello sviluppo di una joint venture orientata a creare insieme un nuovo business; quanto possa favorire il difficile coordinamento tra headquarter e branches locali all’interno di un’impresa che opera su scala globale; come il capitale sociale possa ridurre i costi di transazione e favorire la realizzazione efficiente di scambi complessi senza essere costretti a investire in meccanismi di controllo e di coordinamento costosi; quanto lo sviluppo di interi nuovi settori, come quello delle biotecnologie (negli Stati Uniti almeno) sia debitore alla rete di rapporti personali che lega tra loro ricercatori universitari, imprenditori e venture capitalist. E gli esempi relativi all’importanza di questa forma di capitale potrebbero continuare, fino magari a includere anche un film interessante e ben fatto di qualche anno fa, che rubando il titolo Sei gradi di separazione a uno degli studi sociologici che hanno dato inizio alle ricerche in questo campo, ha messo bene in luce l’importanza delle reti di relazioni interpersonali nell’influenzare il destino di ciascuno di noi.

Ma come insegnano Choderlos de Laclos, un film di Quentin Tarantino come Le iene, o i racconti noir in parte autobiografici di Edward Bunker che hanno ispirato il regista americano, le relazioni possono anche essere molto pericolose. E non solo per il rischio di connettersi al nodo sbagliato. Il capitale sociale ha un lato oscuro sul quale, di quando in quando e prima che lo facciano le intercettazioni telefoniche date in pasto ai giornali e alla nostra curiosità, conviene gettare una luce. In primo luogo, dobbiamo allora ricordare che la rete di relazioni e il sistema di scambi sociali che si mantiene e cresce su di essa sono sostanzialmente neutri rispetto ai fini che si perseguono. L’amicizia, alimentata da “debiti” e “crediti” sociali, così come la riconoscenza e la fiducia possono favorire in un’azienda la collaborazione orientata allo sviluppo di un nuovo servizio o al miglioramento della soddisfazione dei clienti, e quindi sostenere la redditività stessa dell’impresa. Una simile constatazione di fatti facilmente osservabili da tutti offre in genere un buon sostegno a una prospettiva per la quale il sociale è rilevante in quanto (e solo in quanto) funzionale all’economico. Ma gli stessi meccanismi stanno anche alla base delle cordate tra manager che possono, proprio in virtù della forza della loro rete, mettere in atto strategie che puntano a privilegiare il benessere del gruppo a scapito di quello dell’azienda e, a maggior ragione, di quello di altri stakeholder, primi tra tutti clienti e azionisti. La storia dei numerosi scandali che abbiamo subito negli ultimi anni, da Tangentopoli alla Enron, da Worldcom alla Parmalat è anche una storia di reti di rapporti chiuse ed efficienti rispetto ai loro obiettivi specifici, che potrebbero tranquillamente e utilmente essere studiate con gli strumenti sofisticati della network analysis. E persino la commistione tra danaro, potere e relazioni “sentimentali” non è certo una novità dei nostri tempi sguaiati di veline o letteronze e di politici dalla carne debole e dalla raccomandazione facile, se è vero che uno degli studi più famosi e importanti sul capitale e le reti sociali, dovuto a John Padgett, è dedicato a come i Medici hanno gestito in epoca rinascimentale i matrimoni di membri della famiglia per perpetuare e rafforzare il proprio potere politico oltre che economico. Verità anche questa intuitivamente nota a qualunque madre ambiziosa che abbia cercato per il proprio pargolo quello che in maniera suggestiva si definisce un buon partito, e che dovrebbe renderci meno ipocritamente severi verso chi accetta scambi sociali come quelli saliti all’onore (?) delle cronache.

Le finalità per le quali il capitale sociale viene utilizzato dai membri di una comunità dipendono dai valori e dagli interessi di tali membri. Senza buone e solide sponde dal lato dell’etica e della legalità non c’è garanzia che venga utilizzato a fin di bene e spesso nemmeno in modo utile.

In molti casi, poi, l’obiettivo di salvaguardare la propria dotazione di capitale sociale può impedire il raggiungimento della massima efficienza o suggerire scelte che non si giustificano dal punto di vista economico. La stessa rete che abilita l’attore sociale ad avere accesso a risorse, informazioni e competenze altrimenti irraggiungibili può legarlo e costringerlo a errori e distorsioni. Si pensi, per esempio, al problema della successione imprenditoriale nelle piccole aziende e a come in questo caso il processo di scelta possa essere distorto a favore di candidati scelti solo in virtù della loro appartenenza alla famiglia proprietaria, anche se sono meno capaci ed esperti di altri potenzialmente disponibili per la guida dell’impresa. Si consideri anche come relazioni intense ed esclusive con altri attori, che hanno le stesse informazioni di cui disponiamo noi e che con noi condividono le stesse competenze e le stesse esperienze, possano esporci a una pericolosa forma di cecità strategica che ci rende incapaci di avvertire in tempo variazioni importanti nell’ambiente che ci circonda e riduce la nostra capacità di sviluppare idee realmente innovative. Gruppi coesi, reti chiuse, legami sociali solidi possono essere utili quando si tratta di agire in modo coordinato per il raggiungimento di un obiettivo definito, ma possono essere di ostacolo se si tratta invece di esplorare vie nuove e trovare nuove soluzioni a nuovi problemi. Sono proprio i meccanismi di inclusione ed esclusione nelle reti di relazione, dalla cui ampiezza e dal cui contenuto dipende, come abbiamo visto, il livello di capitale sociale accessibile agli stessi membri, che possono determinarne l’efficienza e l’efficacia anche in rapporto all’organizzazione delle attività economiche. Reti nelle quali si entra solo in virtù dell’amicizia, quando si viene ritenuti affidabili abbastanza da potere essere cooptati e per effetto di un legame familiare o etnico, eliminando il merito e la valutazione oggettiva delle capacità come criterio di selezione e inserimento, non danno sufficienti garanzie di qualità ed efficacia. Conviene allora imparare a osservare meglio anche il lato oscuro del capitale sociale. Un colla utile – tiene spesso insieme attori impegnati in scambi economici anche complessi – ma pericolosa. A volte. Potremmo infatti correre il rischio di vederci attaccata, un giorno, la mosca fastidiosa del nostro senso morale.