E&M

2006/1

Gianni Canova Severino Salvemini

Il manager e il bandito

Il controverso film di Michele Placido – Romanzo criminale, tratto dall’omonimo romanzo di Giancarlo De Cataldo – mette in scena il funzionamento di una gang che offre più di uno spunto sul tema generale dell’organizzazione e sulle trasformazioni che stanno colpendo i modelli organizzativi nella società contemporanea.

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Romanzo criminale

Regia: Michele Placido

Interpreti: Pierfrancesco Favino, Kim Rossi Stuart, Claudio Santamaria

Italia, 2005

Un’organizzazione solida e collaudata, con obiettivi chiari e metodi ben definiti. Un team capace di valorizzare le singole soggettività e di metterle al servizio della strategia del gruppo. Una professionalità coltivata d’istinto e maturata sul campo.

Se non fosse per il tipo di attività svolta dai suoi protagonisti, Romanzo criminale di Michele Placido potrebbe offrire, un po’ provocatoriamente, la messinscena drammatizzata e fortemente spettacolarizzata di un tipico modello organizzativo. Ispirandosi all’omonimo, fluviale romanzo di Giancarlo De Cataldo (Einaudi, Stile Libero, 2002), Michele Placido mette in scena infatti la vicenda corale di un gruppo di ragazzi delle periferie romane che dagli anni settanta in poi diventano killer e banditi, si macchiano di svariati crimini e misfatti e arrivano a coltivare la folle ambizione di diventare “i padroni di Roma”. I personaggi, come è noto, sono ispirati ai membri della famigerata banda della Magliana, ma il film, sulla scia del romanzo di De Cataldo, fa di ognuno di essi un’anima nera: torbidi, cinici e amorali, il Libanese e il Freddo, Dandi e il Nero spacciano droga e sequestrano persone, organizzano il racket dei locali pubblici e trafficano in affari sporchi finché, pur di avere una protezione politica che garantisca loro l’impunità, accettano di mettersi al servizio della metà oscura dello Stato, dei servizi segreti deviati e delle trame criminali della strategia della tensione. Il film arriva a suggerire l’ipotesi di un loro sia pur parziale coinvolgimento nei fatti più tragici della nostra storia recente, dal sequestro Moro alla strage alla stazione di Bologna. Al di là del caso “storico”, che ha fatto a lungo discutere, il film presenta più di un motivo di interesse, soprattutto nella prospettiva di un’analisi delle organizzazioni che presti attenzione alla distribuzione dei ruoli e al tipo di relazione che lega i personaggi gli uni agli altri. Non è la prima volta che un film suggerisce un’analogia simbolica fra i meccanismi di funzionamento di una gang e la struttura di un’organizzazione aziendale. Alcuni capolavori indiscussi della storia del cinema – per esempio il classico Rapina a mano armata, 1955, di Stanley Kubrick, o Le iene, 1992, di Quentin Tarantino – vanno proprio nella stessa direzione. Ma Romanzo criminale è un’altra cosa: forse, è una storia più consona a illustrare le mutate condizioni con cui si trova a dover fare i conti, oggi, qualsiasi tipo di organizzazione. Ne discutono, come di consueto, Severino Salvemini e Gianni Canova.

S.S. A costo di sembrare provocatorio, io trovo che la gang, al cinema, fornisca molto spesso un modello organizzativo perfetto. I metodi di selezione del personale, la distribuzione dei ruoli, il riconoscimento di competenze, la stessa funzione del capo risultano spesso esemplari e offrono casi quasi da manuale a chi voglia studiare le strutture, le dinamiche interne e le radici motivazionali di un’organizzazione.

G.C. Condivido in genere il tuo ragionamento. Ma con una precisazione: nel caso di Romanzo criminale ci troviamo di fronte a un’organizzazione malavitosa che presenta tratti specifici e peculiari molto diversi da quelli della tradizione. Qui la “vocazione” dei vari membri della gang nasce e si manifesta simultaneamente in tutti i suoi futuri membri, che sono legati prima di tutto dall’anagrafe, dal fatto di essere coetanei e di aver condiviso le esperienze decisive degli anni dell’adolescenza. Quando decidono di fondare un’organizzazione fuorilegge, e di operare al suo interno, i personaggi non si distribuiscono i ruoli in base alle differenti competenze acquisite, ma sulla base di diversi tratti della personalità. Non c’è chi si specializza in questo o in quel settore, c’è piuttosto – come suggeriscono, del resto, gli stessi soprannomi che i vari personaggi si attribuiscono – chi sta dentro l’organizzazione con un certo temperamento e con una certa tonalità emotiva e chi invece con un’altra…

S.S. Direi che proprio da questo punto di vista il film è molto interessante, proprio perché riflette una delle mutazioni in atto nella struttura delle organizzazioni. Sempre più spesso, anche dentro organizzazioni complesse, i ruoli vengono attribuiti sulla base del carattere e del temperamento invece che per le riconosciute specializzazioni tecniche. E lo stesso leader diventa tale più per le sue doti carismatiche che per essere riconosciuto esperto in un determinato settore.

G.C. A me ha colpito molto, nel film di Michele Placido, quella sorta di gioco a staffetta nella trasmissione della leadership che presiede di fatto allo sviluppo narrativo della storia. Voglio dire, cioè, che tutti i personaggi principali si trovano, a un certo momento, a svolgere il ruolo di leader secondo un avvicendamento che è sì drammaturgico, ma anche foriero di spunti e di riflessioni teoriche. Proprio perché “nascono” insieme, in fondo i membri fondatori della gang sono intercambiabili, possono prendere l’uno il posto dell’altro, raccogliere l’eredità lasciata dal predecessore…

S.S. … certo, salvo che poi non tutti riescono a fare bene il proprio mestiere, e solo alcuni hanno prestazioni efficaci rispetto agli obiettivi comuni che la gang si era data. Il Libanese, il Freddo o il Dandi non hanno, cioè, lo stesso valore prestazionale e performativo. Questo è il limite delle organizzazioni troppo legate all’isomorfia di ruolo dei suoi fondatori: uno può prendere il posto dell’altro, ma senza necessariamente garantire gli stessi risultati.

G.C. Forse si potrebbe dire che il tipo di organizzazione messo in scena da Michele Placido nel film si basa su un patto reciproco più che su una mission da compiere o su una strategia da attuare…

S.S. Nel complesso direi di sì: siamo di fronte al caso, quasi classico, del gruppo di coetanei che si mettono insieme e condividono una visione collettiva basata sui valori, sulle credenze, su una cultura del gruppo molto precisa. Quando uno dei membri tradisce, lo fa nei confronti del “patto” prima ancora che nei confronti di un altro membro del gruppo. Questo è il collante, è il cemento che li tiene insieme.

G.C. E tu pensi che un simile modello trovi riscontro oggi anche in strutture organizzative diverse da quell’associazione a delinquere che è al centro del film?

S.S. Per quanto possa sembrare provocatorio, paradossale e perfino disturbante, direi proprio di sì. Ma intendiamoci: non voglio sostenere un’omologia oggettiva fra un’associazione malavitosa e un’organizzazione aziendale. Riscontro semplicemente che a volte le due diverse organizzazioni presentano contiguità e analogie sorprendenti, soprattutto quando si tratta di organizzazioni raccontate dal cinema. Nel caso specifico del film di Michele Placido, direi che ci offre lo spunto per riflettere su come lo studio delle organizzazioni sia sempre più una tecnica neutra. Da disciplina impersonale e burocratica sta diventando disciplina sempre più soggettiva, legata in modo specifico alle persone, al loro vissuto, perfino alla loro emotività e affettività.