E&M
1998/3
Indice
Editoriale
Interventi
Interventi
Nuovi sviluppi del category management. Analisi degli scontrini e criticità delle categorie
La quotazione in Borsa di un’azienda familiare. Obiettivi e risultati della Costa Crociere s.p.a.
Downsizing e benchmarking. Aspetti metodologici ed etici di una relazione pericolosa
I criteri di progettazione dell’assetto produttivo: mode o vera innovazione?
Interventi
Consapevolezza del linguaggio e governo delle comunicazioni
Razionalizzare lo sviluppo delle collezioni. Risultati di un’indagine nel tessile-abbigliamento
Si riusciranno a domare i sordi monopoli?
Scarica articolo in PDFUna crescente insofferenza verso i monopoli
Monta fra i cittadini una crescente insofferenza verso quelle organizzazioni che invece di servirli, come dovrebbero, sono sorde nei confronti dei propri clienti, ripiegate su se stesse, burocratiche e dedite esclusivamente a tutelare i privilegi dei propri dipendenti, fornitori e protettori.
La maggior parte di queste organizzazioni sono caratterizzate dal fatto di operare in condizioni di monopolio, quindi sottratte alla disciplina della concorrenza. Alcune di loro svolgono attività in esclusiva perché espletano funzioni ritenute specifiche della pubblica amministrazione, che non ammette fornitori alternativi. Altre svolgono attività che potrebbero essere realizzate da qualsiasi organizzazione, anche in concorrenza, ma hanno ottenuto il privilegio di svolgerle in esclusiva per le ragioni più varie fuorché quelle economiche. Vi è infine una terza categoria di organizzazioni che mostrano la ruggine di una gestione sottratta alla disciplina della concorrenza: sono quelle che svolgono attività che in via di principio potrebbero essere effettuate da qualsiasi azienda, privata o pubblica, anche in regime di concorrenza, se non fosse che le caratteristiche tecnologiche ed economiche dei processi produttivi sembrano tali da rendere impraticabile o non conveniente la presenza simultanea di più produttori. Pertanto vengono svolte da un’unica impresa in condizioni dì monopolio, e per questa stessa ragione più abitualmente da un’impresa pubblica che privata. Anche queste imprese operano sottratte alla disciplina della concorrenza e diventano facilmente sorde alle esigenze della clientela.
Molte di queste ultime attività hanno vissuto a lungo così come sono, evitando di sottomettersi al cambiamento ed ai meccanismi di responsabilizzazione, facendosi scudo del fatto di essere monopoli “naturali”: attribuendo al termine naturale il suo significato etimologico più stretto, per indicare un qualche cosa di congenito ed inalterabile.
In effetti alcune di queste attività comportano investimenti di tale peso, opere di un tale impatto ambientale e strutture di costo con punti di break-even così elevati da poter apparire più economiche se svolte da una sola impresa, anche ammettendo che la gestione in condizioni di monopolio comporti inefficienza. I maggiori costi operativi, secondo alcuni, sarebbero compensati dai minori costi di ammortamento, dagli oneri finanziari più contenuti e dal minore impatto ambientale. Si pensi all’attività elettrica, a quell’autostradale, alla distribuzione del gas o dell’acqua, alle ferrovie, al trasporto aereo. Talune attività sembrano ancora più sottratte alla possibilità di una gestione in condizioni di concorrenza perché offrono servizi per la cui realizzazione è necessaria una rete estesa sul territorio che molti si osti nano a pensare necessariamente indivisibile.
Interi filoni di ricerca – molti dei quali finanziati delle imprese in questione – si sono cimentati nel tentativo di dimostrare che i guadagni di qualità e di costo che possono essere ottenuti con la presenza di più concorrenti non compensano i maggiori costi strutturali dovuti alla duplicazione delle infrastrutture. Non sono mancate nemmeno le ricerche che avevano l’obiettivo esattamente opposto, anche se sorrette da minori finanziamenti: quello di provare i benefici per la collettività di un regime di concorrenza, nonostante gli evidenti effetti negativi di una duplicazione di capacità produttive. Il problema in entrambi i casi è stato quello del dover tentare confronti tra una gestione in condizione di monopolio reale e un’ipotetica ed alternativa gestione in regime di concorrenza, con un metodo di simulazione, senza poter contare su esperienze confrontabili, parallele nel tempo e nello spazio. Per questo non si sono mai ottenuti risultati dirimenti.
A complicare il problema in alcuni casi si è aggiunta anche la decisione delle autorità di qualificare il servizio offerto come “servizio pubblico”, garantendolo a prezzi inferiori al costo. Almeno per certe categorie di utenti. L’inserimento dello Stato nel ciclo economico fra l’impresa fornitrice e il cliente finale ha allentato ulteriormente la responsabilizzazione della prima nel confronto del secondo, ha giustificato l’esercizio in esclusiva ed ha creato un altro ombrello protettivo al di sotto del quale sono cresciute le inefficienze.
Come dicevo, da un certo tempo monta però una crescente insofferenza da parte dei cittadini nei confronti di queste organizzazioni, che non solo sono sottratte ai meccanismi che invece costringono le altre aziende a darsi cura dei clienti, ma sono per di più dotate di forte potere di condizionamento che le rende sorde anche ai poteri che dovrebbero indirizzarle e controllarle. Cresce l’impressione – anche se mancano prove inconfutabili per le ragioni già illustrate – che le aziende che vivono in queste condizioni di monopolio, naturale o meno, ed a maggior ragione quelle che si fanno scudo anche della qualifica di servizio pubblico, godano di una rendita pagata dai cittadini: rendita che prende diverse forme (migliori retribuzioni a parità di valore aggiunto prodotto, minore rischio d’impresa, un minore impegno a dare qualità ai clienti). Questa impressione in alcuni paesi, come la Gran Bretagna, è già andata oltre il livello di tolleranza e si è tradotta in un energico programma di liberalizzazione e di privatizzazioni.
Nell’Europa continentale molti dei servizi prodotti da queste organizzazioni sono offerti agli utenti sotto costo, con la differenza scaricata sul bilancio pubblico. Questa politica ha attenuato la tensione fra le imprese e gli utenti poiché questi ultimi, essendo all’oscuro del reale costo dei servizi goduti, non sono in grado di misurare il rapporto prezzo (quello che include anche il sussidio pubblico) /qualità. Ma il malessere, anche se non si manifesta direttamente, è cresciuto comunque, in modo indiretto, per il peso dell’imposizione fiscale, una quota della quale è destinata proprio alla copertura del costo dei servizi pubblici.
Per il momento il disagio sull’eccessivo carico fiscale prende la forma di rivendicazioni di autonomia territoriale. Ma ben presto diventerà evidente che, spostando dal centro alla periferia la capacità di spesa, non si risolve il problema se l’eccesso di spesa è dovuto a inefficienze nella produzione di una serie di servizi di base. Ecco perché diventa urgente chiedersi se non sia la gestione in condizioni di monopolio la causa principale, se non esclusiva, dell’alto costo, della modesta qualità e anche della disattenzione che i gestori dei servizi pubblici manifestano verso la clientela.