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2005/4
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Conflitti generazionali, visioni strategiche inconciliabili e derive manageriali: In Good Company del regista americano Paul Weitz mette a fuoco alcuni temi caldi nel processo di riassetto delle organizzazioni sotto la spinta della globalizzazione.
In good company
Regia Paul Weitz
Interpreti Dennis Quaid, Topher Grace, Scarlett Johansson
Usa, 2005
I manager, nei film, in genere si alzano presto. Dan Foreman (Dennis Quaid), cinquantuno anni, responsabile della raccolta pubblicitaria per la prestigiosa rivista Sports America, la sveglia la punta alle quattro e mezzo del mattino. Lo aspetta un viaggio d’affari, e i manager cinquantenni sono abituati a non arrivare in ritardo. “Per mio genero sono un dinosauro” dice di sé Dan, presentandosi. Lo dice con ironia. Sa che i dinosauri hanno governato il mondo per migliaia di anni, e che solo una catastrofe li può spazzare via. Per questo – nonostante abbia trovato nella spazzatura di casa un test di gravidanza quanto meno sospetto – Dan guarda il mondo con sostanziale ottimismo. Non sa – non ancora, per lo meno – che la globalizzazione, che sta ristrutturando a velocità vertiginosa quasi tutti i mercati del mondo, potrebbe avere su di lui proprio gli effetti di una catastrofe. Piccola, ma sufficiente a mandare in pensione anzitempo i dinosauri come lui, per sostituirli con una nuova generazione di manager rampanti. Proprio questo, infatti, è il destino che aspetta Dan: la società editrice della rivista per cui lavora viene comprata da una multinazionale che non ha nessuna esperienza nel settore (la Globe.com), ma che vuole incrementare gli utili e per realizzarli non esita a licenziare e a ristrutturare. A dirigere l’ufficio vendite di Sports America la nuova corporation manda il giovane Carter Duryea (Topher Grace), uno sbarbatello che si è fatto notare progettando telefonini per bambini a forma – guarda un po’ – di dinosauri, e che viene mandato a sostituire Dan pur avendo solo la metà dei suoi anni. Indignato e ferito, sulle prime Dan vorrebbe mollare tutto e andarsene, ma poi le necessità della vita (la decisione della figlia di iscriversi a un college molto costoso, la notizia che la moglie è incinta e che lui sta per diventare di nuovo padre a cinquant’anni suonati…) lo inducono a soprassedere e ad accettare – pur di non perdere il posto di lavoro – di fare il vice dello spocchioso rampollo fresco fresco di laurea ma senza alcuna esperienza manageriale. Diretto con mano leggera dal regista Paul Weitz (American Pie, About the Boy), In Good Company mette a fuoco un tema di grande attualità nelle organizzazioni: il conflitto generazionale come elemento detonatore di più ampi e complessi conflitti di strategia. Ne discutono, come al solito, Severino Salvemini e Gianni Canova.
S.S. Mi sembra che il film visualizzi abbastanza bene due diverse metodologie di marketing: l’anziano Dan Foreman (che per inciso suona come “caporeparto”: quando si dice un nome, un destino…) vede il marketing soprattutto come un’attività relazionale, pensa che alla base di tutto ci sia la capacità di costruire relazioni durature basate sulla fiducia reciproca, mentre il giovane rampante segue una metodologia più assertiva, molto diretta, molto meno personalizzata…
G.C. Le sue parole d’ordine, non a caso, sono sincronizzare e sinergizzare. Il giovanotto in carriera pensa di aumentare i profitti a colpi di incroci promozionali ed è convinto che l’unico modo per risparmiare sui costi consista nel tagliare teste e stipendi.
S.S. La sua metodologia è un classico caso di cross selling: assieme alla rivista, cerca di vendere anche gli altri prodotti o servizi della sua compagnia, nella convinzione che questo gli consenta di realizzare profitti più rapidi e vantaggiosi…
G.C. Forse bisognerebbe aggiungere però che stiamo parlando di una professione molto particolare, quella del venditore.
S.S. Non c’è dubbio. Il venditore è sì un uomo di marketing, ma in un modo tutto suo. La predisposizione caratteriale e un buon patrimonio di relazioni fanno il 50% del mestiere di un bravo venditore: le analisi teoriche e le strategie studiate in astratto in questo caso valgono davvero poco. Direi che la differenza fondamentale fra i due protagonisti del film sta nel tempo infinitamente maggiore che il più anziano ha impiegato per costruire il suo capitale sociale e il suo capitale di relazioni.
G.C. L’aggressività del più giovane, così come la sua smania di circondarsi di status symbol vistosi come una roboante Porsche Carrera 911 (che poi di fatto non sa nemmeno guidare…) sono dunque leggibili come tentativi più o meno efficaci di recuperare il gap rispetto al suo collega più esperto e maturo…?
S.S. Direi che sono tentativi sostanzialmente velleitari, come il regista del film non manca di sottolineare. Di fatto, l’esperienza ci dice che i grandi venditori sono tutti abbastanza maturi, non ci sono abili venditori giovanissimi. La vendita è fatta di esperienza, non si improvvisa. E poi è fatta anche di barzellette, complicità, intuizioni improvvise…
G.C. … che sono poi gli elementi messi in campo nel finale dal manager più anziano per battere il rivale convincendo un vecchio cliente a fare un investimento cospicuo a favore della sua rivista. Credi che il finale del film, a parte l’ottimismo posticcio alla Frank Capra, possa essere letto come un omaggio alla generazione dei “dinosauri”, o come il sintomo di una riscoperta delle generazioni più anziane da parte del management contemporaneo?
S.S. Non direi. Mi sembra, anzi, che la tendenza dominante oggi sia proprio l’opposta: le organizzazioni tendono a espellere i membri più anziani per timore di una loro rapida obsolescenza professionale, per ridurre i costi del lavoro, per abbassare in generale i livelli gerarchici.
G.C. Non negherai però che il film celebra proprio la collaudata esperienza del vecchio “dinosauro” e la sua abilità nel chiudere un contratto milionario con un’astuzia motivazionale che il giovane pivello non avrebbe potuto neanche sognarsi. Alla fine infatti – dopo che in una riunione plenaria il vecchio Dan ha osato contestare niente meno che il presidente della Globe.com – il temuto Teddy K, interpretato da un divertito Malcolm McDowell – questi vende la società, Dan torna al suo posto e accetta il giovane ruspante come suo vice. L’ordine e le gerarchie sono ripristinati, tutto torna al punto di partenza e il “dinosauro” si prende la giusta revanche.
S.S. Questa mi pare la parte più “ideologica” del film, la meno convincente. Ho trovato invece di grande interesse tutta l’analisi sulla precarietà della condizione manageriale nell’azienda contemporanea. Nel film nessuno parla mai male di nessuno perché sa che già all’indomani l’azienda potrebbe essere ricomprata da chi l’aveva appena venduta. Tutti si sentono scissi, fusi, divisi, scorporati, riaccorpati. In questo quadro, ho trovato molto bella la scena in cui il collaboratore licenziato se ne va portandosi via la piantina con cui aveva arredato il suo ufficio. Tutti lo salutano commossi, con nostalgia. Quell’immagine segna davvero, forse, la fine di un’epoca.