E&M

2003/4

Dodici stagioni sono occorse a Michael Schumacher per vincere cinque titoli mondiali, ma l’argentino Juan Manuel Fangio raggiunse lo stesso risultato correndo solo sette anni. Fisicamente fortissimo, era adatto alle macchine di un tempo, talmente pesanti che bisognava continuamente condurle in controsterzo. Diceva: “È bravo chi vince andando più adagio di ciò che gli suggerisce la sua testa”. È lui il primo mito dell’automobilismo. Sembra scaturito dal buon senso: invece fu capace di rinunciare all’istinto. Proprio per questo, dei grandi piloti del suo tempo, fu l’unico che sopravvisse.

In una giornata del settembre 1979, a Montreal in Canada, mentre si svolgevano le prove del Gran Premio, Niki Lauda lasciò di stucco Ecclestone, il suo patron alla Brabham: “Smetto di correre in questo istante. Mi ossessiona ripetere all’infinito lo stesso circuito. È un gioco assurdo da lasciare ai bambini”. Dimenticò nell’angolo del box persino il casco e andò in California, dove si dedicò alla sua nuova passione, il volo. Ma dopo due anni ritornò alle corse. Sul circuito del Neurburgring, in Germania, la sua macchina si trasformò in un rogo devastante. Oggi il suo mito si concentra in due occhi che animano un volto ridotto a una cicatrice.

Lo chiamavano il Professore. Alain Prost era pignolo, maniacale, controllava tutto. Esigente con i meccanici, approfittava di tutte le sfumature per raggiungere il risultato programmato. Sembrava l’uomo che sa collocare tutti i tasselli al loro posto e a suo vantaggio. Il suo mito nasceva in un laboratorio asettico. Al centro collocava la tensione al perfezionismo, tanto che un giorno si permise di dire: “La Ferrari è peggio di un camion”. A fine carriera si credette pronto al salto manageriale, ma come costruttore finì per portare i libri in tribunale. Ora si accontenta, in completa solitudine, di scalare in bicicletta le grandi vette del Tour de France. Ci ha insegnato che il mito non accetta clonazioni in altri campi.

Ayrton Senna era un pilota che portava la sua arte alla perfezione. Controllatissimo sempre, ha abbassato tutti record esistenti, obbligando tutti gli altri a fare prodigi per superarlo. Perfetto sull’asciutto e sul bagnato, non sembrava sapere che cosa fosse la difficoltà. Ma improvvisamente qualcosa, dentro di lui, si incrinò. Si rese conto che il mito gli stava mangiando la vita e lo privava del bene più prezioso, la gioventù. Questa presa di coscienza, violenta e improvvisa, fu una ragazza a regalargliela, ma troppo tardi. A Imola non è morto un pilota, ma un uomo che voleva rinascere. Il mito, una volta chiamato in causa, non demorde.

Gilles Villeneuve, detto l’Aviatore e lo Sfasciamacchine, guidò la Ferrari meno competitiva della storia. Non accettò che un compagno di scuderia, Didier Pironi, andasse a vincere sorpassandolo nelle ultime curve. Decise di rifarsi e, nella gara seguente, spinse il suo mezzo al di là di ogni limite. Entrato in collisione, volò contro l’unico palo di recinzione del circuito. Aveva percepito con angoscia che si assottigliavano gli spazi per la costruzione del suo mito.

Quanti uomini d’impresa, sulla breccia vent’anni fa, sono diventati evanescenti. Cercando di costruire un successo fatto di cifre e di volumi camminarono spesso in salita. Ma non divennero un mito, perché la strada che porta a questo magico approdo non è impervia: è fragile. Per vivere nell’immaginario collettivo con l’intenzione di non uscirne più – è questo il dramma e il fascino del mito – occorre asciugare la propria vita e concentrarla tutta, a occhi aperti, in una sola, inimitabile mossa. Ogni zavorra è fatale. Servono poche cose per il viaggio.