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2002/4
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Le invarianti dell’organizzazione
Scarica articolo in PDFNel suo ultimo film Gosford Park[1] il regista Robert Altman mette in scena due mondi paralleli: complementari, simmetrici, speculari. Così lontani, così vicini. Così diversi l’uno dall’altro eppure così sorprendentemente simili. Un mondo (quello dei servi) produce (cibi, riti, pranzi, pulizia), l’altro (quello dei padroni) consuma ciò che il primo ha prodotto. Entrambi coabitano nello stesso luogo (una grande villa nella tenuta nobiliare di Gosford Park), ma occupano spazi diversi: i servi stanno nei seminterrati (downstairs), i padroni festeggiano ai piani nobili della casa (upstairs). È il novembre del 1932 e i proprietari di Gosford Park, Sir William McCordle e sua moglie Sylvia, hanno invitato amici e parenti per una partita di caccia nella loro tenuta. Mentre i padroni spettegolano e si scambiano battute avvelenate, i servi cucinano, stirano e lucidano scarpe. Spettegolano anche loro. Mimano, all’interno del loro gruppo, il comportamento dei padroni. Non sono diversi da loro, sono solo stati più sfortunati. Sono condannati a inscenare la loro rappresentazione su un palcoscenico meno prestigioso. Downstairs, appunto: ma con le stesse regole che vigono upstairs. Con la stessa rigidità gerarchica nell’assegnazione dei posti a tavola. Con la stessa spietatezza nel definire al proprio interno una gerarchia del potere: la governante ha autorità assoluta sulle cameriere, la cuoca sulle sguattere, il maggiordomo sui lacchè e sui valletti. Quanto ai servi degli ospiti, quelli che non appartengono alla casa ma sono lì solo di passaggio, non hanno diritto nemmeno a quella minima ma primaria forma di identità che è definita dal nome: gli altri servi li chiamano con il nome del padrone, semplicemente eliminando il titolo nobiliare. Le due comunità obbediscono insomma alla stessa logica, sono dominate da identici meccanismi. I due mondi si assomigliano, forse non sono l’uno che lo specchio dell’altro. Una forma di organizzazione arcaica, obsoleta, superata? Oppure un modello in grado di svelare alcuni meccanismi di funzionamento tipici anche delle organizzazioni contemporanee? Ne discutono Severino Salvemini e Gianni Canova.
S.S. La cosa che trovo più interessante nel film è il modo assolutamente lucido e rigoroso con cui rappresenta e descrive alcune categorie logiche delle dinamiche di gruppo quali la negoziazione, i processi di emarginazione, la formazione e il consolidamento di forme di alleanza o di solidarietà. Nel microcosmo del piccolo mondo di Gosford Park credo di poter dire che Altman riesce davvero a sintetizzare una grande metafora sul funzionamento delle organizzazioni sociali e produttive con valore quasi universale.
G.C. Tanto la community dei “servi” quanto quella dei “padroni” rispondono però a una logica organizzativa molto rigida e fortemente gerarchizzata. È impressionante come i due mondi si rispecchino. Come lo spieghi? Come una forma di mimetismo da parte dei sottoposti nei confronti delle ritualità, delle norme e delle consuetudini adottate dai loro superiori? Come un tentativo da parte di chi sta in basso di assomigliare comunque a chi sta in alto?
S.S. È difficile spiegare le motivazioni psicologiche di questo comportamento. Quel che so per certo è che in quasi tutte le forme di organizzazione contemporanea si riscontrano fenomeni analoghi. Se prendi il grattacielo dell’ENI all’Eur di Roma, a parte la verticalità gerarchica della struttura, a ogni piano riscontri dinamiche orizzontali molto simili a quelle descritte da Altman in Gosford Park. Quelli che si collocano allo stesso livello della gerarchia complessiva e che coabitano anche fisicamente nello stesso luogo sviluppano, da un lato, comportamenti molto simili e omogenei osservabili nel modo in cui tutti vanno in mensa, si relazionano l’un l’altro o discutono della partita ma, dall’altro, tendono anche a riprodurre gerarchie verticali all’interno dell’isomorfismo che caratterizza la loro collocazione nella gerarchia complessiva. Anche tra i pari esistono distinzioni di competenze e di anzianità.
G.C. E proprio questo fa del film una sorta di saggio di sociologia di grande suggestione. Altman non è interessato a rappresentare l’ipocrisia di un mondo aristocratico in rovina, né a cincischiare da intruso con le liturgie più o meno segrete di un mondo cinico ma porcellanato. Quel che gli importa è piuttosto capire i meccanismi – psicologici, etici, rituali, emulativi, comportamentali – che presiedono al funzionamento di quel mondo. Come un entomologo sociale, Altman spia, scruta, mostra, cataloga. Talora sorride, talaltra graffia. Ma senza mai tesi precostituite da dimostrare, senza visioni preconcette da riproporre. Non è un’analisi “di classe”, la sua. È la rappresentazione impietosa, ancorché sorridente, della sorprendente somiglianza dei due mondi che mette in scena. È una sorta di amara ma rigorosa microfisica del potere.
S.S. … ed è come se la sua macchina da presa fosse una sorta di ascensore che sale e scende, radiografando le stratificazioni sociali e mappando le analogie rilevabili in due mondi così apparentemente opposti. Basti pensare, per esempio, all’uso del linguaggio: nella versione originale del film, un po’ mortificata dal doppiaggio italiano, i servi parlano uno scozzese o un gallese dai toni sguaiati, mentre i padroni si esprimono in un inglese oxfordiano di grande eleganza e pulizia. Come dire: i linguaggi cambiano, così come mutano gli atteggiamenti, gli abiti, gli stili. Le dinamiche organizzative invece restano le stesse: come se ci fosse una sorta di vischiosità che tende a omologare ai vari livelli i modelli di organizzazione del gruppo.
G.C. A me ha colpito molto il fatto che nel film i valletti non abbiano neanche diritto a un nome proprio e siano chiamati tout court con il nome del padrone. Sulle prime mi è sembrato un retaggio parafeudale, ma poi – pensandoci meglio – è un modus operandi non così lontano dalle consuetudini di certe organizzazioni contemporanee…
S.S. Sono abbastanza d’accordo. Spesso capita che l’impiegato o il colletto bianco venga identificato in azienda, anche nominalmente, con il leader della cordata a cui fa riferimento. E comunque, anche laddove ciò non accade, l’identità del singolo è determinata spesso da quel che ha fatto in precedenza, da dove “ha servito”, da come sa stirare le camicette…
G.C. Io trovo molto interessante anche l’intuizione finale della cameriera, quando dice che la dote principale richiesta a chi fa la sua professione è la capacità di anticipare: cioè il saper intuire sempre cosa desiderano i padroni, prevenire le loro richieste, preparare il letto o il cibo prima che siano loro a doverlo ordinare…
S.S. Certo. Ed è anche una delle doti del manager: saper intuire i bisogni prima che questi diventino manifesti.
G.C. Anche in questo caso c’è una sorprendente analogia tra mondi e professioni che parrebbero diversissimi. È il merito di Altman: spingerci a individuare il simile anche in quello che sembrerebbe il territorio della differenza e della diversità.