E&M

2014/6

Gianni Canova Severino Salvemini

Il sogno italiano e il mito del progresso

Lavorando sui materiali di repertorio e sui filmati aziendali conservati nell’Archivio Nazionale del Cinema d’Impresa di Ivrea, il regista Davide Ferrario ricostruisce lo slancio produttivo e il fervore industriale con cui la società italiana ha attraversato buona parte del Novecento, fino alla disillusione iniziata con la crisi energetica del 1973. Un film “storico” che guarda al nostro passato prossimo fornendoci però anche preziose indicazioni per il presente e il futuro.

Scarica articolo in PDF

La zuppa del demonio

Regia: Davide Ferrario

Film documentario

Italia, 2014

 

C’è un luogo, a Ivrea, che tutti coloro che si occupano di industria e di storia dell’industria, ma anche di politica industriale, di strategia aziendale e più in generale di management e di comunicazione dovrebbero conoscere molto bene. È l’Archivio Nazionale del Cinema d’Impresa diretto da Sergio Toffetti: lì sono depositati i documentari industriali della maggior parte delle aziende italiane, realizzati in anni in cui le aziende stesse percepivano con grande chiarezza la centralità strategica della comunicazione nella costruzione non solo della brand identity ma anche nel lavorìo quotidiano per la conquista e poi per il presidio del proprio posizionamento sul mercato. A questo archivio – letteralmente traboccante di sorprese, rarità, racconti e altre mirabilia – ha attinto a piene mani il regista Davide Ferrario (Tutti giù per terra, Dopo mezzanotte) per realizzare un film di montaggio che ripercorre non solo la storia dello sviluppo industriale e tecnologico del nostro paese dal dopoguerra fino alla crisi petrolifera degli anni settanta, ma che cerca anche di far rivivere sullo schermo l’energia e la vitalità che in quegli anni erano legate alla cultura industriale e soprattutto all’idea di un progresso inebriante e potenzialmente infinito. Tecnicamente, il film di Ferrario è un’operazione di found foutage: una ricognizione sul repertorio alla ricerca di materiali d’archivio che vengono selezionati e rimontati in maniera diversa, e anche secondo una logica differente da quella con cui erano stati realizzati. Il titolo La zuppa del demonio è preso in prestito da Dino Buzzati: è infatti l’espressione usata dall’autore de Il deserto dei tartari nel suo commento a un documentario industriale del 1964 (Il pianeta acciaio) per descrivere le lavorazioni dell’altoforno siderurgico. Per costruire un laminatoio in Puglia – racconta il documentario commentato da Buzzati – vengono abbattuti alcuni uliveti e questa devastazione del paesaggio viene giustificata in nome della modernizzazione (il “demonio acciaio”, che brucia negli altiforni, proviene dalla zuppa rovente da cui si prevede possa ricadere un benessere per tutta la nazione). È proprio questa attesa quasi taumaturgica di un benessere diffuso e generalizzato, in nome dell’idea di progresso, che emerge con grande forza dai materiali audiovisivi selezionati e rimontati da Ferrario. Dov’è finita quell’energia? Quando si è spento quello slancio propulsivo? Le aziende italiane oggi comunicano con la stessa forza di allora la loro “missione”? Ne discutono Severino Salvemini e Gianni Canova.

 

S.S. Il film ha un impianto narrativo molto efficace. Da un lato, il materiale d’archivio che rievoca la storia di alcune grandi aziende italiane e mostra il riflesso che il loro sviluppo ebbe sul territorio, come la Fiat a Torino, l’Olivetti a Ivrea e Pozzuoli, l’ENI a Porto Marghera e a Gela, l’Italsider a Taranto; dall’altro, un’antologia di brani scelti, in cui letterati e pensatori del XX secolo – tra i quali Carlo Emilio Gadda, Primo Levi, Pier Paolo Pasolini, Ottiero Ottieri e Luciano Bianciardi – riflettono sulla cultura industriale, mostro/speranza in grado di trangugiare tutto e tutti.

 

G.C. La velata critica di Ferrario al mito del progresso che tracima da ogni frammento dei vari materiali visivi selezionati è forse la parte più ideologica e caduca del film. Ma le immagini hanno poi una tale potenza, e sprigionano una tale energia, che si resta davvero abbagliati da questa cavalcata nel nostro Novecento, dalle immagini delle Officine Fiat del 1911 girate da Luca Comerio fino ai fasti del boom economico degli anni sessanta. In primo piano non ci sono solo le aziende, le macchine, i modi di produzione. Ci sono anche e soprattutto gli uomini, i lavoratori, con i movimenti delle loro mani, e con le espressioni dei volti. Spesso gli operai guardano in macchina, quasi a rivendicare il loro orgoglio di produttori.

 

S.S. Sì, c’è un orgoglio di appartenenza, in molte di queste immagini, che negli ultimi decenni si è assolutamente perduto. Lo dice bene Ermanno Olmi: “Vicino alla costruzione di una grande opera c’è la fierezza di appartenere a un’azienda, a un popolo, a un gruppo che produce una trasformazione storica”. Su questo concetto insistono molte delle frasi citate nel film: “Con il nostro cervello abbiamo cambiato i connotati del mondo”; “L’urbanizzazione ha tolto le persone dal gramo lavoro dei campi o dei pescherecci e li ha proiettati nel futuro della civiltà”; “Ovunque ferve il lavoro e la serena attesa di un domani migliore”. Al di là delle diverse condizioni di ceto o di classe, l’entusiasmo per il progresso era diffuso e condiviso. Il film di Ferrario lo ricorda, mentre mostra con grande efficacia anche la mutazione antropologica che in pochi decenni ha interessato milioni e milioni di italiani, trasformandoli da contadini poveri e analfabeti in operai urbanizzati delle grandi aziende.

 

G.C. … ed è proprio questo che personalmente mi commuove vedendo il film. Quelle facce. Quei corpi. Quello slancio. Quell’idea di fabbrica che ambiva a non essere soltanto un luogo di lavoro, ma anche a dare una risposta ai bisogni sociali della collettività…

 

S.S. Ma poi arriva il 1973, con le domeniche a piedi e gli allarmi ambientalisti, che ci risvegliano e ci ricordano che le carcasse delle auto rottamate gettate nel mar Tirreno sono il sintomo di un galoppo impazzito. Il tanto decantato “miracolo italiano” si interrompe e inizia la coscienza critica.

Di colpo, tutte le cose che sembravano bellissime mostrano sfaccettature orrende. Lo dice bene Giorgio Bocca nel finale del film: “Ci eravamo lasciati trascinare dalle speranze e dalla ingenuità. La corsa verso il futuro era davvero spericolata”. A partire dagli anni settanta, non a caso, si comincia a vedere ciò che prima non si era voluto vedere: i casermoni abitativi, le fabbriche cattedrali, le trivelle che profanano le campagne, il consumismo da Carosello, la difficile integrazione sociale degli immigrati… È la fine dell’Italian dream?

 

G.C. Probabilmente sì. Ma un film come La zuppa del demonio ha il pregio di ricordarci che questo sogno – per quanto distorto – c’è stato. Non solo: Ferrario ci ricorda l’attenzione e la cura con cui le aziende raccontavano se stesse, e celebravano una sorta di epos del lavoro attraverso rapporti virtuosi con cineasti, scrittori, musicisti, intellettuali. A me del film rimane soprattutto questo. La capacità di raccontare l’industria dall’interno, con sapienza tecnica e passione creativa, nella consapevolezza che non c’è né progresso né sviluppo se non li si sa raccontare, se non si decide che per raccontarli (e per raccontarsi) bisogna investire risorse, e che la comunicazione di sé non è un optional facoltativo ma uno degli elementi fondativi dell’identità e del successo di un’impresa come di una persona. È questa consapevolezza, credo, che il film di Ferrario dovrebbe indurci a ritrovare.