E&M
2014/6
Indice
Dossier
Gli intangibles come leva strategica. Tecnologie, brand e capitale umano all’origine
L’impatto degli intangibili sul controllo di gestione
Brand Value Management. Come accrescere il valore della marca nel tempo
Moneta, finanza e regole
Il Diversity Management
Imprenditori & imprese
Il mercato del private equity e degli LBO
Fotogrammi
Articoli
Il passaparola dei dipendenti come strumento di employer branding
Le regole del gioco degli Enterprise Social Network. Il caso Reply
Numbers
Dai bilanci alle nuvole: l’evanescenza del valore secondo la Rete
Scarica articolo in PDFSono grato a Guido Corbetta, Alessio Cozzolino e Giovanni Valentini per una serie di commenti che hanno rafforzato l’editoriale.
Quando, lo scorso 8 settembre, Tim Cook, attuale CEO di Apple, si è presentato sul palco per illustrare e promuovere cosa c’è di nuovo nel cosmo digitale e in particolare nella galassia che caratterizza la sua azienda, credo in molti si siano chiesti cosa sarebbe accaduto se al suo posto ci fosse stato il compianto Steve Jobs. Non solo, infatti, Jobs ha in qualche modo contribuito a imporre questi eventi come un vero e proprio genere per l’introduzione di nuovi prodotti, come avviene da sempre nel mondo del fashion con il lancio delle collezioni, ma li sapeva anche animare in modo impareggiabile. L’ultima volta che salì sul palco per presentare iPad visualizzò un’immagine di Mosè con la tavola dei dieci comandamenti ricordando l’anteprima del Wall Street Journal secondo cui era dai tempi di Mosè che non si parlava così tanto di “Tablet”.[1] Come ben si comprende, dopo anche l’uscita di una serie di monografie sul più amato inventore della Silicon Valley, un film in produzione e uno già commercializzato per celebrare la sua vita di imprenditore e manager, il compito di Cook obiettivamente non poteva essere più arduo.
Chi pensava di vederlo impacciato, o quantomeno in difficoltà per la pesante eredità, credo non abbia potuto che rimangiarsi la parola quando ha visto salire sul palco nientemeno che Bono, in compagnia degli U2 al completo. Certamente in molti, tra cui il sottoscritto, sono rimasti anche ammutoliti quando hanno colto che il motivo non era rendere lo show attrattivo, ma era ben più profondo e legato all’ennesimo cambiamento epocale che stiamo vivendo nel settore dell’entertainment e, più in generale, nel mondo del cosiddetto “cloud”. Gli U2 erano lì per presentare il loro nuovo album, e avevano preferito l’evento della Apple legato al lancio dell’iPhone 6 e all’annuncio dell’iWatch rispetto al David Letterman Show o a Oprah Winfrey. Ciò perché l’azienda di Cupertino aveva acquistato i diritti della commercializzazione del loro nuovo album, sino al 14 ottobre disponibile esclusivamente su iTunes e non vendibile in alcun altro luogo digitale o fisico. Il costo dell’operazione? 100 milioni di dollari, sembra.[2] Troppo? Poco? Difficile stimarlo, ma vediamone più approfonditamente il significato.
La musica e la Rete
Il processo di produzione e distribuzione della musica fino alla nascita di iTunes nel 2001 era rappresentato da una filiera tradizionale. Le case discografiche, vere e proprie case editoriali, producevano il vinile, poi divenuto, tra gli anni ottanta e novanta, compact disc (CD), e lo distribuivano attraverso un network di grossisti e distributori capillari. Naturalmente nei paesi dove la distribuzione era garantita da grandi colossi distributivi come Virgin, HMV e altri, i grossisti svolgevano una parte più limitata. In estrema sintesi, il processo era sostanzialmente simile al largo consumo, che non a caso nel corso degli anni ha pure cominciato a distribuire prodotti editoriali, tra cui i prodotti musicali.
iTunes è stato il più classico shock esogeno al settore in cui un nuovo entrante, Apple, ha cambiato per sempre la modalità di acquisto e distribuzione della musica. Quando Apple decise di lanciare il suo lettore MP3, l’iPod, e di renderlo attrattivo grazie a un negozio virtuale con i titoli negoziati con le grandi major, ha prodotto la cosiddetta disintermediazione del canale, costringendo le case discografiche a saltare la distribuzione tradizionale e seguire il digitale per arrivare direttamente negli MP3 e nei PC dei consumatori. Processo ben presto seguito da altri produttori e che ha portato alla progressiva chiusura di grandi distributori tra cui quelli menzionati sopra.
L’avvento dello smartphone nel 2007 non ha fatto che velocizzare la dinamica di adozione del downloading, producendo la fine industriale dei CD e della loro distribuzione tradizionale, oggi ancora in vita assieme ai vinili per soddisfare una nicchia di consumatori che prediligono le vecchie abitudini in un mondo che cambia. La potenza delle app e dei telefoni consente la creazione di librerie ad hoc che rendono infatti il concept di CD obsoleto per i produttori dell’industria.
Dal downloading allo streaming
Quando si dice che il mondo dell’economia dell’informazione è divenuto più veloce del mondo fordista, questo che stiamo raccontando ne rappresenta un esempio quintessenziale. Se ci sono voluti cento anni per far sostituire il vinile con il CD, e solo circa quindici per sostituire quest’ultimo con il downloading, diciamo che la vita del downloading rischia di essere anche più breve. È di maggio 2014 la notizia che la caduta di quota di mercato del downloading è stata assorbita interamente da una crescita proporzionale dello streaming, ovvero dalla fruizione online di contenuto digitale che non viene posseduto dal consumatore, il quale acquista semplicemente il servizio di ascolto di una biblioteca musicale.[3] Seppur lo streaming non possa essere ancora considerato lo standard del settore, ha già prodotto conseguenze importanti, tra cui l’ingresso di una serie di nuovi entranti, inclusa l’azienda svedese Spotify, attualmente tra i leader nello streaming musicale. Tim Cook è ben consapevole di questa cosa e per cercare di raggiungere Spotify, che possiede già quote di mercato notevoli, ha deciso di far acquistare a Apple il principale follower del mercato dello streaming, Beats Music.
Ma che differenza intercorre tra streaming e downloading dal punto di vista della produzione e distribuzione del valore? In modo sferzante David Byrne, il leader dei Talking Heads – per chi non ne conoscesse la fama musicale, è parte di una delle quattro citazioni fatte dal regista Sorrentino al momento della consegna dell’Oscar per La grande bellezza come sommo vate di creatività artistica – ci ricorda che, a differenza del passato, con i proventi di streaming si fa fatica ad andare fuori a cena.[4] A differenza dei tempi di Napster, in cui il problema della Rete era legato allo scambio peer-to-peer e quindi alla violazione dei copyright, lo streaming pone un altro problema importante. In streaming, infatti, i copyright sono tendenzialmente certificati e garantiti dai siti che ne effettuano la trasmissione, ma il loro effettivo valore ne viene progressivamente parcellizzato (per esempio, ascolto di una singola canzone e non di un album), cadenzato nel tempo (fruizione di un singolo ascolto anziché di una serie potenzialmente infinita come avveniva con l’acquisto del CD) e frammentato (tra decine di operatori a volte non semplicemente tracciabili). Le case discografiche ci guadagnano sempre meno, per non parlare appunto degli autori, come il citato leader dei Talking Heads, che si trovano a questo punto costretti a tornare all’epoca pre-tecnologica e fare concerti per sbarcare il lunario.[5]
Ecco quindi che Tim Cook e la Apple pensano di sparigliare le carte in modo geniale, anche se rischioso. Visto che alla fine il consumatore vuole lo streaming, perché non acquistare direttamente i diritti e vincolare per un periodo temporale a livello gratuito alla propria base clienti l’ascolto dell’album e poi beneficiare dei proventi via streaming? In sintesi, trasformare il settore da business-to-consumer (la casa discografica che vende ai privati attraverso la rete distributiva) a business-to-business (il distributore che compra alla casa discografica i diritti e li gestisce in autonomia) e vincolare a uno specifico canale di produzione e distribuzione quella specifica musica.
Questo è bene per gli artisti? Diciamo che Byrne ne sarebbe assai contento. Infatti Bono, molto fiero, dice che “non credo nella musica gratuita, la musica è sacra” e questo è un modo per salvare l’industria della musica che allo stato attuale è stata incapace di stare al passo con la tecnologia digitale.[6] Con questa operazione, infatti, si trova una soluzione per garantire i giusti proventi per la ricerca, l’innovazione e la creatività. Le case discografiche ne sono pure contente in quanto, seppur probabilmente inferiori, riescono a monetizzare immediatamente e in via certa i proventi. E i distributori che si accaparrano i diritti hanno un forte strumento di controllo del prodotto, da un lato, e di potenziale loyalty building, dall’altro.
Le conseguenze
Tutto bene, quindi? Diciamo che manca l’ultimo attore della filiera per certificare la bontà di questa operazione: l’utente. Come molti episodi che spaziano dal business alla politica, passando attraverso lo sport ci hanno dimostrato negli ultimi anni, il consumatore della Rete è in effetti un soggetto assai strano e altamente imprevedibile. Sicuramente il consumatore predilige i servizi ai prodotti e ne apprezza la gratuità rispetto a qualsiasi forma di costo – come purtroppo ben sanno i gestori della rete fisica da quando esistono i cosiddetti Over-The-Top. Ma che succede quando si trovano un regalo in casa sul proprio smartphone, tablet o PC? A differenza del celebre detto internazionale secondo cui è inopportuno guardare in bocca al cavallo regalato, si sentono violati nella privacy e iniziano un incredibile tam tam tra i social network, che ha anche tratti mediatici clamorosi. Per esempio, il celebre cantante Mika ha firmato un articolo in prima pagina sul Corriere della Sera in cui sostiene che: “Apple può promuovere quello che vuole e come vuole nello Store, ma la nostra libreria [intesa come archivio file] dovrebbe essere protetta. In verità non lo è”. Il risultato è che grazie anche a potere e ironia della Rete oggi Songs of Innocence non solo è il primo “concept album” della storia degli U2 e il primo album i cui diritti sono stati venduti a un canale digitale, ma detiene il singolare record di essere il più rimosso album della storia del downloading.[7]
Oltre la musica
Quale l’esito quindi? I prossimi mesi ci diranno se l’operazione avrà avuto per Apple e per gli U2 un saldo positivo o negativo. È tuttavia opinione di chi scrive che una simile operazione non può che essere apprezzata per il tentativo di trovare una nuova logica di rigenerazione del valore in una filiera che è ormai percepita obsoleta dall’utenza finale e che allo stesso tempo, se concepita in modo ultramoderno, rischia di far evaporare nella Rete il valore dei prodotti e, più in generale, degli intangibles che le innovazioni producono. Cosa più importante è che la musica è solo la punta dell’iceberg dello streaming, e più in generale della digitalizzazione dei servizi. Oltre alla musica ci sono già i video e le serie TV, ci saranno i film e magari anche interi pacchetti di software e di servizi che grazie alle app saranno sempre più progressivamente customizzati e trasferibili in Rete. Tutto ciò produrrà ulteriori disintermediazioni che rischieranno di far evaporare ulteriore valore se non si troveranno logiche più attuali, non tanto per produrlo (alla fine la creatività si trova nelle teste delle persone e, se ci guardiamo alle spalle, l’evoluzione della specie farà solo bene alla creatività e certamente non la farà svanire), quanto per organizzarlo, certificarlo e distribuirlo al mercato finale.