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2012/4
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Fantastical thinking, transportation and persuasion in advertising
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Il ruolo del responsabile di filiale
Dialogo tra HR e linea: idee e azioni per essere (più) strategici
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Il mercato del privare equity e gli LBO
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Il Diversity Management
La diversity delle competenze nei sistemi di corporate governance. Competenze attuali e auspicate
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I comuni italiani sono 2.0? I risultati di un’indagine esplorativa
Storie di straordinaria imprenditorialità
Fotogrammi
Io sono Li. Ma noi siamo qui?
In un bar di Chioggia si captano fremiti d’amore fra la barista cinese e un vecchio pescatore di origini polesane. Celebrato come il film sorpresa della scorsa stagione, Io sono Li di Andrea Segre mette a fuoco con delicatezza di toni la crisi identitaria che si può generare in soggetti coinvolti in processi di rapida transizione verso società multiculturali.
Io sono Li
Regia: Andrea Segre
Interpreti: Rade Serbedija, Zaho Tao, Marco Paolini
Italia, 2011
Questa volta conviene davvero partire dal titolo. Io sono Li ha infatti una duplice valenza semantica: da un lato è una semplice enunciazione di identità fatta associando un nome (Li) al pronome personale di prima persona (un po’ come se io scrivessi: Io sono Gianni Canova). Li è dunque, prima di tutto, un nome proprio di persona: quello di una migrante cinese (Shun Li) che prima lavora in un laboratorio di cucitura nella zona del Prenestino di Roma e poi viene mandata dai suoi padroni a lavorare in un caffè di Chioggia rilevato dai cinesi e frequentato per lo più da anziani pescatori locali. Ma in italiano la frase “io sono lì” associa l’identità non solo a un nome ma anche a un luogo: quasi a suggerire e a ricordare che quel che siamo dipende sempre anche dal contesto in cui ci troviamo. Li – dicevamo – è a Chioggia. In un paese che non conosce. Dove tutti usano termini intraducibili (Ostrega!) e fanno ordinazioni incomprensibili (“un’ombra”, “uno spritz…”). Lì, nell’osteria frequentata da personaggi contemporanei che sembrano usciti da una commedia di Goldoni, la spaesata Li conosce un altro profugo: viene da Pola, ha origini slave, e anche se sta a Chioggia da quasi trent’anni e molti ormai lo chiamano Bepi, continua a essere considerato dalla maggioranza degli indigeni uno “straniero”. Fra i due – il poeta pescatore e la barista cinesina – scatta una delicatissima solidarietà creaturale. Non è neppure amore, è qualcosa di meno e al contempo anche qualcosa di più: la consapevolezza di essere accomunati da un analogo percorso di vita (e, forse, anche di fuga) fa sì che i due si illudano per un attimo di poter compensare le reciproche solitudini. Ma non è così che vanno le cose. E il film di Andrea Segre – la più bella sorpresa italiana della Mostra del cinema di Venezia del 2011 – riconduce con mano ferma la storia verso i binari accidentati su cui viaggia – da noi – ogni serio progetto di multiculturalismo.
Ne discutono, come di consueto, Gianni Canova e Severino Salvemini.
S.S. Un pescatore sul viale del tramonto e un’immigrata cinese in cerca di riscatto esistenziale attraverso il lavoro. Bepi e Shun Li, il pescatore e la barista, non sono solo due dei più bei personaggi del cinema italiano dell’ultimo decennio: sono anche due vite distanti che fluttuano ondivaghe nella acquitrinosa realtà che li accomuna fino a incontrarsi. In fondo non c’è molta differenza tra la figlia dei pescatori cinesi e un pescatore di origine slava trapiantato nella piccola comunità veneta: condividono il mare, lo sguardo amorevole verso la natura umana, l’affetto per il paesaggio, il pudore dei sentimenti e delle emozioni. Il film è tutto giocato su questa simmetria: i “casun” di legno in mezzo alla laguna hanno un certo sapore orientale; e poi, come afferma uno dei pescatori, è “Marco Polo che ha insegnato a cucinare ai cinesi”.
G.C. Hai detto bene: simmetria. Ma poi anche convergenza. È come se tutto il film di Andrea Segre fosse costruito per portare a un punto di incrocio ciò che prima sembrava scorrere parallelo. La voce roca del vecchio e la voce flebile e musicale della giovane a un certo punto si incontrano, duettano, sono incredibilmente armoniche, o sanno armonizzarsi nonostante le inevitabili disarmonie da cui provengono. Sono piuttosto le voci degli altri che non si armonizzano, e che continuano a essere cacofoniche. Volutamente, ostinatamente.
S.S. Certo. Se un film come Io sono Li ha un pregio – come dire – sociologicamente indiscutibile è quello di sottolineare le resistenze che un certo contesto culturale può opporre a qualsiasi progetto di integrazione o di dialogo multiculturale. Il film mette in scena un microcosmo ristretto, apparentemente gioviale, in realtà refrattario a qualsiasi cambiamento. Penso anche solo ai personaggi che si ritrovano abitualmente all’osteria in cui finisce a lavorare Shun Li: c’è “l’avvocato” (Roberto Citran), che incessantemente sobilla gli altri, presagendo trame e seminando diffidenze e paure; c’è Devis (Giuseppe Battiston), perdigiorno pieno di stereotipi in versione tatuata; e c’è Coppe (Marco Paolini), di grandissima umanità, l’unico che alla fine sta dalla parte giusta ma che sceglie di farlo con troppo ritardo.
G.C. In certe scene sembrano i “rusteghi” di Goldoni. Parlano sempre con il rumore di sottofondo della televisione inascoltata. Hanno l’indole faceta dei tiratardi che preferiscono la chiacchiera del dopolavoro alle responsabilità familiari che li aspettano. Tra un’“ombra de vin” e un’altra, infilano battute caserecce e xenofobe come se nulla fosse. Ma questo loro carattere “ruspante” rende ancora più preoccupante la loro chiusura nei confronti della diversità. Mi sento di poter dire che in essi Andrea Segre è riuscito a sintetizzare la bonomia del misoneismo, o la diffidenza strisciante nei confronti della diversità: atteggiamenti che mi sembrano molto presenti, oggi, anche nello scenario dell’economia.
S.S. Va detto però che la contaminazione è sgradita alla comunità cinese almeno quanto a quella locale. E in ciò sta la forza del film: nella lucidità con cui ci mostra come l’Italia sia diventata un paese di immigrati senza aver completamente risolto le condizioni di disagio e di povertà interna. In alcune zone non ricche dell’Italia (nelle periferie in modo particolare) si è creata una condizione di multiculturalità dove il dialogo non è semplice: da una parte la cultura straniera e dall’altra la base popolare e borgatara delle zone dell’hinterland. Nel film i personaggi si sfidano anche per il fatto di parlare due lingue, il dialetto chioggiotto e il cinese, non a caso tradotti ambedue con i sottotitoli.
G.C. … ed è significativo che il territorio in cui queste diversità si incontrano e si scontrano sia un territorio ad alto tasso simbolico come quello di Chioggia: un’isola in bilico tra l’acqua e la terraferma. Un contesto che sembra rimanere fuori da qualsiasi intersezione contemporanea. Una laguna apparentemente sterminata come il mar della Cina, ma con i monti sullo sfondo a ribadire che ci troviamo in Italia, la terra dei mille paesaggi e delle mille culture.
S.S. Già. Ma proprio questo è il punto: l’Italia dei mille paesaggi e delle mille culture è pronta per una nuova società multiculturale? Il film di Andrea Segre ci lascia nel dubbio: alterniamo momenti di accoglienza ad altri di rifiuto. Il film evita le banalità dei soliti discorsi sull’immigrazione, fotografa quanto l’umanità del quotidiano possa essere crudele e spaventata nei confronti del diverso. E forse ci dice che non siamo ancora sufficientemente reattivi rispetto al tema: gli eventi ci sovrastano, siamo in fondo tutti conservatori, vorremmo che le cose restassero quelle di sempre.
G.C. Il problema insomma non è Li. È piuttosto, decisamente, qui.