E&M

2012/4

Vincenzo Perrone

Attenti alla mCloud: da quella nuvola di carta piovono crisi

Scarica articolo in PDF

Sospesi sopra di noi pare non ci siano solo i milioni di terabyte del cloud computing, la moltitudine di informazioni custodite in chissà quale fattoria di server, alle quali cominciamo ad attingere secondo bisogno in ogni luogo e in ogni tempo, rimanendo eternamente connessi alla nuvola. Un vecchio Saggio – indiano e quindi necessariamente chiuso in una riserva americana, piena di casinos e con ancora troppi alcolizzati – ci ha raccontato, all’ombra delle centinaia di libri letti e mentre le ventole dei suoi due pc riscaldavano insieme a un caminetto acceso la stanza della sua modesta abitazione, una storia che vi riportiamo. Potrebbe infatti non essere troppo lontana dalla realtà, visto che anch’essa parla di nuvole altrettanto virtuali quanto più pericolose.

Cormac McCarthy ci ha insegnato che i discorsi diretti possono essere scritti senza uso di virgolette. Seguiamo il Maestro mentre trascriviamo il Saggio.

Non ricordiamo più come fosse il tempo. Ma doveva fare molto caldo il 15 agosto del 1971 quando radio e televisione insieme portarono nelle case degli americani le parole del presidente Nixon e del suo Address to the Nation Outlining a New Economic Policy: “The Challenge of Peace” (http://www.presidency.ucsb.edu/ws/index.php?pid=3115#ixzz1w5jgNszU). Quel discorso, dove si parlava di posti di lavoro e di crescita come se ne parla ancora oggi nei nostri giornali, annunciava un cambiamento epocale: la fine della convertibilità del dollaro in oro, il termine del cosiddetto gold standard. Sono oramai in molti a ritenere, come il nostro Saggio, che quello fu il momento in cui la nuvola che ci interessa cominciò a ingrossarsi.

Una nuvola fatta di moneta. O meglio degli strati di titoli di debito che gli economisti distinguono in: M0 (o base monetaria) che comprende quella che le persone comuni considerano la vera moneta ovvero le banconote e le monete metalliche che abbondano o scarseggiano nei nostri portafogli o sotto al nostro materasso. Più attività finanziarie convertibili in moneta legale rapidamente e senza costi, come le passività della banca centrale verso le banche. Se a M0 sommate tutte le altre attività finanziarie che possono, come la moneta, regolare transazioni (depositi in conto corrente con fondi immediatamente trasferibili con assegno o bonifico o attraverso traveller’s cheque) ottenete la cosiddetta liquidità primaria o M1. A M1 segue M2 (o liquidità secondaria) che aggiunge allo strato precedente attività finanziarie sempre a elevata liquidità e con valore futuro certo come i depositi bancari “di risparmio” o quelli postali, non trasferibili a vista mediante assegno (per la zona euro la Banca Centrale Europea stabilisce che in M2 rientrano i depositi con scadenza fissa fino a due anni e i depositi rimborsabili con preavviso di almeno tre mesi). L’aggregato maggiore è infine costituito dalla cosiddetta M3 ovvero da quanto visto negli insiemi precedenti 0, 1 e 2 più tutte le altre attività finanziarie che possono costituire una riserva di valore: per esempio obbligazioni, come i BOT statali (sempre per la BCE vanno comprese qui le obbligazioni con scadenza a due anni, le quote dei fondi di investimento monetario e i titoli di debito con scadenza fino a due anni).

Fatta questa precisazione tecnica, il vecchio saggio si ferma per proporci un quesito. Come pensate che siano variate queste grandezze monetarie nel corso degli ultimi anni? Siamo certi che anche voi lettori avete dato la risposta giusta. Negli Stati Uniti d’America, nel periodo che va dal 2001 al 2010 l’M2 in rapporto al PIL (secondo dati della Federal Reserve) cresce di ben 14 punti percentuali assestandosi a circa il 64% del PIL. Per dare ai nostri lettori un ancoraggio assoluto ricordiamo che secondo il Fondo Monetario Internazionale il PIL USA del 2010 è stato di circa 14.500 miliardi di dollari. Ancora più interessanti sono i dati americani relativi alla M3 per il semplice motivo che… non ci sono! Il 23 marzo 2006 la Fed ha semplicemente deciso di cessarne la pubblicazione. Sappiamo che nell’ultimo anno per il quale ci sono numeri ufficiali, il 2005, aveva raggiunto l’80% del PIL e che se, come è altamente probabile, ha mantenuto poi lo stesso trend di crescita, dovrebbe oggi viaggiare intorno al 100% del PIL americano. L’Eurozona manifesta andamenti simili: l’M3 era l’80% del PIL nel 2005 e cresce costantemente fino al 105% del 2009 per poi ridursi intorno a quota 100, evidentemente per effetto delle politiche restrittive messe in atto in questi ultimi tempi (sempre secondo FMI, il PIL dell’Eurozona nel 2010 ha un valore di circa 12.160 miliardi di dollari). I numeri disponibili sembrano quindi confermare l’idea che negli ultimi dieci/quindici anni la crescita delle principali economie mondiali, così come i momenti di crisi e ristagno, siano stati accompagnati da un costante aumento della massa monetaria.

Con un sorriso mesto e un lampo nei suoi occhi neri, il nostro Saggio ci ricorda tuttavia che ancora non abbiamo preso in considerazione la parte più espansa e venefica della nuvola. Lui la chiama, ricordando Marx, “moneta fittizia”: si tratta di strumenti forniti dal sistema finanziario, e per questo non registrati pubblicamente e sottoposti al controllo delle autorità di vigilanza, che possono essere mezzi di pagamento. Sono, direbbe un nostro ex ministro, una serie di mostri usciti da un pericoloso videogioco che andrebbe proibito a banchieri e politici specie se locali e anche se maggiorenni: si va dal credito al consumo (un fenomeno per molto tempo pressoché sconosciuto nel nostro paese e invece oggi in grande crescita, legato come può essere all’utilizzo delle carte di credito) a tutti gli strumenti cosiddetti “derivati”, che il buon ragionier Fantozzi assimilerebbe senza esitare e senza sbagliare a un enorme mucchio di “cambiali”. Con la differenza che, mentre lui si rovinava la vita per pagarle, chi è il debitore originale nascosto nelle pieghe di un derivato spesso non può o non vuole onorare l’impegno preso, rendendo questo tipo di titoli delle bombe a orologeria il cui scoppio ha fatto da innesco alle crisi che stiamo vivendo. E basta provare a dare un’occhiata alle stime circa il valore nozionale – si tratta di una stima visto che il dato preciso non lo conosce nessuno – di questi titoli (che si comprano e si vendono e che quindi sono potenzialmente tutti convertibili in moneta) per capire quanto forte può essere una grandinata sui cittadini del mondo che questa nuvola può provocare. La nostra Associazione Difesa Utenti Servizi Bancari e Finanziari (ADUSBEF) è quella che stima il numero più grande: la liquidità aggregata, e comprensiva quindi anche dei “debiti/moneta privati” come i derivati, sarebbe arrivata alla straordinaria cifra di 900.000 miliardi di dollari (circa quindici volte il PIL mondiale, che viaggia intorno ai 60.000 miliardi di dollari). Stime più prudenti si fermano a “solo” dodici volte il PIL del pianeta. In tabella 1 (si veda il pdf allegato) riportiamo ad esempio stime elaborate da Giorgio Ruffolo e Stefano Sylos Labini (http://www.syloslabini.info/online/wp-content/uploads/2012/02/Argomenti-Umani_1.pdf 01-2012, p. 4).

Per avere piena contezza delle dimensioni della nuvola che ci sovrasta dovremmo anche tenere conto del valore di azioni e obbligazioni. Nel 2007 (prima, quindi, che ci fosse la correzione forte di questi ultimi anni di crisi), secondo le fonti consultate da Giorgio Ruffolo,[1] le prime avevano un valore nominale di poco inferiore a quello del PIL del mondo mentre le seconde lo superavano di quasi il 35%.

Il Saggio indiano d’America a questo punto fa una pausa, come a tirare il fiato dopo tanti numeri. E poi ammonisce. La nuvola è altamente infiammabile a cominciare dallo strato dei derivati. Quella è una bomba con una miccia che può prendere fuoco contemporaneamente da due parti. Da una parte potrebbe accendersi perché chi si è assunto l’impegno a ripagare il debito che sta alla base del titolo potrebbe non essere in condizioni di farlo. Dall’altra, il solo sospetto che questo possa accadere potrebbe spingere chi ha investito nel titolo e nel suo rendimento atteso a perdere fiducia e a cercare di liberarsene alla svelta. In entrambi i casi si creerebbe una forte turbolenza che impiegherebbe pochissimo a trasferirsi alle banche che hanno tra i propri asset questi e altri titoli rischiosi. L’esperienza di questi anni di crisi insegna che dallo strato più rischioso della nuvola l’incendio si propaga rapido a banche che hanno rilievo sistemico, e quindi agli Stati che non possono lasciarle fallire. A costo di finire loro stessi – gli Stati – nei guai, dovendosi indebitare in modo insostenibile. Basta che ci siano variazioni anche minime nei livelli di fiducia e quindi nei rischi percepiti associati a ciascuno strumento che la finanza creativa di quest’ultima fase dell’evoluzione del capitalismo ha inventato, perché si mettano in moto oscillazioni spaventose. Come nel famoso apologo del battito d’ali di farfalla su Nanchino che provoca in un mondo complesso e iperconnesso un uragano a New York: basta uno stormir di fronda perché l’enorme nuvola finanziaria si metta pericolosamente in moto scatenando una tempesta planetaria. La fragilità intrinseca del sistema che si è creato sta proprio nel rapporto, sempre più squilibrato a vantaggio della prima, tra nuvola – della finanza – e terra – dell’economia reale. Solo l’esistenza di una vera ricchezza e della capacità dei diversi sistemi economici di produrla può garantire che tutti i debiti siano onorati. Se non basta a farlo tutto il PIL del mondo per decine di anni a venire, è logico attendersi instabilità e crisi. Lo squilibrio deve essere quindi riassorbito e la nuvola ridotta di dimensioni. La domanda chiave è: a spese di chi?

Impossibile non chiedere al nostro Saggio di arricchire la sua storia immaginaria dell’economia con una breve sintesi dei processi che ci hanno portato fino a questo punto e delle possibili soluzioni. Lui ci spiazza citando a lungo un nostro collega, il professor Massimo Amato, un attento ricercatore che si occupa di storie vere e non verosimili come quella che vi stiamo raccontando. Amato ci riporta appunto a quell’agosto del 1971: “Il finanziamento della crescita delle economie alleate, europee e asiatiche, è costato agli Stati Uniti una costante perdita di competitività internazionale, registrata dalla crescita del deficit di bilancia dei pagamenti e, all’interno della bilancia dei pagamenti, dalla riduzione del surplus di bilancia commerciale e dalla sua trasformazione in un deficit, con tutte le note conseguenze sull’occupazione di un’economia industriale standard e ‘fordista’ quale è ancora quella americana degli anni sessanta. A ciò si sono aggiunti i costi del confronto militare, diretto o indiretto, con l’URSS, e in particolare quelli relativi alla guerra del Vietnam, sostenuti fino a quel momento pressoché interamente dagli USA. … È nel quadro di tale scelta che l’Occidente euroamericano e giapponese è potuto crescere secondo modalità, diciamo, ‘keynesiane’ – anche se in effetti, e senza scomodare Keynes, si potrebbe molto più semplicemente dire: sulla base di un sostegno alla crescita economica costantemente fornito dalla spesa americana, ripartita, secondo proporzioni variabili da fase a fase e da luogo a luogo, fra commercio, warfare e welfare. L’espansione dei mezzi di pagamento – consentita, nel modo che abbiamo visto, da una trasformazione dei debiti americani in moneta internazionale, resa a sua volta possibile, come vedremo, dal modo in cui Bretton Woods aveva definito la moneta internazionale – ha permesso agli USA un finanziamento crescente del loro potere economico e militare, che è stato tuttavia pagato con l’indebolimento progressivo della posizione del dollaro sui mercati valutari (mercato dell’eurodollaro in testa), con tutto il corollario di azioni speculative che il funzionamento di questi peculiari mercati potenzialmente consente, e dunque inevitabilmente suscita. I dollari convertibili in oro, ma proprio per questo fino a quel momento non convertiti, iniziano a un certo punto a ‘essere troppi’. Il dollaro inizia, cioè, a essere percepito come ‘debole’ rispetto a ciò che fino a un momento prima ha validamente surrogato, ossia l’oro. Ora, lo stato d’indebolimento del dollaro nel 1971, al contempo causa ed effetto delle richieste speculative di conversione di dollari in oro da parte dei loro possessori non americani, è tale da non consentire più agli Stati Uniti il mantenimento della parità alla quale avevano promesso nel 1944 di convertire in oro la loro cartamoneta, senza tuttavia mai essere stati costretti a farlo, proprio e solo in forza della credibilità della loro promessa. E tuttavia la strada della svalutazione, cioè della modifica, deliberata in buona e dovuta forma, della parità oro-dollaro a un livello più elevato, ossia la svalutazione del dollaro, o, all’inverso, la rivalutazione dell’oro, non solo non è compatibile con il modo in cui la promessa di conversione è stata formulata negli articoli del trattato, ma non lo è nemmeno con la logica della competizione bipolare. Una rivalutazione dell’oro avrebbe effetti su tutte le economie favorendo quelle con forti riserve auree e sfavorendo quelle con poche riserve. Ora, dal punto di vista bipolare, fra i paesi ‘ricchi in oro’ non si annoverano solo alleati come la Francia o la Germania, ma anche l’avversario par excellence degli Stati Uniti, l’Unione Sovietica. Una rivalutazione dell’oro favorirebbe dunque proprio l’avversario per fronteggiare il quale gli USA si sono venuti a trovare in una posizione di debolezza monetaria. … Ci sono, insomma, tutti gli elementi per interpretare la decisione del 1971 (certo unilaterale ma, nella misura in cui è temporanea, non del tutto impraticabile dal punto di vista diplomatico) di procedere a una sospensione della convertibilità, come una riapertura della negoziazione all’interno del campo occidentale, a fronte di una modificazione ormai irreversibile della situazione di partenza. Non è un caso che, sempre nello stesso messaggio in cui dichiara la sospensione, Nixon affermi che gli Stati Uniti ‘faranno pressione perché possano avere luogo le riforme necessarie per mettere in atto un nuovo sistema monetario internazionale, di cui abbiamo urgentemente bisogno’”.[2]

Il lavoro di Amato ha, tra gli altri, il merito di suggerire la trama sulla quale il nostro creativo Saggio può costruire la sua storia anche al di là del 1971. Una storia per molti versi assai differente rispetto alla vulgata comune che domina i giornali (e anche diversi libretti). L’economia non è più vista come una variabile indipendente dalla politica e dagli interessi degli Stati, a cominciare da quelli Uniti d’America. Ed è solo ricordando la storia che possiamo comprendere presente e futuro possibile della finanza globale. Gli anni settanta e i primi anni ottanta allora si mostrano come gli anni dell’ultimo tentativo dell’Unione Sovietica di sfidare e vincere contro gli Stati Uniti. Un tentativo che pare riuscire sul piano militare con il contributo fondamentale dei cubani e dei servizi segreti dei paesi dell’Est Europa, DDR in testa: nel 1973 i carri armati sovietici entrano a Praga; nel 1974 cade la dittatura di destra in Portogallo e si scatena in Angola il movimento popolare di liberazione. In diversi modi, ma tutti a mano armata, entrano nell’orbita sovietica – o comunque cadono sotto il controllo di regimi ostili agli USA e all’Occidente – Etiopia, Libano e Iran. I russi attaccano l’Afghanistan nel 1979 e mettono il generale Jaruzelski a combattere Solidarnos´c´ in Polonia nel 1980. Nel “giardino di casa” sudamericano, gli Stati Uniti e i regimi loro alleati devono fronteggiare forme efficaci di guerriglia sostenuta dall’URSS in Uruguay con i Tupamaros, in Argentina e Brasile, in Colombia e in Nicaragua. Secondo il nostro Saggio, non meno importanti dei successi militari sono quelli diplomatici ottenuti dall’Unione Sovietica: come l’entrata della Cina all’ONU al posto di Taiwan, o il riconoscimento da parte della stessa organizzazione dell’OLP, l’organizzazione per la liberazione della Palestina, piuttosto che le aperture della “Ostpolitik” di Willy Brandt. Parte dello stesso confronto armato, in questa particolare prospettiva, sono anche i terrorismi che sconvolgono in quegli anni due paesi chiave al limite della cortina di ferro: la Germania con la Rote Armee Fraktion e l’Italia delle BR e delle bombe.

Per combattere su tutti questi fronti di guerra e guerriglia gli Stati Uniti si svenano, stampano moneta e si indebitano. Anche il debito pubblico dei paesi europei cresce notevolmente in quegli anni, ma è soprattutto per vincere la battaglia decisiva nel confronto tra Est e Ovest, capace di più che compensare i relativi insuccessi militari: quella del welfare. L’Occidente “vince” perché i lavoratori hanno condizioni di vita migliori e più diritti, perché possono comprare un’auto molto più bella di una Trabant, perché hanno diritto a un’assistenza sanitaria di qualità (la legge n. 833 che istituisce in Italia il Servizio Sanitario Nazionale – un “lusso” pubblico che gli Stati Uniti ancora oggi non riescono a concedersi – è del 1975) e di buone scuole pubbliche aperte ai loro figli, e non solo a una ristretta élite, senza vincoli fino all’università, perché possono andare in pensione a un’età certa e continuare a godere di un reddito tale da garantire loro un tenore di vita non troppo diverso da quello che avevano in precedenza. È su questo piano che l’Occidente mostra tutta la sua forza politica, istituzionale, culturale e soprattutto economica. È la prospettiva del benessere per tutti, delle merci abbondanti tra le quali scegliere, della crescita e del successo accessibile che trionfa nel duro confronto tra Est e Ovest. Un’affermazione costruita in gran parte a debito e nascondendo, successivamente anche grazie al contributo deflativo della fabbrica Cina, gli effetti inflattivi derivanti dallo “stampare moneta”.

Un solo dato dovrebbe bastare a dimostrare che questo effetto inflativo c’è stato davvero: nel 1971, l’anno dell’abbandono del gold standard, un’oncia d’oro costava circa 36 dollari. Oggi ne occorrono quasi 1670, ottocento dei quali si sono aggiunti solo negli ultimi dieci anni, da quando cioè la dottrina monetaria del quantitative easing è stata abbracciata dalle banche centrali, in primo luogo anglosassoni, per combattere la recessione e la deflazione prima, e poi anche per fare fronte al rischio sistemico indotto dal fallimento di banche come Lehman Brothers. Gli Stati Uniti si trovano oggi in una situazione molto complicata, con un debito pubblico arrivato intorno al 90% del PIL (raddoppiato in poco più di trent’anni), ma con quello aggregato, che comprende cioè anche quello delle imprese e delle famiglie, che svetta nel mondo al 350% della ricchezza prodotta.[3] Hanno un deficit di bilancio pubblico del 9% e una bilancia commerciale in negativo nel 2011 di 3.7 punti percentuali pari a 558.000 milioni di dollari. Un paese con questi numeri, peraltro impegnato ancora in due guerre molto costose come quella in Iraq e quella in Afghanistan, oltre al confronto con l’Iran, e dove il popolo è abituato a consumare più di quanto produce, dovrebbe essere guardato con sospetto da chi maneggia la finanza internazionale. E invece il dollaro, sorretto anche dalla forza militare di cui sopra, si apprezza rispetto all’euro e i titoli del debito americano continuano a trovare generosi finanziatori in paesi come la Cina, il Giappone, la Gran Bretagna, alcuni paradisi fiscali e tutti i paesi produttori di petrolio. Non sarà perché – insinua malevolo il nostro Saggio indiano – nel frattempo la possibile alternativa dell’euro sta vivendo proprio ora il suo momento più difficile?

Alla luce della immaginifica ricostruzione del nostro amico, la contrapposizione tra mondo anglosassone, da un lato, e Germania, dall’altro, assumerebbe un’ulteriore e più profonda dimensione, pur senza arrivare a quella drammatica che ci è costata due guerre mondiali nel secolo scorso. Forti del controllo delle principali centrali finanziarie ancora capaci di orientare i movimenti della nuvola facendo grandinare dove si vuole, delle agenzie di rating che funzionano come i traccianti rispetto al fuoco dei bombardieri (i computer in rete che gestiscono in automatico milioni di transazioni finanziarie per unità di tempo determinando il destino di singole aziende o di interi Stati), del dollaro e della potenza militare che lo sostiene, oltre che del capitale simbolico accumulato in ambito culturale e di quello umano che ancora consente di produrre innovazione tecnologica di qualità elevata, gli Stati Uniti starebbero facendo ancora una volta leva sulla politica monetaria per proteggere i propri interessi, e hanno bisogno di indurre tutti gli altri attori rilevanti a partecipare allo stesso gioco senza cambiarne davvero le regole.[4]

La Germania, invece, segnata per sempre dall’iperinflazione di Weimar, forte delle proprie fabbriche, della propria bilancia commerciale in attivo e del proprio stato sociale sembra rappresentare il polo della concretezza reale, quello secondo il quale la nuvola va innanzitutto ridotta di dimensioni se si vuole stabilizzare il mondo dal punto di vista economico e sociale, anche imponendo a chi si è illuso di poter vivere al di sopra dei propri mezzi e a debito di cambiare e di meglio allineare stili di vita, competenze e capacità di creazione di ricchezza in un contesto globale e competitivo.[5]

Quella che vi abbiamo raccontato è solo un’ipotesi, una bella storia che un Saggio ha voluto condividere con noi. Niente che valga le accurate analisi che potete leggere ogni giorno nei pensosi fondi dei nostri quotidiani. Ma se le cose, per caso, stessero più o meno come le abbiamo descritte, cosa si potrebbe fare? La nostra risposta suonerà ambigua come accade sempre quando si cerca di trovare una “terza via”: dovremmo accettare soluzioni mirate di tipo americano nel breve (ovvero un ricorso temporaneo, controllato ed equilibrato negli incentivi che crea, a politiche monetarie espansive) ma solo dopo avere stabilito e descritto una traiettoria di ristrutturazione e rilancio dell’economia reale “alla tedesca” per il medio e lungo periodo. Senza qualche tattica espansiva forse la correzione sarebbe severa al punto da uccidere paesi come il nostro o la Spagna. Ma senza un’Europa e un’Italia capaci di seguire le orme tedesche ci condanneremmo a cronicizzare le crisi e a un generale impoverimento delle nostre condizioni di vita. Questo per noi significa:

 

·         non seguire il modello americano di progressiva polarizzazione sociale secondo il quale una quota sempre più ristretta di persone controllano la stragrande maggioranza delle risorse e godono di una qualità della vita (salute e educazione in primis) accettabile. Favorire piuttosto, anche attraverso la leva fiscale, politiche redistributive;

·         puntare sulla capacità di produrre ricchezza reale. Una capacità che si costruisce in primo luogo nelle scuole, nelle università e nei laboratori di ricerca. Che passa poi attraverso una rivalutazione delle attività manifatturiere di qualità e ad alto valore aggiunto, unita alla capacità di elaborare e realizzare una politica industriale in grado di servire gli interessi strategici del nostro paese e dell’Europa alla quale esso appartiene;

·         una revisione profonda del ruolo delle banche in rapporto all’economia reale, con regole e controlli che impediscano l’accumulo di rischi sistemici e palesi quanto letali conflitti di interessi;

·         prepararsi a una razionalizzazione dello stato sociale (welfare) senza rassegnarsi alla sua distruzione ma eliminando sprechi, individuando in modo coraggioso coloro che ne devono avere diritto, migliorando efficienza e produttività delle strutture pubbliche che lo erogano e favorendo la partecipazione privata secondo il principio di sussidiarietà.

 

Come si vede, non si tratta di idee molto originali. Ma vederle tutte insieme e inserite nella prospettiva storica, politica, economica e sociale che abbiamo provato a tratteggiare forse può suggerire una riflessione più profonda del solito, ispirare un programma e stimolare un’azione impegnata e cosciente. Per uscire dalla crisi presente e meritarci un futuro migliore, senza nuvole scure.

1

Giorgio Ruffolo, Testa e Croce. Una breve storia della moneta, Einaudi, Torino, 2011, p. 137.

2

Massimo Amato, L’enigma della moneta, et al. Edizioni, Milano, 2012, pp. 51-53.

3

Per la tabella si veda il pdf allegato.

4

Il governatore della Fed, Ben Bernanke ha espresso il 21 novembre del 2002 l’essenza di questa dottrina, vista nella prospettiva della lotta alla stagflazione, nel modo più diretto e chiaro possibile: “The U.S. government has a technology, called a printing press (or, today, its electronic equivalent), that allows it to produce as many U.S. dollars as it wishes at essentially no cost. …We conclude that, under a paper-money system, a determined government can always generate higher spending and hence positive inflation”. (http://www.federalreserve.gov/boarddocs/speeches/2002/20021121/ default.htm)

5

Questo modo di approfondire e collegare i dati disponibili per arrivare a una più profonda e articolata interpretazione della situazione economica e sociale che stiamo vivendo comincia a diffondersi ben al di là della riserva indiana dove vive il nostro Saggio. Vi sono colleghi della Boc­coni, come il citato Massimo Amato o Fabrizio Pezzani. Giornalisti attenti come Massimo Mucchetti o Corrado Augias. Grandi conoscitori della nostra società e della storia come Giuseppe De Rita o Geminello Alvi. Studiosi come quelli che animano il sito dedicato a Paolo Sylos Labini (www.syloslabini.info), a cominciare da suo figlio Stefano, e fonti di informazione libera, intelligente quanto ben documentata come www.agenzialarotta.it. Persino grandi speculatori come George Soros che i meccanismi poco visibili della finanza globalizzata li conoscono bene o ex finanzieri convertitisi in economisti come Detlev S. Schlichter che nel suo libro del 2011, Paper Money Collapse. The folly of elastic money and the coming monetary breakdown (John Wiley and Sons, New Jersey) utilizza tutto l’apparato analitico messo a nostra disposizione dalla cosiddetta Scuola Austriaca di Ludwig von Mises, Friedrich August von Hayek e colleghi, per dimostrare i rischi delle politiche monetarie espansive. Causati anche, per esempio, dal sostegno a progetti industriali di qualità marginale e ancor più dubbia redditività offerto dalla disponibilità di danaro a basso prezzo: un effetto sul quale non si è ancora indagato abbastanza e che potrebbe avere frenato in Occidente un’opportuna ristrutturazione del tessuto produttivo. Piuttosto che profondi conoscitori di storia, sociologia e antropologia come l’intellettuale francese Emmanuel Todd, uno studioso che aveva preconizzato il crollo dell’Unione Sovietica e che forse potrebbe azzeccarci anche ora che vede come possibile un declino americano. Si veda, per es., Dopo l’impero, Tropea (Le Querce), Milano, 2003.