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L’eurozona a un bivio: quali le leve per la stabilità e la ripresa?
Scarica articolo in PDFNel 1982 Tommaso Padoa Schioppa coniò il termine “quartetto inconciliabile” riferendosi all’impossibilità di avere contestualmente, in un’area economica formata da più paesi, quattro elementi: 1. libera circolazione internazionale di beni e servizi; 2. libera circolazione internazionale dei capitali; 3. un sistema di tassi di cambio fissi; 4. politiche monetarie indipendenti.
Ciascuno dei quattro elementi è in sé auspicabile. i primi tre favoriscono il commercio internazionale e la crescita economica; il quarto consente ai singoli paesi di perseguire politiche coerenti con la situazione economica interna.
La crisi valutaria che colpì nei primi anni novanta il sistema monetario europeo fornì una chiara evidenza empirica della validità dell’argomento di Padoa Schioppa. In presenza di mobilità dei capitali, politiche monetarie divergenti favorirono flussi speculativi che resero insostenibile il sistema di cambi quasi fissi vigente all’epoca in Europa fra le principali valute. Divenne evidente che l’incompatibilità riguardava in particolare tre elementi: la libera circolazione internazionale dei capitali, i cambi fissi e la presenza di politiche monetarie indipendenti, da cui il termine di “trio inconciliabile”.
L’introduzione della moneta unica e della Banca Centrale Europea rispondeva alle implicazioni di policy dell’inconciliabilità sancita da Padoa Schioppa. La rinuncia, da parte di ogni paese dell’area dell’euro, alla sovranità monetaria rappresentava infatti la condizione necessaria per garantire la libera circolazione dei capitali, da un lato, e il sistema dei cambi fissi dall’altro. Quest’ultimo venne peraltro ulteriormente rafforzato dall’introduzione di una moneta unica.
L’adozione dell’euro e l’introduzione di una banca centrale unica non sono state tuttavia in grado di evitare che l’economia europea sprofondasse, negli ultimi anni, in una grave crisi della finanza pubblica accompagnata da una profonda recessione economica che ha spinto la disoccupazione al di sopra del 12%. Nonostante i timidi segnali di ripresa emersi nel secondo trimestre del 2013, le stime di crescita restano particolarmente contenute anche per i prossimi anni. Per quanto concerne nello specifico il nostro paese, il 2012 ha registrato una contrazione del PIL del 2,4%, che segue un quinquennio di forte recessione durante il quale l’Italia ha perso 230 miliardi di euro di PIL in valore nominale, pari a oltre il 7%.
L’unione monetaria non rappresenta dunque ancora, nell’ambito del processo di integrazione europea, uno stadio sufficiente a garantire stabilità e crescita economica ai paesi membri. Occorre pertanto domandarsi quali sono i principali problemi che ancora caratterizzano l’eurozona e che hanno condotto alla situazione recessiva nella quale numerosi paesi europei, compreso il nostro, sono ancora intrappolati.
Il primo problema riguarda il divario significativo nell’evoluzione della produttività, riflesso chiaramente nell’indicatore del costo unitario per unità di prodotto, fra i principali paesi europei. Questa divergenza, che vede la Germania e altri paesi del Nord Europa in posizione virtuosa e quelli periferici del Sud Europa in posizione opposta, determina inevitabilmente un divario crescente nella competitività internazionale dei singoli paesi, la quale, in presenza di libera circolazione di beni e servizi, si traduce a sua volta in squilibri di parte corrente e nella conseguente perdita di occupazione nei paesi meno competitivi.
Come è possibile accrescere la produttività nei paesi più deboli e consentire loro di aumentare il proprio livello di competitività? La risposta più semplice è quella che passa per una ripresa degli investimenti. Qui interviene il secondo problema che affligge l’intera eurozona e in modo particolare i paesi del Sud Europa: la caduta degli investimenti.
Come evidenziato dal McKinsey Global Institute in un recente studio dedicato alla crescita in Europa, nel periodo dal 2007 al 2012 nell’Europa a 27 gli investimenti sono diminuiti di circa 475 miliardi di euro, un importo pari a circa dieci volte la caduta dei consumi dello stesso periodo, e pari a circa cinque volte la caduta del prodotto interno lordo nel corso dello stesso periodo. Questa caduta riguarda sia gli investimenti esteri sia quelli privati interni. La caduta più rilevante, espressa in percentuale del PIL, ha riguardato proprio paesi come la Spagna e l’Italia. È dunque in parte attribuibile a questo crollo degli investimenti la mancata crescita della produttività di paesi come il nostro.
Una ripresa degli investimenti trova a sua volta ostacolo in due problemi altrettanto rilevanti. Il primo è rappresentato dalle condizioni della finanza pubblica della maggioranza dei paesi dell’eurozona e in particolare di quelli periferici del Sud Europa come il nostro. Non potendo fare affidamento su investimenti pubblici, specie nel contesto di vincoli europei derivanti dal fiscal compact, non resta dunque che la strada degli investimenti privati. Questi ultimi sono tuttavia frenati dal terzo problema: la contrazione dell’offerta di credito. Nel corso degli ultimi tre anni numerosi paesi periferici dell’eurozona, Italia in primis, hanno infatti conosciuto una diminuzione senza precedenti dei prestiti bancari, accompagnata da un sensibile incremento del costo di tali prestiti.
Difficile determinare con certezza se questa caduta del credito sia dovuta a un vero e proprio credit crunch, ossia a una contrazione dell’offerta, oppure a una diminuzione della domanda. È verosimile che entrambi i fattori siano in gioco. In paesi come l’Italia numerose imprese dispongono di elevata liquidità e sono riluttanti a investire in presenza di elevata incertezza e difficili prospettive economiche, da cui anche la caduta della domanda di credito. Contemporaneamente, numerose piccole e medie imprese faticano a trovare fonti di finanziamento per la propria attività corrente e risultano dunque soffrire da una contrazione dell’offerta di credito.
La ripresa della crescita del credito bancario si scontra peraltro con alcuni importanti ostacoli. Anzitutto l’entrata a pieno regime del sistema di Basilea 3, prevista per il gennaio 2014, che prevede un diverso e più penalizzante criterio di computo del patrimonio, il quale inevitabilmente riduce i coefficienti patrimoniali delle banche rendendo più arduo il conseguimento dei requisiti minimi imposti dalla normativa. A fronte di una carenza di patrimonio e delle difficoltà nella raccolta di capitali freschi, alle banche non resta che la strada della contrazione degli impieghi per conseguire un rafforzamento dei coefficienti patrimoniali. A ciò si aggiunga l’entrata in vigore dei nuovi requisiti di liquidità, che inevitabilmente penalizzano gli attivi meno liquidi quali i prestiti alle imprese e rendono dunque più costosa l’offerta di credito.
Un secondo ostacolo alla crescita dei prestiti delle banche è rappresentato dall’elevato rapporto, specie per le banche di paesi come l’Italia, fra impieghi e depositi, il quale rende difficile immaginare una crescita ulteriore del numeratore, ossia degli impieghi, specie in presenza di vincoli al funding e alla leva finanziaria come quelli previsti dal sistema di Basilea 3. A ciò si aggiunga l’elevata incidenza dei crediti deteriorati, che pesano sui conti economici delle banche e riducono lo spazio disponibile per la generazione di nuovi impieghi.
Vi è infine un problema di particolare rilevanza che influisce sul costo prima ancora che sull’offerta di credito bancario. Si tratta del circolo vizioso che lega fra loro il debito pubblico di un paese e le condizioni di accesso al mercato dei capitali delle banche di quel paese. In presenza di un debito pubblico elevato e di un basso merito creditizio dell’ente sovrano – quale è il caso di numerosi paesi periferici dell’eurozona – le banche subiscono una doppia penalizzazione. Da un lato vedono ridursi il proprio merito di credito, e dunque innalzarsi il costo del funding, per effetto del semplice meccanismo che lega in modo automatico il rating di una banca con quello del proprio paese. Dall’altro, la presenza rilevante di titoli del tesoro nei bilanci delle banche rende queste ultime ulteriormente esposte al rischio di un deterioramento della qualità creditizia del proprio paese.
Questo circolo vizioso rappresenta uno dei principali fattori alla base del significativo deterioramento che le banche italiane – così come quelle di altri paesi periferici della zona euro – hanno subito nel corso degli ultimi anni nelle proprie condizioni di raccolta di fondi a medio-lungo termine nel mercato dei capitali. Questo deterioramento si riflette inevitabilmente in un innalzamento del costo del credito per le imprese, specie di quelle di minori dimensioni le quali non hanno accesso diretto al mercato dei capitali.
La crisi dei governi e quella delle banche finiscono così per alimentarsi l’una con l’altra. Il legame fra industria bancaria ed enti sovrani ha peraltro assunto natura variegata e dimensioni rilevanti. La crisi di singole banche ha costretto i governi di diversi paesi a intervenire nel capitale di rischio di queste ultime, divenendo azionisti di maggioranza o comunque di rilievo. Parallelamente, la quota dell’attivo delle banche investita in titoli del debito pubblico, ormai caratterizzati da elevati rendimenti, è andata crescendo nel tempo, in parte per sostenere conti economici gravati dalle perdite su crediti e, più in generale, da scarsa redditività. Sul fronte del passivo, l’intervento dei governi è anche in questo caso andato crescendo e ha preso la forma di garanzie prestate – sia in modo esplicito sia in modo implicito – a fronte del collaterale fornito alla Banca Centrale Europea e di altre forme di debito bancario. Infine, vi è il ruolo di prevalente fornitore di liquidità che la banca centrale è andata svolgendo nel corso degli ultimi due anni grazie alle operazioni di OMT (Outright Monetary Transactions). In conclusione, il ruolo dei governi nel settore bancario è andato crescendo nel tempo, estendendosi a tutte le componenti del bilancio di una banca: l’attivo, il passivo e il capitale azionario. Quali leve occorre dunque azionare per superare l’impasse rappresentata da contrazione del credito, caduta degli investimenti, perdita di competitività e conseguente decrescita economica?
Il primo e più importante obiettivo dovrebbe essere quello di stimolare una ripresa degli investimenti, specie nei paesi meno competitivi come l’Italia. A questo scopo, più che pensare a grandi progetti fondati su aumenti di spesa pubblica, di fatto impossibili nelle attuali condizioni di finanza pubblica, occorre creare le condizioni che favoriscano la ripresa degli investimenti privati. Ciò a sua volta richiede, da un lato, di rimuovere gli ostacoli di natura microeconomica che disincentivano tali investimenti in numerosi settori produttivi, dall’altro di favorire l’allentamento della morsa creditizia, agendo sia sul canale bancario sia attraverso canali alternativi. Come sottolineato nel rapporto 2013 predisposto dal Comitato di Indirizzo “Idee per la crescita” – un’iniziativa congiunta dell’Università Bocconi e dell’Einaudi Institute for Economics and Finance (EIEF) – “… i dati indicano che intorno all’economia italiana nel 2011-12 si è chiusa la morsa di una stretta creditizia senza precedenti. Il peggio è che l’offerta di credito bancario è destinata a contrarsi ancora negli anni a venire per consentire alle banche di ricostruire i propri bilanci e ridurre la leva finanziaria. E anche il suo costo è destinato a rimanere elevato. Questo renderà più appetibili altre forme di finanza diverse dal credito bancario, sia sotto forma di azioni che di debito obbligazionario. Più in generale, il sistema finanziario italiano è ancora troppo centrato sul ruolo delle banche. Ampliare l’offerta di strumenti finanziari rispetto ai prestiti bancari è dunque cruciale anche per offrire alle imprese gli strumenti finanziari adatti a fronteggiare le nuove sfide competitive”.
La ripresa del settore bancario, così importante per il finanziamento dell’economia, passa anche per una piena realizzazione dell’unione bancaria europea. Come noto, l’accordo del marzo 2013 ha previsto l’introduzione del Single Supervisory Mechanism (SSM), ossia l’attribuzione alla BCE delle funzioni di vigilanza nei confronti delle principali banche europee. Una piena realizzazione dell’unione bancaria dovrebbe in realtà prevedere non solo un unico organo di vigilanza ma anche un meccanismo congiunto di assicurazione dei depositi e l’attribuzione alla BCE dei poteri di prestatore di ultima istanza. Essa consentirebbe di alleviare i problemi di funding di cui ancora soffrono numerose banche dei paesi periferici dell’Unione.
Nell’ambito dell’accentramento dei poteri di vigilanza, la BCE prevede di condurre un esercizio di Asset Quality Review (AQR) nel primo trimestre del 2014, al quale saranno soggetti i circa 130-140 gruppi bancari che saranno verosimilmente oggetto della vigilanza della Banca Centrale Europea. La AQR sarà seguita, nel secondo trimestre del 2014, da un esercizio di stress test condotto dall’Autorità Bancaria Europea in collaborazione con la BCE. L’obiettivo principale di questi esercizi è di ristabilire la fiducia dei mercati nei confronti del sistema bancario europeo, oggi minato da due principali problemi. Una bassa qualità del credito e una carenza di redditività.
È verosimile che l’esercizio di AQR si concentri sui portafogli creditizi, ma si estenda anche ad attivi quali il portafoglio immobiliare e il portafoglio di trading. Le banche potranno essere chiamate a rafforzare i propri accantonamenti a fronte di eventuali problemi legati alla qualità dell’attivo. Non è tuttavia chiaro da dove possano venire, nell’attuale difficile contesto di mercato, i capitali necessari a rafforzare il patrimonio delle banche che dovessero risultare in difficoltà.
Lo scorso agosto la BCE ha annunciato il programma OMT (Outright Monetary Transactions) il quale impegna la banca centrale ad acquistare, in caso di necessità, titoli di stato sul mercato secondario. L’impegno ad agire ha avuto un effetto importante sui rendimenti, consentendo a paesi come Italia e Spagna di ridurre in modo significativo il costo del debito, senza peraltro che vi fosse concreto ricorso a questo strumento. Un meccanismo simile dovrebbe essere utilizzato, mediante l’introduzione di una vera unione bancaria, per ridurre il costo dei fondi per le banche.
In conclusione, tornando a quanto argomentato da Padoa Schioppa, credo si possa concludere che la crisi dell’euro-zona abbia evidenziato come l’unione monetaria rappresenti ancora uno stadio intermedio nel processo di integrazione europea. Il superamento dell’attuale fase di crisi richiede dunque non solo riforme strutturali che consentano ai paesi periferici più deboli di accrescere la competitività dei propri sistemi produttivi, ma anche un’ulteriore spinta verso un maggior grado di integrazione delle politiche economiche dei paesi dell’Unione.
Un primo passo importante in questa direzione sarebbe rappresentato da una vera unione bancaria, caratterizzata non solo dalla presenza di un unico organo di vigilanza, ma anche da una banca centrale armata della funzione di prestatore di ultima istanza e da un sistema unico di assicurazione dei depositi. Ciò consentirebbe, senza ulteriori aggravi di costi, di ridurre il costo del funding per le banche dei paesi periferici, ampliando il relativo accesso al mercato dei capitali, e che questo si traducesse a sua volta in un ampliamento dell’offerta, e in una riduzione del relativo costo, di credito per le imprese.