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2012/3

Gianni Canova

The Iron Lady. La solitudine del leader

Avvincente anche se un po’ agiografico “biopic” di Margaret Thatcher, The Iron Lady di Phyllida Lloyd mette a fuoco in modo lucido e accattivante alcuni dei tratti connotativi della leadership contemporanea. E ricorda alcuni “modi del governare” che potrebbero essere utili anche oggi.

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The Iron Lady

Regia: Phyllida Lloyd

Interpreti: Meryl Streep,

Jim Broadbent

Gran Bretagna/Francia, 2012

 

Una donna anziana – spalle curve e andatura tremolante, foulard in testa e volto segnato dagli anni – si muove incerta tra gli scaffali di un supermercato con una confezione di latte in mano. “Ma è davvero lei? È proprio Meryl Streep?” La domanda affiora spontanea fin dalla prima sequenza di The Iron Lady, il biopic di Phyllida Lloyd su Margaret Thatcher magistralmente interpretato da Meryl Streep. Il mimetismo dell’attrice è impressionante: un lavoro di immedesimazione non solo fisica e fisiognomica ma anche vocale, gestuale, psicologica e caratteriale che le è valso l’ennesimo Oscar, meritatissimo, della sua già sfavillante carriera. Ma The Iron Lady non è un biopic tradizionale. Non ricostruisce la biografia della lady di ferro in ordine cronologico. La sceneggiatura di Abi Morgan, anzi, è tutta incentrata sul presente: su una Thatcher anziana, rinchiusa nella sua casa di Chester Square, sola, seduta in poltrona, alle prese con il fantasma del marito morto che le appare all’improvviso, ma anche invasa da un senso di perdita e di assenza qua e là appena illuminato da squarci di ricordi che affiorano nella memoria sempre più labile in forma di flashback. Il film procede così: il grigiore dignitoso del presente è attraversato da schegge e frammenti di passato che rievocano la vita e la carriera della lady di ferro, l’ambiziosa figlia di un droghiere divenuta leader del partito dei Tories e poi primo ministro di Sua Maestà britannica. Tutto – presente e passato – è filtrato dal punto di vista della protagonista. Tutto è assolutamente soggettivizzato. Tutto è inquadrato dall’angolazione prospettica di Margaret Thatcher. A derivarne è un film che – con le sue luci e le sue ombre – affronta in modo molto interessante il tema della leadership e delle modalità con cui essa si esercita, oltre a quello del gender nelle relazioni gerarchiche e di potere. Ne discutono Severino Salvemini e Gianni Canova.

 

S.S. Mi sembra che i tratti caratteriali salienti della Thatcher emergano molto bene dal film: la prepotenza (verso i suoi collaboratori, ma anche verso il marito); il coraggio; l’orientamento al rischio. E poi la determinazione, la fermezza, l’assertività, il decisionismo, l’orgoglio nazionale, il patriottismo. Il rischio è che sfocino nello stereotipo del “combattente indomito” tanto caro all’immaginario britannico…

 

G.C. Il rischio esiste, non c’è dubbio. Anche perché il fatto che tutto sia inquadrato dall’angolazione prospettica di Margaret Thatcher ha un duplice effetto: da un lato favorisce l’identificazione dello spettatore con il personaggio, dall’altro lato azzera qualsiasi prospettiva critica su di esso. E qui sta il punto. O il paradosso: un film come The Iron Lady non può che farti simpatizzare con il personaggio interpretato da Meryl Streep, quali che siano le tue opinioni e forse anche le tue convinzioni su Margaret Thatcher e sulla sua politica. Da un lato, di fronte a questa donna anziana, che vede svanire attorno a sé gli affetti di una vita, e sente l’approssimarsi del declino e della morte, non puoi non provare una sorta di affratellamento “creaturale”. Poi però, quando in un flashback la rivedi seduta nella sua poltrona mentre strapazza – lei, unica donna – i valorosi generali britannici in piedi, chiedendo loro un intervento rapidamente risolutivo del conflitto alle Isole Falkland, non puoi che sentire un empito di simpatia. “Tosta, la signora”, pensi. Certo. Tosta finché non ragioni a freddo e non ricordi che sull’intervento alle Falk­land ci sarebbe molto da discutere e forse anche da eccepire…

 

S.S. È vero, il film è forse un po’ troppo deferente nei confronti del “thatcherismo”, ma ha il grande pregio di mettere in scena in modo quasi esemplare una sorta di paradigmatica fenomenologia del potere. A me ha molto colpito, per esempio, la solitudine della Thatcher: fin dai suoi primi passi, vediamo l’ostinata leader combattere e sgomitare da sola. È come se lei conducesse una guerra solitaria, dove da una parte c’è lei, e lei sola, e dall’altra ci sono tutti gli altri. Quasi a dire: governare vuol dire decidere da soli. Anche se poi passare tutta la vita da soli vuol anche dire morire da soli. Non è un caso che il film di Phyllida Lloyd insista molto sulla vecchiaia della Thatcher, quando lei vive sola, in silenzio, circondata dai fantasmi del passato. A un certo punto la sceneggiatura le mette in bocca un aforisma che dà il senso alla condotta di una vita: “Sono le nostre abitudini – dice – a regolare il nostro destino”. Il film mette in scena, forse, la solitudine del leader proprio come destino. O come condanna: come se la Thatcher di Meryl Streep scontasse nella vecchiaia la fermezza mostrata nell’esercizio del potere.

 

G.C. Il film però valorizza con efficacia anche un’altra dote specifica dei grandi leader: la sensibilità di capire quando è arrivato il momento di gettare la spugna. La Thatcher di Meryl Streep esce di scena al momento giusto: quando nel finale la vediamo lasciare Downing Street indossando un tailleur rosso al suono di Casta Diva di Bellini, sentiamo che è divenuta davvero l’eroina tragica di un grande melodramma. Forse, perfino una sorta di re Lear al femminile.

 

S.S. Non enfatizzerei troppo l’aspetto femminile del personaggio. Il film non fa di Margaret Thatcher un’icona femminista. Del resto, come ebbe a dire la stessa Thatcher, “essere potenti è come essere donna: se hai bisogno di dimostrarlo vuol dire che non lo sei”. Il suo riscatto non è un riscatto di genere, bensì passa attraverso il canale sociale. Un suo collega ebbe a dire che ciò che penalizzò di più la Thatcher non fu tanto il fatto di essere donna, quanto quello di essere figlia di un droghiere. E in un’Inghilterra snob e aristocratica come quella che ci consegna la storia dell’epoca, non stentiamo a credere che le umili origini rappresentassero un peccato di gran lunga più grave rispetto alla differenza di genere sessuale.

 

G.C. Non c’è dubbio. E proprio la voglia di riscatto, l’ambizione e la volontà di cancellare le proprie umili origini sono tra le motivazioni più forti dell’azione della Thatcher.

 

S.S. Io però vorrei sottolineare anche l’attualità di un film come questo. Il nostro tempo, con la gravità della crisi economica che stiamo attraversando, non è poi molto dissimile dai tempi della Thatcher. Il cui pensiero e la cui azione, non a caso, tornano ad essere rivisitati e studiati con grande attenzione. Ci sono alcune battute che il personaggio della Thatcher pronuncia nel film che mi sembrano perfette per l’oggi: “Se prendi decisioni forti, le persone ti odieranno oggi, ma ti ringrazieranno per generazioni”. Oppure: “Se le scelte sono giuste, occorre anche essere impopolari”.

Sono frasi programmatiche che ci ricordano una verità tanto semplice quanto spesso – almeno nell’Italia degli ultimi vent’anni – dimenticata: governare significa scegliere e, pertanto, a volte, anche “scontentare”.