E&M

2012/3

Andrea Sironi

Le agenzie di rating sul banco degli imputati: colpevoli o innocenti?

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Nel corso degli ultimi anni le tre grandi agenzie di rating – Moody’s, Fitch e Standard & Poor’s – sono finite a più riprese sul banco degli imputati, accusate di essere almeno in parte responsabili dapprima della crisi finanziaria originata dai mutui subprime statunitensi e più recentemente della crisi del debito sovrano dei paesi europei. Le accuse toccano numerosi aspetti: dalla presenza di conflitti di interesse che inficiano l’indipendenza di giudizio alla struttura oligopolistica del mercato, dagli errori commessi nella valutazione di strumenti finanziari complessi al contributo alla esasperazione dei cicli economici.

Queste accuse, più volte riprese anche dai media, han­no generato un acceso dibattito che ha condotto leautorità di vigilanza a sottoporre le imprese che operano in questo settore così delicato per il sistema finanziario a forme di regolamentazione più o meno stringente. In Europa è già stato approvato a fine 2009 un regolamento, entrato in vigore a fine 2010, il quale impone alle agenzie di rating l’obbligo di rispettare norme di comportamento rigorose per attenuare possibili conflitti di interesse e garantire la qualità, l’indipendenza e la trasparenza dei relativi giudizi. Più recentemente (giugno 2011) le agenzie di rating sono state assoggettate alla vigilanza dell’Autorità europea degli strumenti e dei mercati (AESFEM). Il parlamento europeo si è peraltro espresso a favore di un rafforzamento della regolamentazione e in particolare per l’adozione di misure volte a ridurre il rischio di eccessivo affidamento ai rating e a incrementare il grado di concorrenza nel settore.

A livello internazionale, il Financial Stability Board ha stabilito nel 2010 una serie di principi volti a ridurre il grado di affidamento delle autorità e dei mercati finanziari alle agenzie, richiedendo di eliminare o sostituire i riferimenti ai rating laddove siano disponibili idonei standard alternativi in materia di merito del credito e di imporre agli investitori l’obbligo di effettuare valutazioni proprie del merito di credito. Tali principi sono stati peraltro recepiti dal vertice del G20 di Seoul del novembre 2010.

In questi mesi è infine oggetto di discussione in sede europea una proposta di direttiva la quale prevede due importanti misure innovative: 1. l’obbligo per un emittente che si affida a valutazione di provvedere a una rotazione periodica, dopo un certo numero di anni, dell’agenzia di rating che valuta il suo debito; 2. l’introduzione della responsabilità personale degli analisti che effettuano le valutazioni che conducono all’assegnazione di un dato rating. Si tratta, in questo caso, di proposte piuttosto radicali che avrebbero un impatto non indifferente sul settore e sulla struttura del mercato. È infatti, per esempio, evidente che un obbligo di rotazione simile a quello in vigore per le società di revisione condurrebbe gli emittenti ad affidarsi a una sola agenzia di rating e dunque a eliminare l’attuale fenomeno per cui singole emissioni sono oggetto di valutazione da parte di più agenzie.

Le iniziative di natura regolamentare sono dunque numerose, così come numerose e articolate sono le critiche di cui le agenzie di rating sono oggetto. Scopo di queste brevi note è fare il punto sui temi in discussione nel tentativo di distinguere i veri dai falsi problemi.

Partiamo dunque da un esame dei principali punti generalmente oggetto di discussione:

 

·         la struttura oligopolistica del mercato;

·         l’assetto proprietario delle agenzie di rating;

·         la natura prociclica dei rating;

·         l’eccessiva dipendenza (overreliance) del mercato e di alcune forme di regolamentazione dai giudizi delle agenzie;

·         il modello issuer-pays e i potenziali conseguenti conflitti di interesse;

·         l’incapacità delle agenzie di prevedere correttamente i default.

 

Con riferimento al primo punto – l’elevata concentrazione del settore che vede la presenza dominante di tre soggetti – non vi è dubbio che esso rappresenti un reale problema. In una simile situazione i rischi di comportamento monopolistico sul fronte del pricing dei propri prodotti da parte dei soggetti dominanti sono elevati. In questo senso, le proposte che vanno nella direzione di aumentare il grado di concorrenza nel mercato sono benvenute. Il principale ostacolo a questo rafforzamento è sempre stato rappresentato dalle barriere naturali all’entrata. Un fattore chiave di questo tipo di attività è infatti la reputazione, e quest’ultima richiede tempo per essere costruita. In questo senso l’ingresso nel settore di un nuovo soggetto si scontra con la difficoltà di acquisire la fiducia degli investitori.

Un tema altrettanto discusso riguarda la struttura proprietaria delle agenzie di rating. In particolare, alcuni osservatori criticano, da un lato, la predominante nazionalità statunitense delle stesse, dall’altro il fatto che siano tutte controllate da società private. È a queste critiche che si lega la proposta avanzata da alcuni relativa alla costituzione di una nuova agenzia di rating europea di proprietà pubblica, la quale risponda a interessi di natura pubblica e non sia soggetta a interessi di gruppi privati. Entrambe le critiche suscitano qualche perplessità. La presunta dipendenza da interessi statunitensi delle agenzie si scontra con l’evidenza empirica: gli Stati Uniti sono stati, come noto, anch’essi oggetto di declassamento da parte di una delle tre grandi agenzie lo scorso agosto e sono anzi stati il primo grande emittente sovrano con rating massimo (AAA) a perdere questa valutazione nel corso della crisi recente.[1] Inoltre, la migliore garanzia di indipendenza dei giudizi di un’agenzia è rappresentata da una società di capitali che persegue un obiettivo di tutela economica della propria reputazione. È facile immaginare a quali tipi di pressioni sarebbe soggetta un’agenzia di rating a controllo pubblico il cui management sarebbe inevitabilmente nominato da soggetti di emanazione politica e a quale indipendenza di giudizio, specialmente con riferimento ai rating sovrani, potrebbe condurre un simile controllo.

Maggiormente rilevante appare invece, quantomeno agli occhi di chi scrive, il terzo tema, quello relativo alla prociclicità dei rating. Con questo termine ci si riferisce al fatto che l’evoluzione temporale dei giudizi delle agenzie tende a essere, come è naturale che sia, prociclica, nel senso che i rating degli emittenti tendono generalmente a migliorare in fasi di crescita economica e a peggiorare nel corso delle fasi recessive. Questo conduce potenzialmente a un inasprimento delle fasi del ciclo, nel senso che emittenti in difficoltà si trovano, nelle fasi recessive, ancora più in difficoltà per effetto del down­grading cui sono soggetti. In realtà le agenzie di rating affermano di fondare il proprio processo di valutazione su analisi che cercano di essere il più possibile “through the cycle”, ossia di produrre giudizi che assumano valore attraverso le diverse fasi del ciclo economico e siano dunque il più possibile stabili nel tempo. Nonostante questo, tuttavia, l’evidenza empirica mostra chiaramente come le variazioni al ribasso (downgrading) siano molto più frequenti durante le fasi di ciclo economico negativo. Questo della prociclicità dei giudizi emessi dalle agenzie è indubbiamente un problema, anche se esso non genera necessariamente effetti di mercato rilevanti. Mi riferisco al fatto che, nella maggioranza dei casi, le variazioni dei rating non producono particolari effetti sulle condizioni di mercato (rendimenti e relativi spread) che gli emittenti finiscono per pagare. Il tentativo di avere rating stabili nel tempo fa sì che le agenzie arrivino sovente “in ritardo” con i propri giudizi rispetto all’evoluzione delle condizioni economiche e i mercati finanziari abbiano già ampiamente scontato queste ultime. Gli studi empirici disponibili mostrano infatti che l’impatto sul mercato di downgrading e upgrading è generalmente contenuto.

Veniamo ora alla questione dell’eccessiva dipendenza di alcune forme di regolamentazione, e dei mercati in generale, dal giudizio delle agenzie. Come vedremo, questo problema è strettamente connesso al tema della prociclicità. Per quanto concerne la regolamentazione ci si riferisce, per esempio, al sistema delle ponderazioni per il rischio adottate dall’approccio standard relativo allo schema di adeguatezza patrimoniale di Basilea per le banche. In altri termini, i requisiti patrimoniali cui le banche sono soggette a fronte dei prestiti che concedono alle imprese dipendono, limitatamente alle banche che adottano questo approccio e alle imprese dotate di un rating (evidentemente una minoranza), dal rating di queste ultime. Personalmente sono d’accordo sul fatto che utilizzare giudizi soggettivi emessi da imprese private, quali sono le agenzie di rating, a fini regolamentari sia un errore. Esso genera implicitamente forti pressioni sulle agenzie e amplifica il rischio di conflitti di interesse. Tuttavia, criticare è facile, proporre soluzioni alternative è molto più complesso. Dal 1992, anno di entrata in vigore del sistema di Basilea 1, al 2007, anno precedente all’entrata in vigore del sistema di Basilea 2, i requisiti patrimoniali per le banche prevedevano una ponderazione unica, pari al 100%, per i prestiti alle imprese private. Questo schema semplificato è divenuto oggetto di critiche infinite da parte di osservatori di ogni natura e nazionalità. Queste critiche hanno evidenziato, a ragione, che non si poteva assoggettare allo stesso requisito prestiti nei confronti di imprese di diverso merito creditizio, pena l’incentivazione di arbitraggi regolamentari da parte delle banche. L’unica soluzione alternativa che le autorità di vigilanza sono riuscite a identificare è stata quella fondata sull’utilizzo dei rating, esterni (prodotti da agenzie per quanto possibile indipendenti ma comunque soggette ai problemi di cui sopra) o interni (anch’essi evidentemente forieri di potenziali conflitti di interesse). Personalmente fatico a identificare alternative efficaci che consentano di superare questi problemi. Se i critici accaniti della eccessiva dipendenza dai rating hanno proposte alternative efficaci, che si facciano avanti. I documenti formulati dagli organi sovranazionali sembrano indicare alcuni principi generali ma nessuna concreta soluzione alternativa. Vale infine la pena di osservare che la dipendenza della regolamentazione dai rating accentua ulteriormente il problema relativo alla prociclicità. Infatti, se associato a una variazione al ribasso dei rating vi è un incremento delle ponderazioni per il rischio, che a sua volta conduce a un incremento del requisito patrimoniale che una banca deve fronteggiare per l’attività di impiego, è evidente che questo genera una contrazione del credito e accentua dunque la fase recessiva.

Con riferimento al quinto tema, quello relativo al modello di business delle agenzie di rating, è noto che quest’ultimo prevede che i ricavi delle stesse vengano dagli emittenti (issuer-pays). In altri termini, i clienti delle agenzie sono gli stessi emittenti oggetto di valutazione. Ne conseguono evidenti potenziali conflitti di interesse. Si pensi a un’agenzia che, di fronte all’opportunità di declassare il rating di un’impresa viene da quest’ultima minacciata di rivolgersi alla concorrenza, o ancora a un emittente che sceglie l’agenzia che valuta il proprio debito in base a chi “promette” il rating migliore. Si tratta di un problema rilevante che indubbiamente caratterizza il mercato. Non è un caso che le agenzie arrivino generalmente in ritardo con le proprie valutazioni rispetto a quanto espresso dai mercati sotto forma di prezzi dei titoli e di relativi rendimenti/ spread. Generalmente le variazioni di rating sono infatti precedute da accese discussioni con il management dei soggetti valutati e sono sovente anticipate al mercato mediante segnali quali il credit watch (l’agenzia di fatto informa il mercato che un particolare emittente è divenuto un osservato speciale) e l’outlook (positivo, neutrale o negativo), un altro segnale che informa il mercato della direzione che l’agenzia ritiene caratterizzerà il rating futuro.

Le proposte oggetto di discussione in sede europea non sembrano particolarmente efficaci rispetto a questo problema. Esse prevedono, da un lato, la possibilità di chiedere agli investitori, al posto degli emittenti, di pagare i servizi che ottengono dalle agenzie di rating, dall’altro la rotazione obbligatoria delle agenzie per ogni singolo emittente. La prima proposta rimuoverebbe il problema alla fonte, ma risulta francamente poco realistica, se non altro per l’impossibilità di coinvolgere la generalità degli investitori che beneficiano dei servizi offerti dalle agenzie oltre che per il difficile superamento di una prassi di mercato ormai consolidata. La seconda proposta mira invece a spezzare il legame forte che potrebbe nel tempo svilupparsi fra un’agenzia e il suo cliente (emittente), applicando una prassi consolidata nel settore delle società di revisione. Anche questa proposta presenta, tuttavia, conseguenze negative. Essa impone infatti a un emittente, così come agli investitori, di affidarsi al giudizio di una singola agenzia nel momento in cui viene emesso un titolo, di fatto privando il mercato del valore associato a una pluralità di giudizi. Numerosi studi empirici mostrano peraltro come la divergenza di giudizio delle agenzie sia sovente il riflesso di un maggior grado di rischio di un emittente e abbia dunque, dal punto di vista economico-finanziario, un implicito contenuto informativo rilevante.

Più facile sarebbe invece per le autorità affrontare un altro tipo di conflitto di interesse cui sono potenzialmente soggette le agenzie di rating, quello derivante dal fatto che esse offrono generalmente, attraverso società controllate, servizi di consulenza agli stessi soggetti il cui debito è oggetto di valutazione. Si tratta di un problema raramente oggetto di discussione, specie nel dibattito regolamentare, e che sarebbe invece molto più facile affrontare imponendo la separazione fra le entità che svolgono attività differenti.

Veniamo infine al tema cruciale della correttezza delle valutazioni effettuate dalle agenzie. La critica avanzata è in questo caso relativamente semplice: le agenzie di rating non sono state in grado di anticipare correttamente la crisi finanziaria prima e quella del debito sovrano poi e hanno commesso importanti errori di valutazione. Non è mia intenzione schierarmi a difesa delle agenzie: esse hanno commesso, specialmente nella valutazione del rischio associato a prodotti strutturati complessi, alcuni errori rilevanti e li hanno, in alcuni casi, esplicitamente riconosciuti. Come riportato dal Financial Times ancora nel maggio del 2008, appena dopo l’esplosione della crisi: “One rating agency awarded incorrect triple-A ratings to billions of dollars worth of a type of complex debt product due to a bug in its computer models”.

Nel valutare la qualità di un giudizio di rating occorre tuttavia evitare alcuni importanti errori di interpretazione sovente commessi nel dibattito più o meno recente. Anzitutto un rating rappresenta un giudizio sintetico circa il merito di credito, e dunque la probabilità di default, di un emittente. Esso non esprime in alcun modo un giudizio relativo alla liquidità del mercato nel quale i titoli emessi da quel soggetto sono negoziati. Se a un certo punto la liquidità di un mercato crolla per effetto della carenza di domanda e il prezzo del titolo conseguentemente precipita, ciò non significa necessariamente che il rating sia errato. L’emittente potrebbe infatti continuare a adempiere alle proprie obbligazioni, pagando interessi e rimborsando regolarmente il capitale a scadenza. In secondo luogo un singolo giudizio di rating non può essere giudicato in assoluto esatto o sbagliato. Si può semmai valutare ex post un sistema di rating confrontando fra loro i tassi di insolvenza che caratterizzano i soggetti delle diverse classi. Così, per esempio, non si può concludere drasticamente che il fallimento di un’impresa con un buon rating rappresenti di per sé una dimostrazione della infondatezza dei giudizi espressi da un’agenzia. Occorre invece esaminare i tassi di insolvenza relativi alle diverse classi e verificare se questi ultimi sono più contenuti per le classi migliori e più elevati per le classi peggiori, ossia se crescono in modo monotono al peggiorare del rating. Queste analisi vengono comunemente condotte anche dalle banche mediante il ricorso a strumenti statistici volti a verificare la robustezza dei propri sistemi interni di rating. Le analisi prodotte con riferimento ai rating delle agenzie sono naturalmente meno frequenti e conducono comunque in generale a giudizi relativamente positivi. Occorre tuttavia ricordare che i rating emessi dalle agenzie tendono a essere stabili nel tempo. Ciò significa inevitabilmente che i tassi di insolvenza associati alle diverse classi variano nel tempo, ossia che lo stesso emittente classificato come BBB avrà una maggiore probabilità di insolvenza durante una fase recessiva che non durante una fase di crescita economica.

In conclusione, le agenzie di rating sono state, nel corso degli ultimi anni, oggetto di numerose critiche e di una particolare attenzione da parte delle autorità regolamentari. Non vi è dubbio che il settore presenti alcuni importanti problemi e che questi ultimi debbano essere affrontati in modo efficace ed efficiente. La regolamentazione introdotta in sede europea ha finora affrontato in modo corretto questi problemi, imponendo alle imprese del settore il rispetto di fondamentali principi di rigore, trasparenza e indipendenza. Più di recente, alle agenzie di rating è stata almeno in parte imputata la responsabilità dei problemi economici e finanziari che caratterizzano gli emittenti, specie quelli sovrani dell’area dell’euro, di fatto confondendo il sintomo con la causa della malattia.

1

Peraltro, una delle tre grandi agenzie, Fitch Ratings, è controllata da un gruppo francese (Fimalac).