E&M

2012/1

Gianni Canova Severino Salvemini

Il mio domani

In una Milano algida e inconsueta una donna sola lavora come formatrice nelle aziende in crisi. Dovrebbe infondere ottimismo a chi partecipa ai suoi work­shop, ma in realtà rischia di essere – anche involontariamente – una sorta di cavallo di Troia per entrare nella testa e nella vita dei dipendenti. Diretto dalla regista milanese Marina Spada, Il mio domani traccia un quadro problematico dei metodi, dei modi e dei fini della formazione aziendale.

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Il mio domani

Regia: Marina Spada

Interpreti: Claudia Gerini,

Raffaele Pisu, Claudia Coli

Italia, 2011

 

 “Il suo lavoro è come dare una spruzzatina di Chanel per coprire la puzza di merda.” Non c’è rancore nella voce del collega appena licenziato. Non più di tanto, almeno. Non è Monica che ha deciso di licenziarlo. Monica è solo una rotella dell’ingranaggio: quella messa lì per far accettare al “personale in esubero” il suo amaro destino. Fa la “formatrice”, Monica. Tiene corsi di formazione per i quadri a rischio di licenziamento. Tacchi alti e tailleur di sartoria, parla con passione della necessità di fare il vuoto nella propria vita per provare a rinascere di nuovo. Lei parla di exit option come di una scelta filosofica, ma spesso per chi la ascolta e per le aziende che la pagano le cose sono molto più prosaiche: spesso, per loro, fare tabula rasa significa eliminare il personale in esubero e tagliare quelli che non servono più. Punto e basta.

Interpretato da un’intensa Claudia Gerini – capelli bruni, sguardo perso, la Vitti come modello – Il mio domani di Marina Spada ambienta in una Milano algida e inconsueta il dramma di una donna sola, prigioniera dei riti dell’esistenza. Il film guarda ad Antonioni, certo, e il ricordo di La notte affiora più di una volta nella configurazione delle immagini, assieme a certi echi del primo Soldini (quello milanese di L’aria serena dell’Ovest e di Un’anima divisa in due) e perfino di certo Olmi (riecheggiato soprattutto nella figura del padre contadino interpretato da un sublime Raffaele Pisu).

Ma poi la regia si regala il lusso di inquadrare a lungo le nuvole grigie che ingombrano il cielo di Milano. E di procedere per ellissi, per sincopi, per allusioni, senza temere la penombra e le sfumature. Tra le righe, oltre al ritratto di una donna inquieta, il film traccia anche un quadro interessante, benché discutibile, dei metodi, delle pratiche e delle finalità della cosiddetta formazione aziendale. Ed è soprattutto di questo che discutono Severino Salvemini e Gianni Canova.

 

S.S. La protagonista del film è una formatrice “motivazionale”, ingaggiata per trasmettere messaggi di sense making (le parole ricorrenti sulla sua lavagna sono: cambiamento, crisi, condivisione ecc.) a quadri di aziende spesso in crisi. È una formatrice che energizza, che emoziona con parole evocative e simboliche, che usa metafore dense.

 

G.C. Ma è anche molto ripetitiva. Spesso la vediamo riprodurre lo stesso visual sul flip chart, usa simboli non vissuti emozionalmente, lavora su categorie astratte come il vuoto. Quando chiede ai suoi “partecipanti” di esprimere che immagine viene loro in mente se lei pronuncia la parola “vuoto”, restano tutti in silenzio, la metafora è sterile, non produce nulla, non genera né idee né discussione…

 

S.S. Non sono del tutto d’accordo. Monica mi sembra molto brava, per esempio, nel drammatizzare i concetti, o addirittura nel teatralizzarli. Penso, per esempio, a come rende fisicamente l’idea di vuoto attraverso il liquido che deborda dalla tazza già piena, oppure a come esemplifica l’idea di tabula rasa attraverso un gesto che spazza via dal tavolo tutti gli oggetti che ricordano il passato.

 

G.C. Su questo sono d’accordo anch’io. Anzi, trovo molto efficace anche la scelta di indossare a sorpresa scarpe rosse col tacco per rendere palpabile l’idea del cambiamento. Oppure l’analisi demistificante del dono come atto solo apparentemente gratuito, ma in realtà finalizzato a ottenere sempre qualcosa in cambio, se non altro sul piano simbolico (“Gesù, donando la sua vita a una parte dell’umanità – i fedeli – riceve in cambio il riconoscimento della sua natura divina”). Non sono in discussione le doti professionali del personaggio. Io trovo che dal film è piuttosto l’idea stessa di formazione aziendale a uscire malconcia…

 

S.S. In effetti, le aziende che si rivolgono a lei chiedono alla dottoressa Barbieri di dare un po’ di serenità ai loro dipendenti e di farli sentire importanti, ma non al punto di sollevare eccessive aspettative nei confronti della loro soddisfazione sul lavoro. Un empowerment controllato, insomma. Motivati, ma non troppo… E proprio qui si innesta la possibile strumentalizzazione del formatore, che può essere usato dall’azienda come un mistificatore, come un manipolatore.

Insomma, per riprendere un’immagine usata giusto nel film, il formatore può essere visto un po’ come un cavallo di Troia per entrare nel cuore del dipendente. Per fortuna, nella realtà aziendale e organizzativa attuale le cose non sono proprio così: accanto ad alcuni – pochi – manipolatori, la maggioranza del mercato della formazione si muove su ben altri binari professionali.

 

G.C. A me è piaciuto molto il rapporto che la regista Marina Spada riesce a istituire tra la protagonista e la città. È come se Milano assomigliasse al personaggio, con dentro un analogo bisogno di rinascita e di riqualificazione.

 

S.S. Milano, in effetti, è sempre sullo sfondo, ma è molto più che un fondale: è una città fotografata in campi lunghi, con colori freddi e una luce opaca. I protagonisti passano come sfumature in queste quinte, senza anima, il tutto condito dalla colonna sonora della tromba struggente e malinconica di Paolo Fresu.

 

G.C. Alcune perplessità, invece, in me le suscita il finale. La scelta della “fuga”, la decisione di fare la “guida” turistica e di occuparsi di una cosa “nobile” come l’archeologia invece che di una cosa “sporca” come l’economia mi pare tratteggi una via d’uscita facile, e anche molto ideologica: la solita a cui ricorre il cinema italiano quando non sa dare risposta ai problemi che mette in scena…

 

S.S. È vero. Dopo che tutto il film è vissuto in una luce quasi artificiale, l’epilogo apre a un paesaggio assolato dove spunta anche l’azzurro del cielo. L’obiettivo si è finalmente aperto, complice il sole e il mare della Grecia. Il domani della protagonista – sembra suggerire il film – si baserà su un lavoro più vero e con un sistema di relazioni meno finto. Anche a me sembra un modo un po’ troppo semplice di sistemare le questioni irrisolte e di riconciliarsi con la propria esistenza.