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2010/4
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Ipazia e la leadership femminile
Agorà, il nuovo e discusso film del regista spagnolo Alejandro Amenabar, ricostruisce con sguardo lucido e appassionato la tragica fine di Ipazia, filosofa, astronoma e matematica, morta per lapidazione nella Alessandria d’Egitto del V secolo. Ma oltre che una storia di fanatismo e di odio per il diverso, il film di Amenabar è anche una parabola attualissima sulla difficoltà dell’innovazione e sull’inevitabile solitudine di ogni vero innovatore.
Agorà
Regia: Alejandro Amenabar
Interpreti: Rachel Weisz, Max Minghella
Spagna, 2010
Ipazia pensa. Pensa e vede. Vede e insegna. Insegna quello che vede. Ma insegna anche a interrogarsi su quello che non vede. Quello che lei non vede e quello che non si vede. Gli astri. Il cosmo. Il pensiero. Ipazia è donna pensante in un mondo abituato a pensare (pensare?) che le donne non sappiano/non possano pensare. Ad Alessandria d’Egitto, nel V secolo dopo Cristo, Ipazia fa pensare i suoi allievi maschi. Sono pagani, ebrei, cristiani. Credono ognuno in un Dio diverso, eppure riconoscono in lei l’autorità. Il carisma. Che è qualcosa che va al di là delle fedi e delle religioni, almeno fino a che il pensiero prevale sul pregiudizio e sul fanatismo. Cioè sulla pretesa di fare del proprio Dio l’unico vero Dio. Sulla pretesa che sia legittimo uccidere e massacrare e sterminare altri esseri umani solo perché credono in un altro Dio. Quando Alessandria d’Egitto smette di essere una città multietnica e politeista e pretende di diventare una città “santa” e dogmatica, l’odio di coloro che si massacrano in nome di Dio trova in Ipazia un facile bersaglio. Un parafulmine su cui scaricare tutto l’odio compresso, tutto lo sterminato e insaziabile bisogno di odiare. Un vescovo cristiano, Cirillo, ordina che sia uccisa per lapidazione. I fanatici, ebbri di sangue, eseguono. E lei – filosofa neoplatonica, matematica, astronoma, bellissima a detta di tutte le poche fonti disponibili – scompare nel maelstrom dell’orrore, travolta da chi avrebbe voluto che la Storia non serbasse neppure traccia del suo nome. La sua tragedia rivive ora in Agorà, l’ultimo film del regista spagnolo Alejandro Amenabar (Apri gli occhi, The Others), appassionata ricostruzione di una delle pagine più buie del fanatismo religioso nell’area culturale del Mediterraneo. La figura di Ipazia, interpretata con appassionata adesione da Rachel Weisz, è di una modernità straordinaria. E offre – sia pure per via metaforica – più di uno spunto di riflessione nel dibattito contemporaneo sul ruolo del gender nell’esercizio della leadership e nella governance dei processi e dei protocolli di innovazione. Ne discutono, come al solito, Severino Salvemini e Gianni Canova.
G.C. Lo “scandalo” di Ipazia, mi pare, è prima di tutto quello di infrangere i codici rigidamente consolidati di un potere tutto maschile. Lei non solo è donna, ma è una donna che esercita la sua influenza sui maschi di ognuna delle tre religioni che coabitano ad Alessandria. E ciò fa sì che altri leader, maschi, meno carismatici di lei, esigano da lei un atto formale di ossequio e di sottomissione…
S.S. … un atto formale che lei non è assolutamente disposta a concedere. Credo che la sua figura sintetizzi in modo molto efficace il tema attualissimo della leadership femminile, con tutta la sua radicale diversità rispetto alla leadership maschile. Mi viene in mente la teoria dell’antropologo olandese Gert Hofstede, il quale sostiene che gli stili manageriali non sono universalmente validi, e che anzi dipendono dalle differenti appartenenze geografiche. Il radicamento in un luogo, cioè, cambierebbe perfino il modo di interpretare il ruolo del “capo”. Ci sarebbero contesti nazionali più orientati a promuovere e a sollecitare uno stile di direzione “macho” e altri più rivolti invece a uno stile o a un modello “femminile”. La leadership maschile sarebbe più monoprogettuale, più orientata alla produttività e ai risultati, mentre quella femminile sarebbe pluritask, più capace di mediazione e arbitraggio, meno diretta, più orientata alle relazioni interpersonali, meno propensa a inseguire un risultato costi quel che costi. Lo stile femminile – sempre secondo Hofstede – avrebbe più bisogno di cerimoniale, e di tempi decisionali o negoziali più lunghi rispetto allo stile maschile. Questo differente rapporto con il tempo, per esempio, spiega il parziale fallimento di certi manager occidentali quando vanno a Est, o a Sudest: esportano uno stile di un certo tipo in territori che prediligono stili di tipo diverso. L’Ipazia di Amenabar e di Rachel Weisz – in questa chiave – è modernissima: pratica l’et… et… invece che l’aut… aut…, è capace di sviluppare più progetti contemporaneamente, è inclusiva invece che oppositiva, e sa tenere sotto controllo processi articolati e complessi. Molto più articolati e complessi di quelli – per lo più manicheisti – dei suoi colleghi maschi…
G.C. Non solo: a me ha colpito molto il fatto che Ipazia, per lo meno così come è disegnata da Amenabar, sia estranea all’idea di dominio. Mentre i suoi allievi sono tutti campioni di trasformismo, e fingono conversioni e credenze e fedi pur di poter esercitare il dominio sulla propria comunità, Ipazia è lontanissima dal “modello Zelig” che sembra invece ispirare tutti gli altri personaggi del film, eroi mediocri della simulazione e del galleggiamento, sempre pronti a farsi trascinare dove soffia il vento, pur di illudersi di tenere in mano il timone della nave. Ipazia è maieutica, stimola il ragionamento, governa un team che le riconosce autorevolezza e magistero. Più che orientata al comando e al dominio, è esperta nel governo delle persone. Non si impone mai, non ne ha bisogno. E tutti i maschi si adattano – almeno fino alla tragica conclusione della vicenda – a rispettare un’autorità così fondata sul prestigio e sull’onore.
S.S. Non la seguono, però, nel momento in cui Ipazia tenta il salto di paradigma e si avventura in una spiegazione della struttura del sistema solare che anticipa di secoli e secoli la teoria copernicana.
G.C. Personalmente, ritengo questa la parte più bella del film. Ipazia intuisce la necessità di un nuovo paradigma, lo sfiora più di una volta, ma non riesce a fare il salto. Viene continuamente risucchiata all’indietro, verso gli schemi concettuali e di pensiero già conosciuti. Avverte l’urgenza dell’innovazione, ma non sa come concretizzarla. E quando si avventura finalmente sulla strada che le consentirà di fare il salto dentro un paradigma nuovo, non a caso resta sola. Non la segue nessuno. Nessuno è disposto a mettere in discussione il proprio vecchio, stanco, tradizionale ma ipercollaudato modo di pensare. Il film di Amenabar ci mostra l’inevitabile solitudine dei veri innovatori.
S.S. Vedendo il film, mi veniva da pensare anche a come la vicenda di Ipazia sia in fondo l’illustrazione esemplare delle teorie epistemologiche di Khun sul salto di paradigma. Perché un progetto innovativo non risulti marginale o emarginato non deve essere troppo gradualistico o incrementale. Deve essere capace di fare un salto di rottura, il breakthrough descritto in molti manuali manageriali. Deve avere il coraggio di essere davvero radicale. Altrimenti il vecchio paradigma piano piano se lo rimangia, annullando progressivamente tutti gli stimoli del nuovo.
G.C. In fondo, Ipazia intuisce l’inganno del sistema tolemaico adottando un punto di vista straniato, un po’ come eravamo costretti a fare noi spettatori nel finale di The Others, quando scoprivamo all’improvviso che gli “altri” che avevamo temuto durante tutto il film in realtà eravamo noi. Ecco: Ipazia fa lo stesso. Immagina delle ellissi là dove fino a un momento prima aveva ragionato per cerchi. E vede il mondo e il cosmo in un modo completamente diverso. Ma è l’unica a vederlo.