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2010/4

Vincenzo Perrone

Specchio, specchio delle sue brame… fioriscono in azienda i Narcisi

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Uno spettro si aggira per molte sale consiglio di aziende piccole e grandi. Antico come il mito che gli ha dato il nome. Narra infatti la leggenda di un giovane bellissimo, figlio di una ninfa e di un dio, sdegnoso e crudele verso chiunque rimanesse vittima del suo irresistibile fascino, finito innamorato, per punizione degli dei, della propria immagine riflessa nello specchio d’acqua di una fonte. Consapevole dell’impossibilità di ottenere l’unico amore che per lui contava davvero, ne morì. Come comprese bene Freud molti anni dopo, Narciso può essere ognuno di noi. Che proviamo un sottile piacere a salire su un’auto blu dai vetri oscurati, a sederci al tavolo migliore e più in vista del ristorante alla moda, a vincere la gara a “chi è il migliore?” con il banchiere nostro coetaneo e rivale in affari, che cediamo alla cattiva tentazione del riporto di capelli o dell’abbronzatura integrale fuori stagione.

Che molliamo moglie e figli dopo esserci liberati della pancetta, avendo scoperto a cinquant’anni che la maratona di New York ci fa belli. Che chiediamo al collega se ha letto la nostra ultima pubblicazione o seguito la nostra ultima apparizione a Ballarò. E non è necessariamente un male che sia così. Il paradosso che esploreremo qui, rivolgendo uno sguardo curioso alla relazione tra narcisismo e leadership, consiste proprio in questo: alcuni dei tratti psicologici che stanno alla base dello sviluppo del narcisismo come patologia, sono tipici di persone sane e di successo, sono funzionali al raggiungimento di posizioni di potere e utili per esercitarlo al meglio. È il troppo che “stroppia”: l’individuo prima e il manager poi. Ma andiamo con ordine.

Ognuno di noi sviluppa molto presto nella propria vita, inizialmente sotto la decisiva influenza delle figure parentali, e affina e modifica poi nel tempo e con l’esperienza, un nucleo relativamente stabile di valutazione profonda del sé[1]. Un tratto di personalità fatto del giudizio composito che abbiamo interiorizzato su noi stessi e sulla qualità della relazione con l’ambiente nel quale viviamo e, in particolare, con le persone che ne fanno parte. Esso si articola in quattro elementi[2]. Il primo, e forse il più importante, è l’autostima, ovvero l’idea complessiva che ci formiamo di quanto valiamo, idea che ci porta ad accettarci, a piacerci e ad avere rispetto di noi stessi. Il secondo è dato dal giudizio generico che manteniamo circa la nostra autoefficacia, ovvero la nostra capacità, mediamente espressa in modo stabile in più campi, e per questo generica e non specifica, di eseguire con successo delle attività, raggiungendo con il nostro impegno e le nostre abilità mete importanti. Il terzo elemento è noto agli psicologi come locus of control (loc) interno: una persona con un loc interno crede di essere responsabile con le proprie azioni del proprio destino e crede per questo che esso sia modificabile e plasmabile. Viceversa, chi ha un loc esterno si percepisce in balia di forze esterne che non può dominare. L’ultimo elemento essenziale è la stabilità emotiva, un tratto di personalità che consiste essenzialmente nella capacità di dominare l’ansia, controllando lo stress, non nutrendo paure e preoccupazioni inutili, sentendosi in grado di superare gli inevitabili momenti difficili senza finire sulle montagne russe di pericolosi ed estremi sbalzi di umore. Queste quattro dimensioni sono evidentemente collegate tra loro al punto da poterle collassare in quella complessiva ed essenziale valutazione del sé profondo che abbiamo ricordato all’inizio.

Quanto più questa valutazione è positiva tanto meglio è per l’individuo[3]. Si tratta di una persona più felice della media, meno ansiosa circa il fatto di essere socialmente accettata, meno tendente alla depressione, estroversa e piena di energia. Che ha pochi sensi di colpa, non si vergogna di quasi nulla e pensa di essere migliore di tanti altri in tanti ambiti[4]. Una persona creativa, capace di suscitare facilmente empatia negli altri e persino di accettare meglio degli altri l’idea della morte[5]. Tutta questa sicurezza di sé e del proprio diritto di stare al mondo e di essere riconosciuti per il proprio valore ha effetti molto vantaggiosi, certificati da un numero abbondante di ricerche. In primo luogo in ambito medico, dove si sa che questo profilo psicologico ha effetti positivi sul sistema immunitario, su quello nervoso e su quello ormonale. Esso è in grado da solo di fare la differenza tra ammalarsi di malattie anche molto gravi e rimanere perfettamente sani, o consente di avere comunque più possibilità di guarirne e sopravvivere. Nel management sappiamo che si tratta di persone più produttive, capaci di ottimi risultati lavorativi, che fanno carriere più veloci e di maggior successo, che amano le sfide difficili, che sono più resistenti alle frustrazioni e più entusiaste e pronte ad affrontare e guidare cambiamenti importanti. Che riescono bene come capi capaci di ispirare schiere di collaboratori motivati a dare il meglio di sé per il successo dell’azienda e del loro leader. I capi carismatici hanno forti tratti di tipo narcisistico. Gran parte della presa che hanno sul proprio seguito si spiega, per loro, con la necessità di avere uno specchio che ne rifletta sempre e in modo rassicurante una amata immagine positiva, e per i seguaci, con la rassicurante sensazione di potersi specchiare in un sé ideale magicamente incarnato dal capo che tutto sa e tutto può risolvere, soprattutto nei momenti di massima incertezza e crisi[6].

Tutto bene, allora? Fino a un certo punto. Basta varcare una linea sottile e ci si ritrova al di là dello specchio, in un mondo oscuro e tormentato. Il narcisista patologico è descritto come segue nel Diagnostic and Statistical Manual of the Mental Disorders (IV, 2000 Revised edition, p. 717) della American Psychiatric Association.

Un tipo pervaso da un senso di grandiosità (nelle fantasie o nei comportamenti), dal bisogno di ammirazione e da mancanza di empatia, che si manifesta in questo modo alle soglie dell’età adulta ed è presente in una varietà di contesti, indicato dalla presenza di cinque o più dei tratti seguenti:

 - ha un senso grandioso della propria importanza (per es. esagera i propri risultati e i propri talenti, si aspetta di essere notato come superiore agli altri senza che vi siano a dimostrarlo adeguati risultati);

- ha la mente (pre)occupata da fantasie di successo illimitato, potere, brillantezza, bellezza e amore ideale;

- pensa di essere “speciale” e unico e di poter essere compreso solo da altre persone (istituzioni) ugualmente speciali o di status elevato, che sono anche le uniche con le quali potrebbe accompagnarsi;

- pretende un’ammirazione eccessiva;

- si sente un privilegiato, ovvero si aspetta irragionevolmente di ottenere trattamenti particolarmente favorevoli e un’automatica disponibilità da parte di tutti a esaudire le sue aspettative;

- sfrutta le relazioni interpersonali, ovvero si avvantaggia degli altri per raggiungere i propri fini;

- manca di empatia: non vuole riconoscere o identificarsi con i sentimenti e i bisogni degli altri;

- è spesso invidioso degli altri e crede che gli altri siano invidiosi di lui, o lei;

- mostra arroganza e ha atteggiamenti e comportamenti altezzosi e rudi verso gli altri.

State facendo la spunta cercando di capire se arrivate a cinque? O se a manifestare questi tratti sia un vostro collega, o un vostro capo o magari quel vostro collaboratore, così bravo e brillante ma così difficile da sopportare? State allora attenti anche ad altri sintomi: come un marcato egoismo, la vanità eccessiva o una buona dose di esibizionismo[7]. Oppure la propensione a incolpare sempre gli altri per qualsiasi insuccesso personale e una tendenza, come meccanismo prevalente di difesa, alla negazione. In primo luogo della differenza tra il sé ideale e quello reale. E ancora: il tentativo di trovare sempre giustificazioni ai propri comportamenti anche quando questi sono decisamente intollerabili, arrivando a mentire a sé stessi e agli altri[8]. Una significativa disinvoltura con la quale il narcisista adatta, in modo flessibile e vantaggioso per sé, ogni regola al proprio comportamento e ai propri desideri, piuttosto che il contrario. Senza integrità morale anche il leader più carismatico e amato finirà prima o poi per essere distrutto e abbandonato dai propri seguaci alla prima occasione nella quale riusciranno finalmente ad aprire gli occhi sulla sua ambiguità. Scoprendo il suo tornaconto personale in ogni suo atto.

Cosa può trasformare una persona di successo in un essere così sgradevole e pericoloso? In primo luogo le radici di questo cambiamento stanno nella persona. Il narcisista patologico è come se mettesse una maschera, bella quanto irreale, a nascondere una devastante insicurezza e un profondo disagio psicologico che cova fin dalla prima infanzia. È una persona che si annoia facilmente quando non è al centro dell’attenzione e che alla prima difficoltà sostanziale si abbandona a furibondi scatti d’ira. Che sente minata la propria autostima e la propria sicurezza anche da quei piccoli insuccessi che altri, e in primo luogo le persone con una elevata valutazione di sé, e quindi con qualche tratto di narcisismo normale e costruttivo, troverebbero del tutto trascurabili. Una persona fragile e instabile, con tendenza alla depressione. Che può provare un malessere tale da spingerla perfino a chiedere aiuto, magari sulla spinta di eventi traumatici come un divorzio o un fallimento. Anche se può farlo in modo indicativamente peculiare. James Masterson, uno psichiatra di New York[9], racconta a questo riguardo una storiella interessante[10]. Una sua intervista a proposito di questa patologia apparve una volta in buona evidenza sul prestigioso New York Times, che lo presentò come una delle massime autorità in materia di narcisismo. Subito dopo l’intervista venne contattato da dodici persone che si dissero bisognose di trattamento. Dopo un primo colloquio di orientamento e alcuni test, lo psichiatra diagnosticò effettivamente per tutti e dodici disturbi di personalità di tipo narcisistico e consigliò loro di entrare in terapia. Aggiunse però di non potere accogliere altri pazienti avendo un’agenda già piena, e suggerì loro di rivolgersi ad alcuni colleghi che avrebbero garantito comunque un ottimo trattamento. Nessuno dei dodici pazienti si fece mai vivo con il terapeuta consigliato: evidentemente il loro narcisismo non permise di accettare l’idea di essere curati da qualcuno di meno famoso dello psichiatra che il New York Times aveva trasformato in una star!

Per capire il grado di patologia di un comportamento narcisistico occorre quindi riuscire a grattare sotto la superficie. Chiedendosi se la persona dice davvero la verità, in primo luogo a sé stessa, guardando con attenzione ai suoi stati d’animo e ai comportamenti meno controllati, osservando se la sua sicurezza tanto grande e ostentata oscilla invece pericolosamente nel tempo e in contesti diversi[11]. In questo modo si dovrebbe riuscire a cogliere per tempo il malessere del soggetto, le sue profonde paure di non valere nulla, di non farcela e di rimanere isolato, che sono il rovescio della medaglia della sua estrema e spietata competitività e della frenesia con la quale si circonda di persone disposte a una totale e devota ammirazione.

È proprio anche dalla qualità della relazione con gli altri che si può anticipare se la spinta positiva di un’elevata autostima si è trasformata in una disfunzionale e cieca ammirazione per sé. La persona disturbata vede le relazioni solo in modo strumentale e, come ci ricorda il mito, è incapace di andare in profondità nel rapporto con l’altro. È pronta a manipolare chiunque pur di raggiungere i propri obiettivi e mette il proprio benessere prima di quello di tutti gli altri, azionisti e dipendenti di un’azienda compresi. È pronta a scaricare sugli altri la colpa per qualsiasi insuccesso, anche e soprattutto per quelli causati personalmente, e ad attribuirsi spudoratamente il merito di risultati ottenuti da altri. È seducente e capricciosa. Chi non cade nella trappola si accorge del pericolo: dopo un’immediata e forte simpatia iniziale gli individui inclini ad autopromuoversi in modo plateale sono visti negativamente dai loro pari nel corso di interazioni successive[12]. Il narcisista ha un bisogno patologico dell’approvazione di un pubblico che veda in lui, o in lei, una figura idealmente perfetta e lo rassicuri continuamente circa il fatto di esserlo davvero. Questo doppio legame intossica la relazione, non consente di distinguere il piano personale/affettivo da quello professionale, legato ai risultati e alla realtà. Tutto è mediato da un gioco di percezioni reciproche distorte nel quale leader narcisista e seguaci si chiudono isolandosi dal resto del mondo. Almeno fino a quando il re, perfetto, potente e paterno, non appare nudo e vulnerabile per effetto di una contingenza disastrosa quanto rivelatrice. Capace di scatenare nei seguaci un’ira distruttiva potente ed estrema tanto quanto lo era la precedente ammirazione.

Dovrebbe essere facile, dalla descrizione che abbiamo abbozzato di caratteristiche e dinamiche del narcisista, capire quanti e quali danni potrebbe fare nel tessuto delicato dell’organizzazione di un’azienda[13]. Soprattutto quando ne raggiunge il vertice. Come aveva giustamente intuito Manfred Kets de Vries è il potere assoluto che scatena il delirio di onnipotenza. Il narciso sboccia completamente in cima all’organizzazione, quando non deve più preoccuparsi del giudizio dei capi o del sostegno dei colleghi con i quali ha imparato a fingere un’empatia della quale è realmente incapace. Arrivato al comando è pronto a peccare di ὕβϱις. Il peccato capitale già secondo gli antichi greci, ovvero la superbia, la tracotanza estrema, l’eccesso rivolti contro gli stessi dei. Il peggiore dei mali anche in azienda[14]. La ricerca ha trovato prove che sono imputabili a capi con questo profilo psicologico decisioni e comportamenti negativi per l’impresa. Per esempio tendono a impegnarsi in acquisizioni inutili pur di far risaltare ulteriormente sui giornali il proprio ego smisurato, mettendosi alla testa di un impero più vasto[15]. Sono per di più pronti a pagare per la stessa azienda acquisita un prezzo più alto del dovuto pur di dare una risposta rapida al proprio bisogno di successo[16]. La loro attitudine a sostenere solo i progetti più grandiosi e l’eccesso di confidenza nelle proprie capacità mette le aziende che dirigono nella condizione di trovarsi di fronte continuamente a una pericolosa lotteria: o si ottengono risultati straordinari o si fanno flop clamorosi. Nessuna via di mezzo. Il peggio di loro lo danno, come abbiamo visto, nelle relazioni con i propri collaboratori. Tendono a far regredire l’organizzazione alle dinamiche infantili e morbose di una famiglia dominata da un genitore vanesio, sospettoso e possessivo. Che chiede adulazione più che risultati. Per questo si circondano solo di persone che dicano loro di sì e che nutrano per loro una dedizione indiscussa. Per questo è difficile che accettino critiche, utili quando i problemi da gestire sono complessi e tutte le opzioni devono essere soggette a verifica, o quando c’è da fronteggiare una crisi[17]. Sono restii a delegare anche solo un po’ del proprio potere, facendo crescere intorno a sé una leva di collaboratori capaci e autonomi. Per loro, poi, il fine egoistico che perseguono è la più potente giustificazione per l’utilizzo di qualsiasi mezzo: compresi quelli illeciti. Con tutte le nemesi del caso. Come possiamo leggere quotidianamente sui giornali che raccontano la storia del potente funzionario pubblico che trafficava in appalti e favori o del giovane imprenditore rampante e spregiudicato, suo compare.

A chi tocca cercare di risolvere il paradosso del narcisismo in azienda? Chi deve imparare a distinguere tra persone capaci, ottimiste, brillanti, che danno di sé un’ottima valutazione e sono pronte a dare molto agli altri e all’azienda, e persone all’apparenza simili ma portatrici di virus come l’egoismo, la vanagloria o la tendenza ad abusare del prossimo? Possono essere solo i capi. Sono loro che devono affinare lo sguardo, cogliere per tempo i segnali negativi, dare ascolto alle opinioni di colleghi e collaboratori di quei manager ancora loro sottoposti, all’apparenza così capaci ed equilibrati, così competitivi e motivati. Chi, invece, dipende da persone che hanno questo profilo patologico non è un buon giudice perché potrebbe essere già stato preso nella rete della reciproca dipendenza, nel gioco degli specchi. Chi ne ha la supervisione dovrebbe essere, al contrario, più attento ai risultati concreti che al fascino dei loro piani mirabolanti[18]. E allora, forza! Se Bob Sutton con il suo “metodo” ci ha insegnato a tenere a bada gli stronzi, è ora di dare anche una bella potata a qualche Narciso di troppo pronto a sbocciare nel giardino delle nostre aziende. A meno che non ci si rassegni a trasformarlo in una giungla.

1

Judge T.A., Locke E.A., Durham C.C., “The dispositional causes of job satisfaction: a core evaluations approach”, in Staw B., Cummings L.L. (Eds), Research in Organizational Behavior, vol. 19, JAI Press, 1997.

2

Judge T.A., Bono J.E., “Relationship of Core Self Evaluations Traits – Self-esteem, Generalized Self-efficacy, Locus of Control, and Emotional Stability – with Job Satisfaction and Job Performance: A Meta-analysis”, Journal of Applied Psychology, 2001, 86, pp. 80-92.

3

Cooper A.M., “Narcissism”, in Morrison A. (Ed.), Essential Papers on Narcissism, New York University Press, New York 1986, pp. 112-143.

4

Campbell W.K., “Is Narcissism Really So Bad?”, Psychological Inquiry, vol. 12, n. 4, 2001, pp. 214-216.

5

Frosh S., Identity Crisis, Modernity, Psychoanalysis and the Self, Macmillan, Basingstoke, 1991.

6

Deluga R.J., “Relationship among American Presidential Charismatic Leadership, Narcissism, and Rated Performance”, Leadership Quarterly, vol. 8, n. 1, 1997, pp. 49-64.

7

Kets de Vries M.F.R., The Leader on the Couch: A Clinical Approach to Changing People and Organizations, John Wiley & Sons, New York, 2006, pp. 23-50.

8

Brown A.D., “Narcissism, Identity, and Legitimacy”, Academy of Management Review, vol. 22, n. 3, 1997, pp. 643-686.

9

Masterson J.F., The Search for the Real Self, The Free Press, New York, 1988.

10

Campbell W.K., “Is Narcissism Really So Bad?”, cit.

11

Kernis M.H., “Toward a Conceptualization of Optimal Self-esteem”, Psychological Inquiry, vol. 14, n. 1, 2003, pp. 1-26.

12

Paulhus D.L., “Interpersonal and Intrapsychic Adaptiveness of Trait Selfenhancement: A Mixed Blessing?”, Journal of Personality and Social Psychology, 74, 1998, pp. 1197-1208.

13

Lubit R., “The Long-Term Organizational Impact of Destructively Narcissistic Managers”, Academy of Management Executive, vol. 16, n. 1, 2002, pp. 127-138; e Maccoby M., “Narcissistic Leaders: The Incredible Pros, The Inevitable Cons”, Harvard Business Review, January- February, 2000, pp. 69-77.

14

Hiller N.J., Hambrick D.C., “Conceptualizing Executive Hubris: The Role of (Hyper-)core Self-evaluations in Strategic Decision-making”, Strategic Management Journal, 26, 2005, pp. 297-319.

15

Roll R., “The Hubris Hypothesis of Corporate Takeovers”, Journal of Business, vol. 59, n. 2, 1986, pp. 197-216.

16

Hayward M.L., Hambrick D.C., “Explaining the Premiums Paid for Large Acquisitions: Evidence of CEO Hubris”, Administrative Science Quarterly, 42, 1997, pp. 103-127.

17

Granville K. III, “Narcissism and Effective Crisis Management: A Review of Potential Problems and Pitfalls”, Journal of Contingencies and Crisis Management, vol. 15, n. 4, 2007, pp. 183-193.

18

Blair C.A., Hoffman B.J., Helland K.R., “Narcissism in Organizations: A Multisource Appraisal Reflects Different Perspectives”, Human Performance, 21, 2008, pp. 254-276.