E&M

2006/3

Vincenzo Perrone

Dell’età. Ovvero: la sindrome della banana acerba

Scarica articolo in PDF

Non vorremmo dover partire da quello che hanno notato tutti: per il governo di questo paese si sono candidati due leader, ciascuno carico di personali e spesso discussi meriti, glorie e onori, i quali hanno, in media, circa settant’anni di età. Mentre scriviamo è ormai chiaro chi ha vinto: temiamo però che gli italiani restino ancora a lungo incerti sul perché. E tuttavia il fatto ha una tale capacità di indicare in modo simbolico uno dei nodi con i quali ci dobbiamo confrontare che è pressoché impossibile trascurarlo. Soprattutto perché in altri paesi, come per esempio la Gran Bretagna, chi si candida a sfidare l’attuale primo ministro non ha ancora raggiunto i quarant’anni. Da noi, invece, per le più alte cariche dello Stato sono entrati in agone uomini di ottantasette anni, e da più parti si è chiesto a una persona di ottantacinque anni di farsi carico per altri sette del duro lavoro al vertice del paese, sperando di poterlo salutare ancora pimpante e in salute, capace di viaggiare e di ricevere capi di Stato stranieri, alla tenera età di novantadue anni. Sembrerebbe dunque che in Italia non si possa essere considerati una “risorsa per il paese” (un modo crudelmente ambiguo che si usa ugualmente per sostenere o cassare una candidatura) se non si è aged to perfection, frollati a dovere, come una tenera bistecca di Morton’s oRuth’s Chris. Si tratta dunque di un nostro tratto peculiare. Esiste una questione “giovani” in Italia? Siamo convinti di sì. E siamo anche assolutamente persuasi del fatto che sia una questione centrale dalla quale si irradiano effetti che toccano la capacità di innovare, di rischiare e di guardare con ottimismo al futuro.

Le cause del fenomeno sono diverse. Il dato di fondo è demografico: una proiezione citata di recente dal “giovane” politico Enrico Letta dice, per esempio, che per effetto del divergente andamento dei tassi di natalità e mortalità, nel 2020 in Italia il rapporto tra over sessantacinque e popolazione attiva (tra i quindici e i sessantaquattro anni) sarà del 40%. Come tutte le proiezioni, anche questa potrà rivelarsi sbagliata: le nascite sembrano in ripresa e non è da trascurarsi il peso dell’immigrazione sulla composizione della popolazione. È innegabile però che si manterrà e si consoliderà un blocco di potere e di interessi che avrà la tendenza a “guardare il futuro con la nuca”, come dice l’irriverente Mafalda in una sua striscia a fumetti. Chi ha più passato che futuro tende in genere ad avere più interesse a mantenere quello che ha, che a cambiare e rischiare. Il risultato può essere (esistono ovviamente eccezioni) una tendenza alla conservazione, alla prudenza, alla ricerca di garanzie, che attraversa trasversalmente sia le istituzioni sia le imprese e le scuole del nostro paese. Sclerotizzandole e rendendole riluttanti a investire e affrontare cambiamenti costosi oggi per regalare a qualcun altro frutti nuovi e migliori domani.

Accanto al peso numerico e all’atteggiamento conta anche il fatto che le generazioni di coloro che hanno in questo momento tra i cinquantacinque e gli ottant’anni hanno vissuto esperienze di vita collettiva che ne hanno rafforzato sia la tempra sia il grado di coesione: si va, infatti, da chi ha partecipato alla ricostruzione dell’Italia e al successivo boom economico a chi è stato protagonista di movimenti epocali come quelli della fine degli anni sessanta del secolo scorso. Sono state, queste, riconosciute palestre per le capacità di leadership e di relazione, che non hanno avuto eguali per le generazioni successive, esposte a un relativo benessere e oggi ai venti incerti e a volte paurosi della globalizzazione. Attraverso quelle esperienze le generazioni “mature” hanno sviluppato una compattezza che le favorisce nella gestione e nel mantenimento del potere, anche attraverso l’abitudine alla cooptazione tra simili, che comporta l’esclusione dal potere di chi, come i giovani, simile non è.

E poi, naturalmente, ci sono state le scelte politiche e di politica economica del nostro paese. Troppo complesse e articolate per essere riassunte in poche righe qui. Ma basta ricordare quello che ha sottolineato più volte il professor Mario Monti: il debito pubblico è anche e soprattutto il benessere delle generazioni passate fatto pagare a quelle future. Il segno di una frattura e di una competizione, laddove ci dovrebbe essere solidarietà e contiguità di interessi. Una frattura resa ancora più larga dalla crisi del sistema pensionistico, dalla differenza di tutela tra chi un lavoro ce l’ha e chi invece (e sono soprattutto i giovani e le donne) lo deve ancora trovare, dal mancato raccordo tra mondo della scuola e mondo del lavoro, un obiettivo fondamentale inseguito da diversi tentativi di riforma e trasformatosi in una irraggiungibile chimera. Un giovane oggi avrebbe buon gioco a ritenersi più benestante, forse, ma sicuramente meno fortunato dei propri genitori: lo Stato generoso (e sventato) spenditore e datore di lavoro è in crisi, il lavoro a tempo indeterminato un obiettivo difficile da conseguire, i redditi da lavoro bassi rispetto alle necessità e infimi rispetto ai sogni imposti dalla società dei consumi e dello spettacolo, la pensione agganciata all’ultimo reddito di lavoro e frutto di un trasferimento solidale da chi ancora lavora a chi ha già lavorato, un ricordo con già il sapore della favola. Laddove ci sono genitori o nonni che hanno potuto raggiungere i vertici di prestigiose istituzioni nazionali mantenendo intatta nella parlata la forte coloritura del proprio dialetto di origine, a questi figli, ai nostri figli, forse non basterà esprimersi correntemente e correttamente in inglese. A chi visse un’intera vita nella stessa città, sostenuto dalla rete di parenti e amici si contrappone chi deve spostarsi inseguendo il lavoro e farsi, quando va bene, cittadino d’Europa per trovare finalmente una propria realizzazione.

Il solco si allarga e si approfondisce nel tessuto sociale del nostro paese. E non senza responsabilità dei giovani stessi, i quali paiono in alcuni casi tentati dall’apatia, dall’ammazzare il tempo nel tentativo di divertirsi, magari semplicemente stordendosi di alcol o di altro, dal vivere alle spalle delle proprie famiglie ben oltre un limite sano e tollerabile, dal credere al potere della raccomandazione e del favore piuttosto che a quello del merito. Ma la perdita di quello che i giovani possono dare si fa sentire ed è grave. Senza un loro ruolo importante nella società diminuiscono la propensione al rischio, la capacità di innovare, la curiosità verso il futuro e verso ciò che non si conosce, la confidenza con le nuove tecnologie, l’apertura cosmopolita, il darsi disinteressato e generoso di chi sa di avere tempo per recuperare ed energie sufficienti per farlo. L’intera nostra società rallenta, inaridisce, perde coraggio e terreno rispetto ad altri paesi. E lo stesso vale per le aziende che non sanno rinnovare i propri quadri direttivi e dare spazio ai giovani di talento, offrendo loro concrete opportunità di sviluppo professionale e di crescita personale. E ancora più grave è il pericolo che corrono quegli imprenditori che non sanno gestire la propria successione, disegnando lo spazio giusto per le nuove generazioni che sappiano meritarselo e ne siano all’altezza.

La contrapposizione tra classi di età, così come la questione delle differenze di genere, dovrebbero essere allora maggiormente al centro del dibattito sociale, economico e politico nel nostro paese. Ma come spesso accade da noi, le questioni importanti vengono esorcizzate con la retorica dei buoni propositi. Senza che nulla cambi nel concreto. Ma si può fare qualcosa? Sarebbe troppo semplice chiedere a chi occupa una posizione di potere di farsi da parte solo in ragione dell’età.

Chi scrive non sarebbe nemmeno più in una posizione di conflitto di interesse nell’avanzare una proposta così ingenua quanto radicale e dal vago retrogusto maoista. Abbiamo ormai quasi quarantotto anni. Potremmo essere considerati “giovani” solo nel nostro Parlamento, in una nostra Università o in una bocciofila. Tre ambienti che a volte mostrano inquietanti affinità. La ruota per noi ha già girato e l’invito lo rivolgeremmo per primi a noi stessi. Ma sarebbe impossibile seguirlo visto che in questo momento intorno a noi si incentiva esattamente il contrario: mantenere il più a lungo possibile lavoro e posizione magari proprio per sostenere quei figli o nipoti che rimangono disoccupati, o passano da uno stage all’altro, da una promessa non mantenuta alla successiva. Un modo più efficace per ridurre la competizione intergenerazionale è lavorare duro e in modo serio perché aumentino le risorse disponibili per tutti. È quello di fare crescere di più la nostra economia e aumentare le tutele e i sostegni per i giovani in cerca di lavoro e di inserimento nella società. Le due cose di cui tutti parlano, ma che ancora troppo pochi si sono impegnati a fare: riforme e politiche economiche orientate alla crescita e all’innovazione sono centrali anche per ridurre in modo sostanziale un’opposizione che rischia invece di impoverirci ancora di più. Senza solidarietà intergenerazionale aspecifica, estesa cioè al di là e al di fuori dei vincoli parentali, non c’è continuità né per le specie né per le nazioni. Guardare all’azione di governo dal futuro e dal punto di vista delle nuove generazioni sarebbe un modo efficace di valutarla e di orientarne le scelte, particolarmente quando queste sono difficili e costose.

Occorrerebbe valorizzare poi l’esperienza di chi ha potuto accumularla in molti anni mettendola al servizio di chi ha dalla propria parte la forza verde della giovinezza relativa. A questo proposito ci ha colpito l’esempio, non a caso proveniente dall’Oriente, di Lee Kuan Yew, classe 1923, per quasi trent’anni, fino al 1990, primo ministro della Repubblica di Singapore, del cui notevole sviluppo e della miracolosa indipendenza questo uomo politico per molti versi straordinario è stato uno dei principali artefici. Il titolo attuale di cui Lee Kuan Yew si fregia è mentore del primo ministro in carica, peraltro legato a lui da un rapporto di stretta parentela (il nepotismo non è una piaga solo italiana...). Tutto il suo sapere, le sue conoscenze, i suoi contatti sono istituzionalmente messi al servizio della nuova generazione per sostenerla nella difficile attività di governo.

Si vede qui applicato in ambito politico quello che sempre più numerose aziende stanno facendo al proprio interno incoraggiando appunto programmi di mentoring e coaching che hanno dunque anche l’importante funzione di rendere la relazione intergenerazionale cooperativa e funzionale allo sviluppo dell’azienda.

Ma che c’entrano in tutto questo le banane acerbe? Riteniamo che si prestino bene per l’allegoria di un errore che si vede commettere spesso e in ambienti diversi a proposito dei giovani e della loro crescita. Cominciamo dalle banane: vi sarà capitato di acquistarle ancora molto verdi, con l’idea di farle maturare in casa e di farle in questo modo durare di più. Ve le siete poi quasi dimenticate in frigorifero per un po’, per tirarle fuori un giorno qualunque e metterle in bella vista aspettando di potere presto gustare il vostro frutto esotico preferito al giusto grado di maturazione. Un’attesa frustrata da una subitanea e imprevista trasformazione: invece di maturare e raggiungere il miglior sapore, le povere banane verdi sono passate in pochissime ore e senza soluzione di continuità dal verde acerbo al marrone intenso e quasi nero del frutto marcio. Dove sta l’allegoria?

Anche con i giovani timing is everything. Occorre saper dare l’occasione giusta, proporre la sfida giusta, misurata sulle capacità del momento e in grado di produrre il massimo risultato facendo leva sul massimo di motivazione. Altrimenti si rischia di sprecare le risorse migliori ritenendole ancora troppo verdi quando sono invece prontissime o giudicandole ormai sorpassate e in declino, quando ancora non hanno avuto la possibilità di esprimere il proprio valore, di fare sentire il proprio vero sapore.

Guardatevi intorno: sicuramente troverete nella cerchia delle vostre conoscenze qualche esempio di brillanti eterni giovani o vecchi bambini. Due facce della stessa triste medaglia. Ai primi l’opportunità giusta non è stata data mai: non erano mai giudicati sufficientemente pronti o c’era sempre qualcun altro un po’ più anziano, un po’ più tranquillo, un po’ più affidabile da preferirgli. Ai secondi l’occasione, l’impegno importante, la responsabilità cruciale sono stati offerti quando era troppo tardi, quando la vita e l’attesa avevano già insegnato loro distacco e cinismo, quando già erano pronti a giocare al ribasso o solo per il proprio tornaconto. Quando si sono spenti e appassiti anche a dispetto dell’età anagrafica.

Un genitore, un maestro, un allenatore, un capo eccellente si distinguono da tutti gli altri anche e soprattutto per la capacità di cogliere il potenziale, la motivazione, il giusto grado di tensione sia ideale sia pratica in un giovane e di saperla accoppiare con il giusto obiettivo, il progetto sfidante, l’occasione importante al momento giusto. Né troppo presto, quando il frutto è ancora verde, né troppo tardi, quando ormai ha perso freschezza ed energia. Non è facile. Ma è forse il modo più importante attraverso il quale si possono trasformare davvero i giovani nella forza propulsiva di una società e di un’azienda. Richiede attenzione, fatica, tolleranza per l’errore e passione per la crescita altrui. Cose difficili e in questi tempi frenetici, aggressivi, distratti e un po’ cafoni, rare. Ci vorrà tempo, rigore e molta buona volontà perché qualcosa cambi davvero nel rapporto con i giovani. C’è di che essere pessimisti. Forse rimarrà tutto come è ora. E persino la cabala evolverà per adattarsi alla gerontocrazia trionfante. Novanta: la paura! Ma quando mai…