E&M

2008/2

Giocatori come Pelé e Maradona nasceranno ancora, ma uno come Garrincha mai più. Quando giocava lui, lo stadio si trasformava in un circo. Era un giocoliere con il pallone tra i piedi, famoso per il suo doppio passo micidiale. Con finte consecutive saltava i giocatori come birilli. Metteva a sedere per terra il terzino, il mediano laterale, il terzino ritornante e infine il portiere. I più antipatici, tornava indietro e li dribblava due volte. Per lezione. A ogni avversario superato rivolgeva sempre lo stesso saluto: “Ciao Giovanni”. Con la maglia del Brasile vinse due campionati del mondo, giocando cinquanta partite. Perse solo l’ultima.

Era il settimo di dodici figli di una guardia notturna, famiglia poverissima che viveva in una favela di Rio. Affetto da poliomielite, dopo l’operazione una gamba rimase sei centimetri più corta dell’altra. Aveva poche possibilità di camminare correttamente. Sembrava un derelitto della società, destinato a chiedere l’elemosina. Suo fratello lo chiamò Garrincha, il più brutto uccello del Mato Grosso, dalle gambe sottilissime. Invece, in dodici anni, giocò 608 partite nel Botafogo, vinse vari scudetti, segnò 244 reti. Ala destra classica, correva al confine dei raccattapalle. Cresciuto in periferia, giocava alla periferia del campo. L’handicap fisico divenne la sua forza. Aveva una colonna vertebrale fatta a S e le due gambe piegate dallo stesso lato. Faceva impazzire gli avversari. Liedholm, che lo affrontò nel mondiale del 1958, ne uscì sconvolto: “Sembrava che avesse due gambe destre o due sinistre. Ci massacrò”.

La sua mente era rimasta allo stato infantile. Il suo quoziente di intelligenza si fermava a 38, quando il minimo richiesto era 123. Dopo la finale di Stoccolma del 1958, il primo mondiale vinto dal Brasile, in campo tutti si abbracciavano e piangevano. Garrincha domanda all’allenatore: “Ma perché piangono tutti?”. “Perché abbiamo battuto la Svezia e siamo campioni del mondo.” E lui replica: “Ma la partita di ritorno quando la giochiamo?”. Al rientro a Rio i giocatori furono accolti dal Governatore che, al termine della cerimonia, annunciò che, per ognuno di loro, era pronta una villetta sulla spiaggia. Nella sala c’era una colomba in gabbia. Garrincha disse: “A me la casa al mare non interessa, ma liberate quella colomba”. Ai mondiali di Inghilterra, nel 1966, Yamasaki, un arbitro di origini nipponiche, ma peruviano, infierì su Garrincha che gliene disse di tutti i colori, convinto che fosse giapponese. Fu espulso. Si avviò verso lo spogliatoio come se fosse in coda al suo funerale. Era iniziato il suo tramonto.

Averlo visto giocare è la più grande fortuna che possa capitare a chi ama il calcio. Per un anno l’ho ammirato al Maracanà. Era il mio idolo. Non sapeva scrivere, firmava con una croce. Ma in campo era un soffio di vento: la poesia al potere. In Brasile, se ai vecchi parli di Pelé, si tolgono il cappello. Ma se nomini Garrincha, si mettono a piangere. Una canzone lo ricorda così: “È finito il nostro carnevale”. Pelé ha realizzato ciò che tutti i brasiliani di colore vorrebbero essere, Garrincha è stato lo specchio di quello che sono. Fu un povero e piccolo mortale che aiutò il suo paese a sublimare le sue tristezze. Amato da tante donne, ebbe quattordici figli. Morì solo, senza soldi, dimenticato da tutti. Alcolizzato e grasso, alla sua ultima compagna lasciò come eredità un biglietto della lotteria. Nel cimitero, a trenta metri da dove realmente riposa, hanno eretto una stele in suo onore: “Era un ragazzo dolce che parlava ai passeri”.