E&M

2008/2

Severino Salvemini

I neodistretti industriali tra nuova cultura e antico territorio

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Alcuni segnali di cambiamento

La recente economia italiana sembra andare meglio di alcuni anni fa e ciò rincuora i paladini dell’antideclino: coloro che cercavano di contrastare la retorica dei profeti di sciagura del nostro sistema produttivo, i quali davano per definitivamente spacciate le formule del pulviscolo diffuso dell’artigianato, delle piccole imprese molecolari, del capitalismo distrettuale. In effetti è vero che c’è stata una metamorfosi del sistema locale, che, attraverso un lento processo di verticalizzazione della propria struttura, ha cercato di adeguarsi alla globalizzazione. È stato un turnaround lungo e difficile, tutt’altro che compiuto, ma che ha dimostrato che c’è un’Italia che ce la fa, che non chiede alla finanziaria di turno di recuperare false economicità, che riesce a lottare contro un dollaro debole magari aumentando le proprie esportazioni in Cina e in Russia, che sta sperimentando vie innovative e originali di prodotto e di processo (tabella 1; si veda il pdf allegato).

Un melting pot postfordista in cui localismo, creatività e talento riescono a combinarsi in nuove evoluzioni per competere mondialmente. I distretti si muovono, si “aprono” a nuove contaminazioni, anche se non in modo compatto. Ciò che emerge chiaramente in questi ultimi anni è che le imprese distrettuali non possono essere semplicisticamente trattate come categoria internamente indifferenziata. Sotto la generica etichetta del distretto, alcune aziende hanno scelto di svolgere il ruolo da leader; altre hanno deciso di accomodarsi sotto l’ombrello dei campioni. Un caso evidente è la presenza di alcune imprese internazionali nelle economie locali (innescata dall’ingresso dall’esterno di aziende frutto di scelte di localizzazione nella rete distrettuale locale o dalla forte crescita di imprese locali che diventano globali), che innesca processi di path-breaking che riorientano la traiettoria di sviluppo del distretto (path-dependence) e introduce nel sistema territoriale risorse immateriali e conoscenze che il contesto non sarebbe mai stato in grado di produrre spontaneamente attraverso i tradizionali processi fortemente autorganizzati (Biggiero, Sammarra 2002).

Ma occorre anche non esagerare nel rapido entusiasmo e nel sostenere che ormai i distretti economici siano riusciti a cambiare pelle. La trasformazione, infatti, impone una robusta discontinuità e il processo di rinnovo non è ancora terminato: bisogna non abbassare la guardia e vale la pena dettagliare gli ingredienti per la cura e la ricetta per giungere collettivamente a destinazione. Serve una nuova stagione dell’economia locale, facendo giocare al territorio un altro ruolo rispetto alle decadi del Novecento.

I distretti economici del Duemila

Il volo del calabrone di passata memoria era riuscito a sottrarre per molti anni l’industria borghigiana al trend recessivo, ma negli ultimi dieci anni dell’ultimo secolo, il meccanismo si è inceppato e il localismo ha dimostrato tutte le sue debolezze, che di fatto rappresentano in scala i problemi dell’industria italiana (Becattini 2007). Quegli anni novanta sono anche gli anni in cui gli animal spirits imprenditoriali non sono riusciti a tenere testa (o non hanno voluto) alle pressioni competitive sempre più forti, rinunciando spesso al loro compito schumpeteriano, per ripiegare su processi più facili di rendita finanziaria e immobiliare.

Ma quali sono le ragioni per cui la formula originaria dei duecento raggruppamenti settoriali si è usurata? Come è possibile che un paradigma che anche i ricercatori del MIT ci invidiavano come modello consacrato di sviluppo (Piore, Sabel 1984) e che ha trainato il grosso del made in Italy, producendo il successo dell’industrializzazione dal basso, abbia trovato il suo momento di difficoltà quasi mortale?

Qui occorre ricordare che i distretti, cresciuti con la vocazione della subfornitura, hanno basato prevalentemente il loro sviluppo sulla fase manifatturiera della filiera, trascurando le fasi a monte (invenzione e valorizzazione delle idee) e a valle (commercio, marketing, logistica e distribuzione), non facendo leva sul potere del mercato con reputazioni e marche collettive distintive.

È stato un distretto frammentato in fasi troppo atomizzate, che ha impedito l’accumulazione di conoscenze e la crescita dimensionale (“forti pigmei e deboli watussi”, scriveva Becattini nel lontano 1979). Inibendo di fatto le voglie e i timidi accenni di diversificazione. È stato anche un distretto autoreferenziale, chiuso in se stesso, poco permeabile alle collaborazioni esterne e internazionali. La famosa strategia delle punture di spillo (fervida immagine di De Masi), con cui le imprese locali rovesciavano lo slogan “Think global, act local” in “Think local, act global” non ha mai portato le imprese del territorio a ricercare input professionali davvero di origine planetaria. E alla fine il patrimonio cognitivo del contesto è rimasto provinciale: qui la produzione di scarponi, e di soli scarponi; lì la produzione di sedie, e di sole sedie.

Il distretto è stato spesso definito come un “mercato comunitario”, vale a dire un mercato regolato da vincoli di riconoscimento comunitario fra i partecipanti (Dei Ottati 1995). Un luogo, una comunità appunto, dove gli attori economici hanno il volto degli amici, dei compagni di scuola, del sindaco, degli avversari delle partite a carte fatte nei bar della piazza: tutte persone che sono cresciute intorno all’azienda e per l’azienda. Le relazioni familiari si estendono nelle relazioni di affari; le istituzioni locali si impersonificano in una fitta rete di relazioni sociali, di amicizia e di parentela. La semplice appartenenza alla geografia locale costituisce condizione necessaria per ridurre il rischio di comportamenti opportunistici, grazie all’assistenza di un network di conoscenze personali che favorisce la comunicazione e la cooperazione fra gli operatori del luogo. Ma questa importanza delle variabili storiche, sociali e culturali ha dato troppa enfasi alle qualità intrinseche del macrosistema locale, trascurando il ruolo strategico che le singole imprese avrebbero dovuto svolgere. Dice giustamente Perrone: “affidare la distintività della propria value proposition solo al richiamo del luogo di origine, sia esso l’Italia o, cosa ancor più problematica, il proprio piccolo territorio, rischia di essere un modo di coltivare pericolose illusioni” (Perrone 2004).

Secondo Varaldo, i problemi del distretto che sono giunti al pettine alle soglie del 2000 vengono da lontano (Varaldo 2004). Esso era troppo radicato nel proprio saper fare, e pertanto privo di percorsi programmatici per identificare veri processi di innovazione. La specializzazione lo vincolava nell’ampliamento del raggio d’azione e lo rendeva deficitario nella diversificazione del business. E tutto ciò finiva per portare gli imprenditori ad allocare in modo subottimale il capitale finanziario. Il circuito locale delle imprese molecolari sottoponeva l’industria a divisioni del lavoro ossessivamente parcellizzate e impediva l’accumulazione di conoscenze e la sovrapposizione di competenze (la tipica cross-fertilization che è condizione di accensione di qualsiasi processo di creatività originale). La chiusura nelle proprie competenze distintive produceva un alto grado di autosufficienza, che rendeva la popolazione poco permeabile a collaborazioni esterne e alla fine penalizzava l’arricchimento del patrimonio cognitivo, sia professionale sia culturale.

Il distretto di fronte al postindustriale

Ma ciò che sembra abbia più bloccato l’emancipazione culturale del distretto e che ha mancato un ciclo di rinnovo del know-how distintivo è la fatica a cogliere la deriva postindustriale (Rullani 2004). Un secolo di fordismo e di ciminiere ha reso difficile per l’imprenditore, tutto concentrato sui tagli di costi e sui progetti di efficienza, l’evoluzione verso l’intangibile del mercato, dove i prodotti e i servizi si trasformano, incorporando sempre di più una parte preponderante di utilità immateriale (la conoscenza acquistata) e una parte minore di utilità materiale (il bene fisico o il servizio per sé). La smaterializzazione del valore è divenuta col tempo un processo di validità generale, in settori assolutamente diversi che vanno dall’auto alle macchine utensili, dai beni alimentari ai giocattoli, dai servizi di massa a quelli professionali. Questa incorporazione di senso e di capitale simbolico può essere affrontato nel distretto solo con un territorio dove il pensiero moderno si sa trasformare in postmoderno e dove la competenza industriale viene fertilizzata da una forte capacità terziaria (negli imprenditori e nei dipendenti, ma anche nei commercialisti e nei notai…). Un nuovo distretto economico che passa quindi per un “guado” contemporaneo, dove le nuove idee, la creatività, l’inventiva, la capacità di applicare le dinamiche knowledge-based costituiscono l’unica fonte di vantaggio comparato di lungo periodo. Più cervello per le mani, allora, nei localismi locali. E anche più educazione, meglio se internazionale. Quanti studenti Erasmus lavorano a Castelgoffredo? E quanti a Carpi, a Valdobbiadene o a Santeramo in Colle?

Il territorio necessita di skills terziarie, per elaborare nuovi business model che si concentrino su produzioni più intelligenti, magari decentrando la fabbricazione più operativa a minor valore aggiunto nei paesi in via di sviluppo e puntando maggiormente sui vantaggi dati dalle risorse intangibili (creatività, processi informatici, collegamenti con la clientela attraverso CSM ecc.), più in linea con i paradigmi della nuova concorrenza globale.

Valgono due esempi a illustrare quanto sia utile scommettere su un nuovo capitale cognitivo del territorio (Guelfa, Micelli 2007). Nel primo esempio si possono comparare due distretti geografici specializzati in mobili, il distretto della Brianza e quello della Murgia: mentre i mobilieri brianzoli operano in un territorio ricco di competenze di design (contaminate anche dal comparto della Moda di Milano) e stanno avendo successo, i mobilieri della Murgia puntano solo sulle competenze manifatturiere e diminuiscono negli anni recenti i loro record di profittabilità. Nel secondo esempio si possono comparare alcuni distretti conciari, quello di Arzignano e di S. Croce sull’Arno, da una parte, e quello di Solofra dall’altra: i primi hanno imparato a gestire attività consortili (quali quelle delle acque reflue e della logistica di spedizione) e riescono a fronteggiare i competitori dei paesi emergenti; non altrettanto riescono a fare i conciari di Solofra, che continuano a insistere su politiche individualistiche tutte centrate sulla mera produzione.

Il territorio come luogo di apprendimento collettivo

Nell’economia della conoscenza, le nuove idee, la creatività, l’inventiva, la capacità di applicare il nuovo saper fare costituiscono le vere leve della competizione (Florida 2002; Amatasi, Salvemini 2005). È sul territorio, e in particolare sulla trasformazione cognitiva del territorio, che bisogna scommettere, facendo crescere le identità collettive di ambizione e di scala dimensionale. Tutti gli studi sul milieu innovateur ci confermano che la realtà urbana è ciò che riesce a produrre il miglioramento della creatività locale, la capacità di realizzare innovazioni di prodotto e di ridurre l’incertezza attraverso una maggiore trasparenza informativa e un più veloce controllo sulle strategie delle imprese (Camagni 1991; Maillat 1998; Cappetta, Salvemini 2006). Il territorio si propone quindi con un’infrastruttura cognitiva di nuovi saperi, rendendo il vantaggio competitivo come derivante, poiché essi qualificano la competitività delle imprese locali (Sacco 2007; Camuffo, Grandinetti 2005). È sul contesto geografico che si formano interessi e identità collettivi (come la memoria, la sapienza, il senso, la riserva di esperienza) ed è pertanto lì che si può richiamare la responsabilità di tutti (imprese, enti locali e singoli) a rilanciare lo sviluppo e a razionalizzare spese e interventi. È sul territorio che si rilancia l’economia simbolica della città, mettendo in circolo le conoscenze implicite ed esplicite che sono disponibili nei vari operatori e contaminando con le necessarie intersezioni le comunità professionali che sanno affrontare il nuovo.

Il distretto, con nodi di reti sempre più estese e interconnesse, attrae flussi di mobilità e, con le popolazioni immigrate, apre la comunità locale a una logica più interculturale. E anche il turismo diviene un’attività economica pregiata e non più residuale, tanto da rivitalizzare il tessuto insediativo urbano attraverso la popolazione artistica, nuove architetture di pregio, poli di intrattenimento (Roma 2007).

La cultura e la creatività divengono pertanto motore centrale e propulsivo dell’intera geografia locale, anche se non sono immaginabili distretti culturali che sostituiscano i distretti industriali (a meno che non esista in loco una rendita di posizione derivante dallo sfruttamento di “stock di capitale culturale”, come nel caso delle città d’arte), né tantomeno sono da ricercare separazioni tra industrie tradizionali e industrie creative. La cultura e l’arte si pongono più semplicemente tra gli input fondamentali del processo produttivo della nuova catena del valore. La risposta al nuovo stadio del distretto produttivo e del capitalismo territoriale è pertanto un distretto economico “evoluto” con complementarità strategiche tra filiere differenti, come è l’esempio recente di Torino, dove si è riusciti a far convivere la tradizione motoristica-automobilistica con il più fresco sviluppo del cinema e dell’audiovisivo.

Una policy di intervento programmata e consapevole

In questo passaggio storico c’è un sostanziale cambiamento della politica industriale, che trasforma le economie locali da “eredità” a “progetto”. I distretti non vengono più solo intesi come elementi storico-geografici della realtà economica del paese. I territori non sono più solo natura spontanea e autorganizzata. Con il nuovo business model essi vengono pensati e agiti come strumenti di politica per l’innovazione. Come dicono gli urban studies, dove l’urbanistica si mescola all’economia regionale e alla sociologia delle professioni, il futuro è nelle mani del territorio illuminato, guidato e pianificato in modo consapevole, abile a rinnovare il proprio patrimonio di conoscenze, a partire da un ripensamento della creatività.

L’approccio per ripensare i distretti è rigoroso e coinvolge parecchi protagonisti, economici e non, della comunità locale.

Come abbiamo detto prima, lo sviluppo economico sostenibile non può essere dissociato dalla dimensione culturale. La cultura non può essere considerata qualcosa “altrimenti”, qualcosa che non ha ricadute sul reddito o sul lavoro dei cittadini. Il territorio è una risorsa, anche economica, così come l’economia è parte integrante della cultura di un popolo. Cultura e sviluppo sono indissociabili, perché cultura è materia prima cruciale per l’economia simbolica e pertanto separare i due elementi diventa un esercizio sterile e impossibile. I due processi però – sviluppo economico e sviluppo culturale – non devono essere troppo spontanei e poco indirizzati, perché altrimenti perderebbero la dimensione sistemica e la forza sinergica. Il nuovo distretto deve conoscere bene i saperi scientifici e gli ultimi linguaggi dell’innovazione, convinto che la novità non sia insita solo nella tecnologia ma anche nei contenuti semantici della contemporaneità (come per esempio l’arte, il cinema, la musica, la letteratura e così via).

Il piano di sviluppo va strutturato in un programma di lungo termine (e quindi bypartisan rispetto alle baruffe delle coalizioni partitiche), dove gli attori economici e sociali (e le loro costruzioni di partnership) diventano importanti almeno quanto le politiche. Il piano di sviluppo va considerato integrato, mettendo insieme il patrimonio materiale (archeologico, ambientale, monumentale, urbanistico, industriale) e quello immateriale (tradizioni popolari, antichi saperi, disponibilità di know-how). Inoltre il piano deve basarsi sul capitale relazionale del territorio, facendo convergere risorse differenti in un mix interagente e pertanto costruendo i sistemi di relazione, di indivisibilità, di solidarietà e di partecipazione.

Il processo di costruzione di un nuovo patrimonio cognitivo territoriale deve combinare momenti di partecipazione democratica e momenti di direzione più autocratica. Sul piano dell’emersione bottom up ci si deve muovere dalle identità spontanee del contesto, garantendo una base di coinvolgimento e di partecipazione essenziale a tutte le comunità professionali che possono portare innovazione al sistema; sul piano della guida top down occorre fornire alle singole iniziative locali un senso rispetto all’indirizzo di medio termine del contesto, favorendo l’integrazione con le scelte quotidiane e assicurando il necessario supporto in termini di risorse economiche e finanziarie (Nigro 2006).

In sintesi, lo sviluppo dei nuovi distretti non può emergere senza un disegno programmatico, intenzionale, di natura politico-strategica, che veda le istituzioni intermedie (associazioni imprenditoriali, consorzi, enti locali, fiere, centri di servizio, università, banche locali) aiutare la crescita, crescendo insieme. Tale disegno deve perseguire uno sviluppo locale sostenibile e condiviso, sulla base di una messa a sistema (creativa, singolare, interagente) dei talenti e delle relazioni privilegiate sul territorio.

Riferimenti bibliografici

Si veda il pdf allegato.