E&M

2002/4

Tarasso Tarasso

Per non dimenticare…

Premessa non necessaria: questo pezzo è dedicato a tutti coloro che pensano che sia più grave attaccare un avversario politico che non dargli del rompicoglioni post mortem.

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IL FATTO

Vittoria elettorale

LA PROPOSTA COMMEMORATIVA DEL GOVERNO

Migliorare la legge sulla tassa di successione

IL FATTO

Attentato alle Twin Towers

LA PROPOSTA COMMEMORATIVA DEL GOVERNO

Migliorare la legge sulle rogatorie internazionali

IL FATTO

Omicidio Biagi

LA PROPOSTA COMMEMORATIVA DEL GOVERNO

Migliorare la legge sul trasferimento di sede dei processi

La scienza è una severa maestra

Recentemente mi è capitato tra le mani un libro di Bill Crosby, intitolato Fatherhood, con le seguenti caratteristiche:

a. molto più divertente di una vignetta di Forattini (lo so, non ci vuole molto, ma giusto per fare del sano benchmarking con il made in Italy);

b.  molto più intrigante di un pamphelotto della Fallaci (lo so, è come sparare sulla croce rossa, ma mai che una volta al volante ci sia proprio lei);

c. su un tema per me scottante (la paternità);

d. ovviamente mai tradotto in italiano.

In questo piccolo esempio di comicità, si solleva l’importante punto della relazione tra genitori e cinematografia. L’argomentazione dell’autore è la seguente: una volta nato un figlio e per molti anni a venire un genitore si trova ad escludere quasi sistematicamente un rapporto sano con film da cui un essere umano adulto è normalmente attirato, sostituendoli con quelli che la sua prole insegue con quella insistenza che fa due maroni che non si riesce a risollevarli nemmeno tenendoli a mollo nel Vov. Dovendo fare una sintesi degli ultimi tre anni di cinematografia che mi ha coinvolto, potrei citare da “La gabbianella e il gatto” (se non avete niente da fare il giorno di Natale e il pranzo con i parenti è andato bene, è un ottimo modo per passare una serata a spiegare ai vostri figli il concetto di morte), a “Shrek” (che è educativo se pensate che i vostri figli non sap-piano ancora apprezzare a fondo le vostre puzzette), a “Harry Potter” (che almeno è utile per ripassare un po’ di citazioni di Guerre Stellari), solo per citarne alcuni. Ma poi, prima o poi, capita. Capita che, passando da Blockbuster, sugli scaffali si ritrovi il piacere della cinematografia che fa per noi, esseri umani adulti. Ed è buffo che il mio primo film in un lustro sia stato “A Beautiful Mind”. So che molti l’anno visto, ma mi piace qui riprenderne in mano alcuni aspetti per ragionarci brevemente. Al di là della storia di pazzia che in esso è contenuta, il film dimostra come:

a. concetti anche complicati si possano spiegare in modo semplice;

b. la scienza è più che una severa maestra.

A riguardo del primo punto, basta l’esempio di come il protagonista, John Nash, pervenga alla esplicitazione della propria idea: una folgorazione basata, mi si passi il termine, sulla gnocca che, lì come sempre, si dimostra uno dei motori immobili dell’universo (alla faccia delle bizzarre idee eliocentriche di qualche scriteriato). Per chi non rammentasse, la situazione è la seguente: John Nash è alle prese con la difficoltà di tradurre il proprio caos di intuizioni in un’idea strutturata. Si trova in un bar con quattro amici, quando entrano sei donne nella classica composizione di un gruppo femminile: una strappagnona bionda per cui qualunque colonia di ormoni sarebbe disposta a fare la ola, un paio di amiche esteticamente passabili, un altro paio sotto la media (anche per un’economista) ma comunque più sensuali di un tubo innocenti e l’ultima che ricorda vagamente una via di mezzo tra la figlia di Fantozzi e Moira Orfei. L’istinto individuale porterebbe i cinque amici a dare la caccia alla strappagnona, ma il fine intelletto di Nash li frena: “Se tutti ci buttiamo sulla bionda (pur ammesso che ho gli spermatozoi pronti al trasloco con già in spalla lo zainetto e il loro bravo tubetto di antiossidante), nessuno di noi ha possibilità, ma se ci concentriamo sulle altre, le nostre probabilità di successo aumentano (premesso che vorrei che la figlia di Fantozzi evitasse di dare anche lontanamente del lei al mio pisello)”. Tac: dal quotidiano l’intuizione del genio. Non so se questo sia vero, ma mi piace pensare che lo sia. Non fraintendete, per favore, non voglio sostenere che un perizoma trasformi l’uomo della strada in genio (conosco certi bagnini che darebbero la birra a Einstein, se così fosse): mi piace piuttosto credere che il nostro cervello non solo produca delle buone idee in generale, ma sia anche capace di darne conto in modo che i non addetti ai lavori siano in grado di capirle. Ed è quello che gli sceneggiatori del film hanno fatto in modo egregio.

Passiamo al secondo punto. Molti ignorano che la scienza è più che una severa maestra, è anche un buon business. I soldi che la ricerca muove sono tanti, come tanti sono i beneficiari di questi denari. Durante il recente convegno “Science: the what and the why” (“Scienza un po’ come viene viene”) sono state presentate alcune delle più straordinarie bufale che la recente umanità dovrebbe ricordare per ricominciare. Si va dalla memoria dell’acqua, alla fusione fredda, da Mendel a Millikan, dalle scoperte di Gallo in materia di cancro, agli esperimenti di Galileo, ai calcoli di Newton, fino agli esempi sulla relatività di Einstein. Ho scoperto, ad esempio, che negli Stati Uniti esiste una professione denominata “fraudbuster” che va alla ricerca sistematica di questi imbrogli che, e forse i più lo ignorano, costano ai contribuenti soldi in finanziamenti alla ricerca scientifica. Ma, e la domanda di questi tempi è più che pertinente, se simili rischi si corrono a fidarsi degli scienziati, possibile che non se ne corrano anche passando dalla scienza alla divulgazione e dalla divulgazione alla pratica? Cerco di fare un esempio, limitando il campo al solo territorio manageriale. Mettendo in ordine durante un trasloco, sono ricomparsi tra gli scaffali un vecchio libro di Tom Peters che credevo bruciato (sia il libro che lui, intendo). Un libro di quasi mille pagine che, come la maggior parte dei libri di Tom Peters, ha un piglio tra il visionario e l’allucinato. In questo libro si narrano le leggende di aziende importanti come ABB, Netscape, 3M, WalMart, persino della mitica General des Eaux (oggi a molti nota come Vivendi Universal). A quell’appello mancano probabilmente WorldCom e Enron, ma solo per una svista, ma tutte le altre vengono proposte come esempi di lungimiranza manageriale. A conti fatti, e se escludiamo WalMart e General des Eaux che sono simpaticamente sulla via della bancarotta, nemmeno le altre stanno benone.

Qual è la spiegazione di tutto questo: è Tom Peters che porta sfiga o certe ricette manageriali sono solide quanto la faglia di Sant Andrea? È Tom Peters che si è fatto prendere in giro o la ascesa e caduta di certe divinità è parte integrante del nostro mondo fatto di parole, promesse, indebitamenti, tagli di tasse e soluzioni pronte all’uso? Perché se così fosse, non sarebbe carino scoprire tra quattro anni che la revisione del bilancio dello Stato è stata affidata ad Arthur Andersen.