E&M

2002/4

Claudio Dematté

L’impresa schiacciata fra la pressione dei mercati e la responsabilità sociale

Scarica articolo in PDF

La grande corsa verso la proprietà privata e il mercato

Il crollo prima del muro di Berlino e poi dell’Unione Sovietica ha reso evidente quanto da anni era già chiaro agli osservatori più attenti: che i sistemi economici basati sulla proprietà privata dei fattori di produzione e sulla allocazione delle risorse e del prodotto regolata dai mercati (sistemi capitalistici) erano di gran lunga più efficienti e più innovativi, e perfino più capaci di alzare il livello di vita delle classi più deboli, rispetto ai sistemi comunisti, fondati sulla proprietà pubblica delle imprese e sull’uso della pianificazione centralizzata come meccanismo di coordinamento dei processi economici.

Gli anni successivi hanno confermato e rafforzato questa verità storica e hanno inoltre mostrato che i sistemi comunisti non sono risultati superiori nemmeno là dove avrebbero dovuto eccellere: la protezione dell’ambiente e la creazione delle condizioni per lo sviluppo delle persone. I disastri ecologici di molti paesi ex comunisti sono la prova del fallimento sul primo fronte. Sul secondo, a parte il contributo dato all’innalzamento dell’istruzione, questi sistemi non hanno brillato nella tutela della libertà e dei diritti delle persone.

Alla luce della palese superiorità del capitalismo nel promuovere benessere economico e sociale, si è accentuata su scala planetaria la tendenza a sostituire i sistemi di pianificazione centralizzati burocratici – i famigerati gosplan – con meccanismi di scelta decentrata regolati dai mercati, a deregolamentare, a privatizzare banche e imprese, ad abbattere – all’interno dei paesi e fra i paesi – quanto avrebbe potuto ostacolare il libero funzionamento delle forze di mercato, a sostituire i sistemi politici funzionali ai modelli comunisti con modelli di democrazia rappresentativa.

Questo processo ha interessato anche quei paesi occidentali a democrazia realizzata nei quali nel corso del secolo scorso si era andata radicando una forte dose di statalismo, con la diffusa presenza di imprese pubbliche, di monopoli statali o municipali, con sistemi di pianificazione amministrativa.

Quest’insieme di interventi – liberalizzazioni, privatizzazioni, apertura delle frontiere – ha dato luogo a un processo di globalizzazione, all’intensificazione della concorrenza, all’indebolimento degli Stati nazionali nel controllo della dinamica delle proprie economie, sempre più condizionate da forze di mercato sovranazionali. Le imprese, sottoposte alla forte pressione competitiva, sono state costrette a reagire e sono diventate, volenti o nolenti, le protagoniste del progetto di rinnovamento, assumendo un ruolo centrale nel sistema economico e sociale. Questo cambio di marcia le ha costrette a rivedere non solo i propri sistemi operativi e gestionali, ma in molti casi le ha indotte a modificare anche i cardini attorno ai quali articolare le scelte, con conseguenze che vedremo.

In questa rincorsa verso l’uso più intenso dei meccanismi di mercato, gli Stati Uniti hanno esercitato una indubbia leadership, essendo il loro particolare tipo di capitalismo quello che più e prima di tutti gli altri aveva attribuito centralità ai mercati e alla proprietà privata delle imprese. Sono stati loro a dare un ulteriore nuovo impulso, innescando le prime grandi liberalizzazioni nei settori delle public utilities; sono stati loro a spingere la WTO (World Trade Organization) a negoziare attraverso vari round l’abbattimento delle barriere doganali, a spingere la liberalizzazione dei commerci mondiali e la libera circolazione dei capitali. Fautori convinti del proprio modello si sono battuti per migliorarlo al proprio interno e per promuoverlo all’esterno, generosi di consigli e di aiuti a coloro che volevano imitarlo. La Gran Bretagna, con l’avvento della Thatcher si è mossa nella stessa direzione, confermando la specificità del modello anglosassone che lo differenzia rispetto a quello dell’Europa continentale, molto più restio e più lento a seguire la strada delle liberalizzazioni e delle privatizzazioni, ma pur esso costretto a seguire di fronte all’evidenza dei fatti.

Le scosse telluriche che minacciano il sistema capitalistico

A distanza di qualche anno, la superiorità del modello capitalista rimane confermata. Ma cominciano a emergere inquietudini per il fatto che tale modello, nonostante la sua superiorità, da un lato non attecchisce in molti paesi che ne avrebbero bisogno, dall’altro non produce una equa diffusione del benessere, in quanto amplifica, anziché ridurre le disuguaglianze, sia all’interno dei paesi sia fra i paesi, dall’altro ancora, per le energie che sprigiona contiene rischi di implosione e non sembra in grado di fare fronte ai gravi rischi ambientali che incombono sull’umanità.

Queste inquietudini scaturiscono da più parti, a livelli diversi e con frequenza crescente. Dall’esterno, il movimento no global catalizza alcune di queste inquietudini, raccogliendo gli umori e le resistenze di quanti vedono nella concorrenza, e più ancora in quella su scala mondiale, una minaccia all’equilibrio economico e all’ordine sociale, anziché una fonte di benessere. Sempre dall’esterno, ma a un livello diverso di reazione, si collocano i movimenti radicali anticapitalistici islamici, culminati con l’attacco dell’11 settembre alle due torri di New York. Costoro contestano alla base, con motivazioni ideologiche e religiose, l’impostazione materialistica sottintesa al modello capitalista e la contestano con attacchi che seminano panico e scuotono gli elementi strutturali del sistema: l’andamento della borsa e la formazione delle attese che determinano gli aggregati economici (la domanda, l’offerta e l’allocazione del risparmio).

Di tono nettamente diverso, ma anch’esse riflesso di una preoccupazione crescente, sono le critiche interne al sistema: quelle della Comunità Europea con il Libro bianco sulla Governance (maggio 2001), gli ammonimenti di Kofi Annan sulla responsabilità sociale delle imprese, il programma delle Nazioni Unite per l’ambiente denominato “L’industria, un partner per lo sviluppo durevole” (giugno 2002), i richiami della FAO sulle diseguaglianze economiche, sulla fame e sul fatto che oltre metà della popolazione vive in condizioni di grande indigenza. Che il tema stia gradualmente assumendo un rilievo è confermato dal fatto che una rivista notoriamente pro mercato come l’Economist, dopo avere seguito alcune défaillance del sistema capitalista per eccellenza – quello americano –, ha sentito la necessità di rivedere il tema a 360 gradi con un servizio dal titolo emblematico “Il capitalismo e i suoi problemi” (18 maggio 2002). Altre istituzioni e diversi altri gruppi, pur convinti della superiorità del modello capitalista o proprio per questa convinzione, stanno dedicando attenzione alla possibilità che il modello, assieme alle energie positive, possa sviluppare distorsioni interne ed esterne in grado di metterlo in seria difficoltà. Il vacillare pericoloso delle borse per il concorso di un attacco esterno al sistema, come quello dell’11 settembre 2001, del crollo di un anello del sistema capitalistico occidentale (l’Argentina) e di clamorosi malfunzionamenti interni (caso Enron, Worldcom, Imclone ed altri) ha evocato il pericolo di una grande crisi come quella degli anni trenta.

L’attacco alle torri di New York ha amplificato le inquietudini, non solo per la gravità del fatto specifico, ma perché ha messo in evidenza che il modello capitalista è un costrutto occidentale; che, anche dopo la caduta del comunismo, esso solleva ancora in buona parte del mondo violente opposizioni; che è vulnerabile in quanto sistema, potendo essere travolto da reazioni isteriche dei mercati che sembrano contenere strutturali problemi di equilibrio, con il formarsi di bolle speculative, di improvvise depressioni e di rischi di implosione.

La sensazione di assedio e di pericolo che si è sviluppata nel mondo occidentale, oltre ad alimentare un forte spirito di reazione sul piano politico e militare, ha indotto alcuni a intensificare la riflessione sui punti deboli del sistema, sui suoi rischi strutturali, sulle tensioni che sprigiona al suo interno e all’esterno, sulla sua tendenza ad aumentare il benessere, ma anche ad amplificare, anziché ridurre, le disuguaglianze e quindi sulla sua incapacità a creare un mondo in cui sia possibile una convivenza pacifica. In breve, il sistema capitalista ha molti lati positivi ma qualche controindicazione che è necessario conoscere e correggere, se si vuole preservarlo e migliorarlo.

L’impresa e il mercato: un rapporto contrastato

Le preoccupazioni sulla capacità del sistema capitalista di sopravvivere alle sue proprie tensioni interne e agli attacchi esterni si sono traslati a un livello più basso, sull’istituzione che, assieme al mercato, è il perno e il motore del modello: l’impresa.

La necessità di riflettere sui comportamenti di quest’ultima scaturisce dal fatto che il sistema capitalistico dà il meglio di sé nel momento nel quale lascia dispiegare le forze della concorrenza; ma l’impresa, che nella sua essenza più piena esiste solo in un sistema di mercato, rispetto ad esso ha un rapporto contrastato, se non contraddittorio.

L’impresa, infatti, in quanto istituto che aspira a sopravvivere, a fare profitti e a svilupparsi, non ama la concorrenza; se può cerca di smarcarsi da essa; altrimenti cerca di eliminarla, vuoi facendo fallire i concorrenti, vuoi acquisendoli. Per questo, l’impresa in quanto singolo istituto chiede la concorrenza nei propri mercati di approvvigionamento ma vorrebbe sopprimerla in quelli di sbocco, e ha una naturale aspirazione a raggiungere uno stato di monopolio.

Da questo comportamento strutturalmente contraddittorio derivano conseguenze importanti: la preservazione o la realizzazione di un regime di concorrenza non si realizza automaticamente, per solo comportamento virtuoso delle imprese, ma presuppone un intervento esterno ad opera di qualche soggetto che si proponga questo obbiettivo, a dispetto delle lobby e degli interessi costituiti. Il ritardo e la lentezza con la quale in alcuni paesi capitalisti hanno affrontato questo problema è testimonianza della complessità insita nella costruzione di un sistema capitalistico “virtuoso” e della necessità che anche le stesse imprese e le loro organizzazioni rappresentative siano disposte a sacrificare gli interessi particolari per raggiungere un interesse più generale. La capacità di elaborare e attuare una lungimirante politica antitrust – che dipende dalla visione politica, ma anche dal gioco degli interessi – è fondamentale per evitare che il sistema capitalistico si avviti su se stesso. Da queste considerazioni discende una questione più generale: affinché un sistema di mercato funzioni al meglio occorre che gli attori più diretti – le imprese – abbiano piena consapevolezza di tutte le condizioni che possono portare al “fallimento del mercato” e agiscano affinché i loro comportamenti non vadano in direzione opposta. Rientra in quest’ambito anche un altro grande capitolo: quello dell’informativa. Il mercato, per funzionare ha bisogno, come l’uomo dell’aria, di informazioni, affinché i vari soggetti che intervengono dal lato della domanda o dell’offerta siano in grado di fare scelte informate. In caso contrario, il mercato non è in grado di indirizzare correttamente né i processi produttivi, né l’allocazione delle risorse, né la distribuzione del valore aggiunto. Anche su questo fronte, le imprese spontaneamente non si comportano come sarebbe necessario per la funzionalità del sistema. La loro aspirazione, per motivi diversi, è verso la segretezza, non verso la trasparenza. E subiscono la tentazione di barare al gioco, comunicando informazioni errate, se questo consente loro di trarre vantaggi.

Il caso emblematico è quello dei mercati finanziari dove – come base – c’è una forte asimmetria informativa fra le imprese che chiedono fondi e i risparmiatori che investono: affinché i mercati funzionino correttamente sarebbe necessario un forte e corretto scambio informativo che permetta agli investitori, con o senza la mediazione di intermediari finanziari, di avere le informazioni che consentano loro di valutare rendimenti e rischi attesi e di indirizzare le risorse verso gli impieghi più produttivi. Se le imprese manipolano i dati e trasmettono segnali devianti rispetto al loro stato e alle loro prospettive, esse inducono i mercati in errore, con il rischio di effetti domino che possono assumere dinamiche e intensità imprevedibili, come è accaduto con il crollo dei mercati dopo la bolla speculativa sulla nuova economia e con il caso Enron.

La domanda che si pone è quindi la seguente: sono le imprese – perno del sistema capitalistico – in grado di attenersi alle regole necessarie per il funzionamento di questo sistema, oppure sono quasi inevitabilmente portate, dalla logica che le guida (la massimizzazione del profitto o, nella versione più raffinata, del valore per gli azionisti) a “barare” al gioco, mettendo così a rischio la funzionalità del sistema? E se le imprese, lasciate sole, sono indotte in tentazione, quali norme, quali meccanismi, quali istituzioni possono obbligarle a comportamenti corretti? La questione è ancora più complicata perché quando si parla di imprese come soggetti – che possono comportarsi in modo da favorire o da inceppare i mercati – si semplifica una realtà più complessa. Le imprese non sono più quelle realtà dominate dall’imprenditore che le indirizza verso il raggiungimento degli obiettivi che egli definisce. Sono sempre di più “coalizioni” di attori che cooperano, ma che al tempo stesso competono per l’appropriazione del valore aggiunto. In questa competizione, gli attori che hanno più potere possono piegare le imprese a comportamenti che sono contrari sia all’interesse degli azionisti o di altri stakeholder sia alla logica corretta dei mercati. Le poison pills, le stock options con tempi brevi di esercizio, i bonus esorbitanti legati ai risultati di un singolo esercizio sono esempi di scollamento rispetto a ciò che sarebbe funzionale al buon funzionamento di un’impresa in un sistema di mercato.

Proprio per porre rimedio al rischio di disfunzioni interne al sistema si è aperto negli ultimi anni un grande capitolo di lavoro che va sotto la dizione di corporate governance. Nella sua versione più ristretta è rivolto ad allineare gli interessi del management a quelli degli azionisti. In quella più ampia a favorire comportamenti funzionali al buon funzionamento di un’economia di mercato. A giudicare da quanto emerge in continuazione dalla realtà, il problema è tutt’altro che risolto. Sembra di poter dedurre che le politiche che i vari governi hanno attivato per rinvigorire i mercati abbiano impresso una tale intensificazione della concorrenza da liberare energie positive – di efficienza e di innovazione – ma anche da attivare tentazioni sempre più grandi di comportamenti opportunistici che mettono a rischio il funzionamento stesso del sistema capitalistico.

Per quanto riguarda i mercati finanziari, queste tentazioni possono tradursi in modalità operative da parte di più operatori che, sommandosi, minano alla base la stessa ipotesi di mercati efficienti sui quali è costruita l’intera finanza moderna. Ciò accade se, come è successo ultimamente, si sommano comportamenti devianti delle imprese nel rappresentare le loro situazioni economiche e patrimoniali, atteggiamenti opportunistici da parte delle società di auditing, distratte dal loro ruolo di presidio della correttezza contabile da altri interessi confliggenti, interventi “sporchi” di intermediari anch’essi deviati da conflitti di interesse (trovandosi a fornire consigli di acquisto agli investitori mentre sono finanziatori delle imprese e venditori degli stessi titoli che vanno a sostituire quei prestiti). I vertici di ognuno di questi operatori erano probabilmente convinti, comportandosi come hanno fatto, di compiere semplicemente il proprio dovere: quello di curare l’interesse della propria impresa, o, come minimo, di non avere alternative di fronte alla pressione della concorrenza. Ma il risultato, al di là delle iniquità e delle distorsioni, è stato quello di introdurre nel sistema capitalista gravi fonti di instabilità, oltre che di inefficienza.

Si scopre oggi che i meccanismi ideati in passato per gestire questi possibili elementi distorsivi – dall’istituzione di Autorità antitrust alla creazione di Autorità dedite al presidio dei mercati finanziari, dall’emanazione di norme di contabilità e di trasparenza agli obblighi di revisione contabile, dalla legislazione sui mercati finanziari alla progressiva responsabilizzazione degli amministratori – non bastano più. In presenza di una concorrenza più intensa – voluta e programmata dalle autorità dell’ultimo decennio – sono aumentate di pari passo le tentazioni e le possibilità di comportamenti opportunistici che minano la funzionalità dei mercati e mettono a rischio il sistema capitalistico. Per porre rimedio a questo problema, le ricerche, i progetti di autoregolazione e le proposte normative si susseguono. Si veda il progetto dell’Amministrazione USA di introdurre nuove e più severe norme per prevenire e punire comportamenti che compromettono il funzionamento corretto dei mercati. È bene che si continui su questo filone di lavoro, poiché alto è il rischio di instabilità e gravi sono le conseguenze di un’eventuale défaillance del sistema.

Le diseconomie prodotte dal sistema capitalistico

Le linee di lavoro appena illustrate mirano a creare le condizioni affinché il sistema capitalista non divori se stesso attraverso comportamenti contraddittori assunti dai soggetti che ne sono il perno centrale. C’è un altro problema che incombe sul sistema e sull’impresa capitalistica: quello, per certi versi opposto, del rischio che un sistema siffatto, pur funzionando al meglio senza i comportamenti opportunistici autodistruttivi di cui si è detto, possa invece produrre “diseconomie”, scaricate sulla società, talmente destabilizzanti da innescare conflitti sociali, violenti antagonismi, o perfino rischi per il futuro del pianeta. La preoccupazione che ciò possa accadere o che stia accadendo riecheggia nei vari documenti citati all’inizio ad opera di organismi sovranazionali e assume tono e forza crescente con il passare del tempo. In questo caso l’interrogativo è il seguente: è possibile che le imprese, che nel compiere le loro scelte tengono conto solo dei ricavi e dei costi diretti a loro pertinenti, possano, sotto la spinta delle pressioni competitive, essere indotte in comportamenti che provocano danni all’ambiente o alle persone o squilibri nel tessuto sociale tali da delegittimare sia le imprese stesse sia lo stesso sistema capitalistico? È possibile che le imprese che – anche a causa della concorrenza crescente nei mercati dei capitali – hanno ristretto i loro criteri di guida con l’adozione di obiettivi come la massimizzazione del valore per gli azionisti, perdano di vista la necessità di un equilibrio più ampio per non compromettere anche lo stesso loro futuro?

Le risposte a questi interrogativi negli ultimi tempi sono sempre più spesso positive: sì, è possibile, questo rischio esiste ed è comprovato da accadimenti, quali la tragedia di Bhopal, il comportamento truffaldino delle imprese del tabacco negli USA, gli incidenti nel settore farmaceutico, la prassi di pagare tangenti che alterano la concorrenza e corrompono la società. Il dibattito e le tensioni che sono sorte sull’uso dei cibi transgenici conferma non solo le inquietudini profonde circa le innovazioni tecnologiche, ma anche quelle riguardo alla presunta disinvoltura nei comportamenti delle imprese, condizionati, secondo ampie fasce di popolazione, dall’ossessione del profitto, con poca attenzione verso le conseguenze derivate e i costi indiretti causati dalle loro azioni. L’inquinamento – a dispetto del fatto che esso è frutto sia di comportamenti individuali sia delle scelte delle imprese – viene attribuito come responsabilità prevalentemente all’avidità di queste ultime.

Come ho già accennato, i sistemi economici di mercato si sono dimostrati superiori per quanto riguarda la capacità di indirizzare le risorse e di stimolare l’efficienza nel loro uso. Lo sono, per esempio, quando le condizioni di domanda o di offerta cambiano. Essi innescano rapidi e profondi processi di conversione delle attività produttive, con fenomeni di downsizing o di scomparsa di intere realtà produttive con la relativa perdita di posti lavoro e la successiva comparsa di nuove attività. Gli squilibri, più o meno duraturi che ne conseguono, sono benefici per il sistema economico nel suo complesso, perché corrispondono a una diversa e più efficiente allocazione delle risorse, ma aprono ferite profonde nel tessuto sociale che ne viene colpito e attivano antagonismi e ostilità verso il sistema capitalistico.

È altrettanto provato che questo modo di organizzare le attività produttive, pur avendo mostrato di essere capace di alzare il livello complessivo di benessere anche delle classi più povere, tende ad amplificare i divari sociali – all’interno dei paesi e fra i paesi. Anche questo solleva forti tensioni, come testimonia il conflitto che si è aperto fra il mondo industrializzato e il terzo mondo.

Di fronte a questi fatti che dimostrano come il sistema capitalistico, nello svolgere la sua funzione, produce anche “scorie” e squilibri vari, mentre, pur con tutta la sua superiore produttività, non riesce a risolvere alcuni radicati malanni del mondo, si sono aperti diversi filoni di lavoro. Tutti si concentrano sul come indurre le imprese a darsi carico delle diseconomie esterne che esse producono nel corso della loro azione.

Tre di essi sono particolarmente rilevanti:

· lo sviluppo di una normativa che obblighi le imprese a determinati comportamenti socially responsible;

· l’attivazione di meccanismi sociali supplementari che producano lo stesso effetto senza vincoli di legge;

· l’internalizzazione di obiettivi sociali.

La correzione per via normativa sarebbe in sé e per sé quella più lineare e anche più confacente al modello capitalista. Essa si ispira ai principi dello Stato liberale composto di più soggetti con ruoli diversi: l’impresa è deputata ai processi produttivi e la si vuole tutta orientata al tale fine, con un obiettivo semplice nella sua definizione, anche se più complesso nella sua corretta traduzione operativa: la massimizzazione del profitto. Spetta allo Stato fissare le regole del gioco affinché l’impresa, nello svolgere questo suo ruolo, non produca danni alla società. Da questa fonte dovrebbero pervenire le norme che impediscono che le energie sprigionate dalla concorrenza si traducano in diseconomie esterne: in danni ambientali, in uso del lavoro minorile, in discriminazione dei lavoratori, in rischi per la salute, in altre possibili conseguenze negative.

Chi sostiene questa impostazione ritiene che l’assegnare alle imprese fini diversi da quelli loro propri e di tipo sociale attutisca la loro focalizzazione, produca deresponsabilizzazione verso il loro obiettivo primario e, per di più, abbia scarsa efficacia, perché, senza leggi cogenti che obblighino tutte le imprese, un mandato siffatto – lasciato alla discrezione di ciascuna impresa – viene travolto dalla logica della concorrenza. Le cattive esperienze delle nostre imprese delle ex partecipazioni sociali vengono portate a prova della deriva che possono prendere soluzioni siffatte. Anche se l’impostazione normativa è la più limpida e la più corretta, essa non è sufficiente nei fatti per due ragioni: da un lato, perché il varo di norme è un processo faticoso e lungo, frutto di pressioni e di lobby, fra le quali primeggiano quelle delle imprese che dovrebbero subire le norme. Sicché queste arrivano spesso quando i danni sono già stati fatti. Si pensi alle imprese del tabacco americane. In secondo luogo perché la delimitazione dell’operato delle imprese per via normativa è rigido, non tiene conto dei cambiamenti, che sono più veloci del processo di legiferazione, e può degenerare creando una ragnatela di “lacci e laccioli” controproducenti. Per questo motivo, nel tempo si è andato sviluppando un filone di lavoro alternativo, più flessibile, di regolazione sociale. Questa impostazione fa leva sul fatto che le imprese, anche se istituzioni potenti, sono pur sempre alla mercé, da un lato, dei consumatori e, dall’altro, degli investitori. Queste due categorie di stakeholder sono anch’esse soggetti sociali, e in quanto persone sono loro a essere colpite dalle diseconomie esterne che le imprese abbiano a produrre nel corso della loro attività.

Una loro attivazione ai fini di arginare i comportamenti delle imprese è stata considerata possibile ed efficace. È così che in alcuni paesi si sono sviluppati dei movimenti – in quanto tali più flessibili e più veloci nella loro azione – rivolti a “punire” le imprese che scaricano scorie sulla società. Due sono i movimenti: uno è quello dei consumatori che boicottano i prodotti delle imprese scoperte a praticare comportamenti contro la società (si pensi alle azioni contro le imprese che si avvalevano del lavoro minorile); l’altro è quello della finanza socially responsible che fa leva sulla sensibilità per questioni sociali e ambientali degli investitori e indirizza gli investimenti verso le imprese che rispettano certi obiettivi. Questi movimenti hanno il pregio di mobilitare la coscienza delle persone e di arginare le possibili diseconomie esterne prodotte dalle imprese attraverso un processo sociale che parte dal basso e coinvolge i soggetti colpiti. Ma questa sua natura di movimento che ha il pregio della flessibilità, della capacità di rompere lo status quo, di coinvolgimento e quindi di allarme tempestivo, non solo a danno compiuto, ha anche controindicazioni. In particolare, rischia di prestare il fianco a “guerre di religione”, con scarso fondamento scientifico ma molta leva su paure ataviche. Alcune questioni ambientali sono state catturate da moti siffatti producendo esattamente l’effetto opposto rispetto a quello desiderato. Ne è esempio la battaglia contro l’alta velocità che nel nostro paese ha pesantemente frenato lo sviluppo del trasporto ferroviario producendo come effetto l’intasamento di strade e autostrade, l’inquinamento e migliaia di morti e feriti. I movimenti sono energie preziose, ma il loro corretto incanalamento è tutt’altro che scontato. Sembra sfuggire a questi pericoli l’onda della finanza socially responsible, anche perché è strutturata su basi professionali e mobilita le persone nelle loro scelte individuali, non attraverso effetti gregge che gonfiano e distorcono le emozioni e tolgono razionalità alle scelte, come accade per altri movimenti a struttura collettiva. In questo caso, intermediari professionali selezionano cluster di imprese che rispettano valori e obiettivi predefiniti e offrono agli investitori la possibilità di premiarli con il loro investimento. Proprio per questa sua struttura, essa opera più come un incentivo economico che si integra nel processo decisionale dell’impresa regolandone il funzionamento.

Il terzo filone di lavoro è interno all’impresa. Riguarda i criteri di fondo che dovrebbero ispirare le scelte. Ci si chiede, in questo caso, se la massimizzazione del profitto o la più recente massimizzazione del valore per gli azionisti siano necessariamente e in modo vincolante gli obiettivi giusti da porre a perno del sistema decisionale. Oppure se questi non generino distorsioni che alla lunga producono controindicazioni, quali la reazione dei consumatori di cui sopra o l’abbandono degli investitori insoddisfatti di comportamenti che caricano negatività sulla società. Com’è noto, il passaggio dall’obiettivo storico della massimizzazione del profitto a quello della massimizzazione del valore per gli azionisti era stato indotto anch’esso dalla ricerca di un migliore punto di riferimento. In quel caso il problema consisteva nel fatto che la massimizzazione del profitto, senza specificazione dell’orizzonte temporale cui si riferiva e senza tenere conto del capitale impiegato, poteva indurre a scelte di breve periodo dannose per l’impresa, per i suoi vari stakeholder e per gli stessi azionisti. Una abbondante letteratura si è accumulata su queste questioni mettendo in luce i possibili controeffetti negativi.

Per cogliere la direzione degli eventi, va rilevato che l’affermazione del principio della massimizzazione del valore per gli azionisti si è verificata proprio durante il periodo di intensificazione della concorrenza sui mercati dei capitali, a causa delle liberalizzazioni: quindi come criterio di gestione strumentale anche a garantire la competitività delle imprese verso gli investitori.

Per quanto si affermi che l’applicazione di siffatto principio ottimizzi i rapporti con tutti gli stakeholder, risulta evidente che questo non è necessariamente vero. Quando un’impresa colpita da un crollo temporaneo di domanda effettua un energico taglio degli organici per preservare il valore per gli azionisti, e quindi per conservare la sua capacità di attrarre finanziamenti, è difficile affermare che vada anche nell’interesse dei lavoratori colpiti dal provvedimento o della collettività che li ospita. Nella migliore delle ipotesi si può affermare che va nell’interesse dei lavoratori rimasti, che vedono tutelato il loro futuro dal ritrovato equilibrio economico dell’impresa.

Proprio perché l’assunzione del principio della massimizzazione del valore degli azionisti non è in grado automaticamente e sempre di tenere conto dei costi esterni indotti dalle scelte così motivate, c’è chi ritiene che l’obiettivo da assumere come guida nella gestione dell’impresa debba essere più articolato, meno monodirezionale. Il management e gli azionisti, secondo questa impostazione, dovrebbero avere una visione più ampia e temporalmente più estesa delle condizioni che portano al successo dell’impresa, tendendo conto che essa vive e prospera grazie al contributo di più soggetti e si alimenta della ricchezza e della qualità del territorio in cui è insediata. Accogliendo questa prospettiva si possono giustificare temporanei scostamenti dall’obiettivo della massimizzazione del valore per gli azionisti, se essi servono per favorire altri equilibri e la creazione di un tessuto di relazioni positive che alimentano un circolo virtuoso. Per dirla con le parole di Kofi Annan, le imprese devono “sostituire la logica della cittadinanza alla logica della redditività”.

Ho già detto che esperienze passate di inclusione di obiettivi sociali fra i criteri di gestione non hanno prodotto risultati soddisfacenti. Troppo spesso tali obiettivi sono diventati alibi per gestioni inefficienti o per prassi discutibili. Ma il problema di questa impostazione sta anche su un altro piano: quello della praticabilità, in condizioni di forte concorrenza, da parte di una singola impresa, di una visione allargata che si dia carico di costi aggiuntivi sia pure per fini condivisibili e alla lunga anche produttivi. Può un’impresa che si trova in concorrenza con un’altra che pur osservando i vincoli di legge scarica sulla società alcuni costi, seguire una strada diversa senza soccombere? A prima vista sembrerebbe che quanto più intensa è la concorrenza tanto minore è la discrezionalità del management. Ma alcuni pensano che sia possibile ricavarsi spazi di libertà nelle strategie da perseguire valorizzando agli occhi dei consumatori, dei lavoratori o degli investitori o di tutti costoro la responsabilità sociale. Altri pensano che, se la singola impresa non può scostarsi dal comportamento delle sue concorrenti, è però vero che le imprese nel loro insieme, attraverso gli organi di categoria e attraverso le loro interazioni possono darsi regole aggiuntive rispetto a quelle previste dalla legge in modo da attenuare gli effetti altrimenti negativi prodotti dal loro operare. Nessuno dei tre filoni di lavoro, da solo, è in grado di contenere le diseconomie esterne causate dalle imprese. Ma essi testimoniano che il problema c’è, è avvertito e ha messo in moto meccanismi di reazione volti a risolverlo.