E&M
2015/3
Indice
Dossier: banche al test della riforma
Unione bancaria: ambizioni, certezze e rischi
Banking union and fiscal backstops
Verso un mercato finanziario più stabile e integrato
Tanti passi avanti ma un cammino ancora lungo. Intervista a Massimo Della Ragione e Alessandro Decio
Moneta, finanza e regole
Euroscenari
Il Diversity Management
Imprenditori & imprese
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Letti per me
Articoli
Considerazioni sulla legislazione e sulla vigilanza bancaria
Supply Chain Analytics: decidere con i dati
Crescere nei settori maturi. Spunti da tre medie imprese dell’alimentare italiano
Il processo strategico. Come migliorare la capacità di decidere in azienda
Una rottamazione avventata
Scarica articolo in PDFPer vari motivi di metodo e di merito reputo il decreto banche popolari discutibile e dannoso. Nel metodo è mancata una seria discussione su pregi e difetti delle dieci maggiori popolari. La scelta di forzarne la trasformazione in SpA per decreto – per di più con la ‘fiducia’ – è stata improvvida. In primis, è stato mistificatorio accampare l’urgenza di un provvedimento ove neanche i sostenitori della trasformazione potevano vedere concreti rischi di instabilità per quelle banche che avevano appena passato agevolmente l’Asset Quality Review della BCE. E, per inciso, si pensi al bailamme per eventuali ricorsi, verosimilmente non derubricabili, alla Consulta. Inoltre, è infantile l’equazione renziana “più banchieri = meno credito” ergo “meno banchieri = più credito”. Chi segue la questione sa bene che avere banche più grandi (meno banchieri) non darà più credito ma, come argomenterò, semmai ne darà di meno.
Sul merito, due sono stati i principali argomenti a favore. Da un lato, si è detto che la forma cooperativa ostacolerebbe i processi di capitalizzazione delle banche. Però si è taciuto che in concreto le popolari si sono sempre ricapitalizzate senza particolari difficoltà. Dall’altro, si sono sottolineati i problemi di governance delle grandi popolari incolpando la bassa contendibilità dovuta al voto capitario[1]. Ma tale impostazione trascura due fatti. Primo, le banche che – in quanto più orientate al servizio degli azionisti – avevano indicatori di governance migliori hanno avuto performance peggiori nella crisi recente[2]. Secondo, la governance di una banca ne influenza anche il modello di business, per cui il giudizio complessivo sulla trasformazione da cooperativa a SpA deve valutare non solo l’eventuale beneficio alla redditività della banca ma anche i possibili effetti negativi con la modifica del suo modello d’affari. Su quest’ultimo punto mi concentro di seguito.
Molti contributi accademici mostrano che allo sviluppo dei sistemi di piccole imprese hanno dato un sostegno importante le banche del territorio, soprattutto quelle cooperative. Ma perché la banca cooperativa differisce da quella SpA in termini di obiettivi, incentivi, governance, modello di business e, con ciò, vocazione a sostenere famiglie e piccole imprese? In particolare, se vogliamo una banca[3] che razioni meno possibile il credito ai debitori che soffrono di più i problemi di asimmetria informativa (proprio le piccole imprese), serve soprattutto una banca che operi con un modello di relationship banking. Cioè, una banca che investa in relazioni forti e di lungo periodo con i debitori con cui raccogliere le informazioni soft indispensabili a evitare il razionamento. Ebbene, la banca cooperativa tipicamente pratica il relationship banking assai più della SpA.
Ciò per tre motivi. Primo pilastro, mentre la SpA mira solo a massimizzare il profitto, la cooperativa ha (in parte) finalità mutualistica e opera per una pluralità di stakeholder anziché per il solo gruppo degli shareholder. Secondo, nella banca cooperativa i clienti hanno incentivi diversi che in una SpA. Infatti, nella cooperativa spesso i clienti sono anche soci e, quindi, essendo sia depositanti che azionisti possono avere incentivi al peer monitoring – il controllo tra pari alla radice del successo della Grameen Bank di Yunus – cioè a fornire alla banca informazioni che le evitino di dare credito a soggetti inaffidabili. Terzo pilastro, è diversa la governance. Nella SpA gli azionisti pesano in base al numero di azioni possedute. Al contrario, nella cooperativa ogni azionista ha un voto a prescindere dal numero di azioni (voto capitario). Ciò accresce la accountability democratica della banca cooperativa e si sposa con la sua mission verso la più ampia platea di stakeholder. Insomma, diversità di mission, diversità di incentivi e maggiore rappresentanza democratica per il voto capitario spingono tutte assieme la cooperativa ad adottare il modello di relationship banking.
Servono eccome pure le banche transazionali, orientate ai debitori con minore asimmetria informativa e ai servizi cruciali per il raccordo con i mercati finanziari e per molte altre esigenze. Ma, al loro fianco, servono le banche relazionali – specie quelle cooperative – focalizzate su famiglie e piccole imprese. Il giusto equilibrio tra le due forme lo deve stabilire la clientela. Autorità regolamentari e governo dovrebbero garantire la neutralità senza intervenire ad alterare le forze in gioco. E, del resto, vari studi mostrano come i sistemi bancari nazionali che hanno saggiamente tutelato la biodiversità tra le varie forme societarie delle banche sono stati meno esposti alla crisi finanziaria globale.
Da quanto sopra discende che la trasformazione di una banca cooperativa in SpA rimuove immediatamente il terzo pilastro e mina gradualmente gli altri due. Perciò, nel tempo, la cooperativa si sposterà dal costoso relationship banking al più economico transactional banking, che porta la banca a fare più finanza e meno credito.
Chi sostiene il decreto potrebbe dire che le dieci grandi popolari non sono più cooperative. Il ragionamento non funziona perché, come nei processi truccati, inverte l’onere della prova. Non sta alle dieci popolari dimostrare che sono diverse dalle banche SpA. Sta ai proponenti della riforma dimostrare in modo inequivocabile che sono come le SpA, cosa che dubito sia dimostrabile. Inoltre, il ragionamento è viziato perché non si dà altra via d’uscita. Cioè, se le dieci popolari non fossero più banche cooperative allora si dovrebbe dar loro anche l’opzione di tornare a esserlo anziché forzarle a divenire SpA. Non dando questa possibilità, si disconosce il valore della banca cooperativa. È per questo che, con Leonardo Becchetti, abbiamo stilato un appello sottoscritto da 160 economisti.
Quali dunque le conseguenze per l’economia italiana del decreto sulle banche popolari? Le dieci principali banche popolari cambieranno modello di business e ridurranno la loro capacità di finanziamento di famiglie e piccole imprese. Il danno si manifesterà quando le piccole imprese avranno recuperato gli animal spirits per riavviare il ciclo di investimenti perché sarà per esse più difficile trovare credito. Ne deriverà un contributo a rendere permanente quell’impoverimento che l’Italia ha subito dal 2008 in poi.
In un paese statico come il nostro è legittimo pensare che la rottamazione aiuti a recuperare il dinamismo perduto. Però bisogna fare attenzione a non rottamare anche quello che serve.